Sermone: Predicazione di Domenica 18 Marzo – Giovanni , 45-48

 

Natanaele gli disse: “Può forse venire qualcosa di buono da Nazaret?” Filippo gli rispose: “Vieni a vedere”.

L’evangelista Giovanni sta raccontando come Gesù raccolse intorno a sé i primi discepoli, e notiamo subito che questo gruppo si forma in un duplice modo: alcuni, Gesù li incontra di persona e rivolge loro un invito formulato con tanta autorevolezza che all’interpellato è impossibile resistere: in questi versetti avviene così per Filippo, mentre il caso più impressionante di “chiamata diretta” ce lo racconta Luca nell’episodio della vocazione di Levi (5: 27-28). Altri discepoli, invece, si avvicinano a Gesù perché sono incuriositi e attratti dalla sua fama, perché hanno sentito parlare di lui da qualcuno in cui hanno fiducia. Nel primo modello di chiamata risalta la potenza di Gesù, una potenza che non è di questo mondo; il secondo modello di chiamata è invece molto più consueto, molto più quotidiano, avviene mediante una sorta di “passaparola” che è un’esperienza familiare a tutti noi. In questi versetti giovannei è appunto con il “passaparola” che entrano a far parte della cerchia di Gesù Andrea, che lo segue per aver ascoltato Giovanni; Simone, che viene condotto a Gesù da suo fratello Andrea; e Natanaele, che viene invitato da Filippo a fare la conoscenza di Gesù. Tra tutti costoro, Natanaele è l’unico al quale Giovanni attribuisce una certa resistenza a questo incontro, uno scarso entusiasmo dettato da scetticismo per un presunto messia proveniente da una località così insignificante come Nazaret. Dinanzi alle obiezioni di Natanaele, Filippo non si dilunga in discorsi, ma propone un’esperienza diretta: “Vieni a vedere”.

Questa esigenza di sperimentare di persona, concretamente, la presenza di Dio è un tema ricorrente nel vangelo di Giovanni. “Da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri”, dice Gesù ai discepoli nel discorso pronunciato durante l’ultima cena (13: 35). “Mostraci il Padre”, lo supplica poco dopo Filippo, e Gesù risponde “Chi ha visto me, ha visto il Padre” (14: 8-9). “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi … io non crederò”, dichiara Tommaso, e Gesù risorto lo invita a fare l’esperimento: “Porgi qua il dito e vedi le mie mani; porgi la mano e mettila nel mio costato” (20: 25-27). Potrebbe sembrare strano questo bisogno di vedere, di toccare, di provare, di gustare anche: sappiamo infatti che la fede di Israele si fonda sulla parola e sull’ascolto, che la dimensione del visibile come manifestazione del divino non è al cuore della tradizione del popolo ebraico ed è sostanzialmente estranea anche alla tradizione del cristianesimo protestante, incentrata sull’ “ascoltare” più che sul “vedere”.

Eppure, Gesù non si dimostra chiuso né scandalizzato dinanzi a questa esigenza così umana, l’esigenza che Dio si manifesti alla sua creatura non solo mediante la Parola ma anche per altre vie, vie più concrete, più tangibili. Certo, c’è il suo rimprovero all’incredulo Tommaso; ma più che di un vero rimprovero si tratta di un confronto tra due diversi livelli di fede, quello più maturo che non ha bisogno di “vedere” e quello più imperfetto, che richiede qualcosa di simile a una “prova”. Un tempo, lo sappiamo, dell’armamentario teologico faceva parte tutto un repertorio di cosiddette “prove dell’esistenza di Dio” basate su argomentazioni razionali: si tratta di “prove” che mai sono riuscite a portare alla fede un non credente e che tanto meno al giorno d’oggi possono ritenersi proponibili ai nostri contemporanei, uomini e donne bisognosi di essere toccati, coinvolti nell’intimo, in ciò che la Bibbia chiama “cuore”. […]

Oggi, a chi cerca Gesù non è più possibile, come era possibile per i primi discepoli, incontrarsi con una persona in carne ed ossa, dotata di una piena fisicità; oggi chi è in ricerca deve rivolgersi a coloro che Gesù ha lasciato come suoi testimoni, a quelli che compongono la sua Chiesa. Devono rivolgersi, quindi, a noi. E noi, che cosa abbiamo da offrire a queste persone in ricerca? Tante cose, moltissime cose, ma in primo luogo dobbiamo rivolgere loro l’invito che Filippo rivolse a Natanaele: “Vieni a vedere”.

“Vieni a vedere”.  È l’invito che anche noi rivolgiamo a chi ci avvicina dimostrandosi interessato, o quanto meno incuriosito, nei confronti di questa realtà così strana e anomala nel contesto religioso e culturale italiano: una Chiesa evangelica. Certamente, se l’interesse di questa persona ci sembra profondo, motivato, noi pastori proponiamo un percorso catechetico da svolgere mediante un ciclo di incontri personali, ma il primo passo resta sempre questo invito: “vieni a vedere”. L’invito può essere naturalmente formulato in altri termini, ma la sostanza resta questa: vieni a “provare”, come dice il salmo, vieni a “gustare”, come dice la lettera di Pietro, vieni a “toccare con mano”, per dirla con Tommaso; vieni, insomma, a renderti conto di persona come il Signore si manifesta nella comunità dei credenti.  Ho avuto ormai varie occasioni di rendermi conto dell’importanza fondamentale di questo “venire a vedere” per la nostra testimonianza cristiana ed evangelica. Come a tanti pastori, anche a me capita di venire chiamata a parlare della nostra fede in qualche scuola, o in qualche gruppo cattolico aperto e disponibile; di solito vengo ascoltata con interesse e mi vengono rivolte varie domande, alle quali rispondo con la massima precisione possibile. Mi rendo sempre conto, però, che queste spiegazioni, per quanto esaurienti, non bastano, e allora rivolgo l’invito: “perché non venite una volta nella chiesa metodista di Padova, a vedere come si presenta un luogo di culto evangelico?”. Anzi, qualche volta la richiesta parte direttamente dai miei interlocutori, dagli insegnanti o dai responsabili del gruppo parrocchiale: “possiamo una volta venire nella tua chiesa?”. E poi vengono davvero, e noto che tutti sono incuriositi e interessati: qualcuno è perplesso, qualche altro è chiaramente a disagio, ma molti sembrano, invece, trovarsi molto bene nel nostro ambiente, quasi “a casa loro”; e c’è poi qualcuno che il giorno dopo me lo conferma, con una telefonata, un biglietto, una e-mail, e magari chiede se può una domenica partecipare al culto.

“Vieni a vedere”. Ma che cosa dovrebbe vedere, questo visitatore curioso? Vedrebbe, certamente, un locale di culto come non se ne vedono molti in Italia, una chiesa che non sembra nemmeno una chiesa, priva com’è di decorazioni, di dipinti, di statue, di tabernacoli, di arredi sacri, una chiesa in cui il punto focale sul quale converge lo sguardo è una grande Bibbia aperta su un leggìo; e spetterebbe a noi, allora, spiegargli perché questa chiesa si presenta così, raccontargli quindi la nostra storia e la nostra fede. Eppure, l’aspetto esteriore della nostra chiesa, sebbene importante per molti motivi, non è l’essenziale di ciò che il nostro visitatore curioso dovrebbe vedere, dovrebbe scoprire, presso di noi. L’essenziale dovrebbe essere, piuttosto, la “casa spirituale” di cui parla Pietro: una casa edificata sì con pietre materiali ma animata da “pietre viventi”, una casa nella quale tutti coloro che la abitano esercitano “un sacerdozio santo”, offrendo “sacrifici spirituali, graditi a Dio per mezzo di Gesù Cristo”.

Insomma, il nostro visitatore dovrebbe essere messo in condizione di “vedere” nella nostra comunità la realizzazione concreta di ciò che intendeva Lutero, allorché diceva che ogni cristiano è partecipe del ministero sacerdotale di Cristo. Dovrebbe vedere una comunità che non soltanto crede a questo principio dottrinale, che è uno dei capisaldi della Riforma, ma vi aderisce con tutta sé stessa e lo mette in pratica quotidianamente. E come lo mette in pratica? Risponde ancora Pietro: lo mette in pratica sbarazzandosi “di ogni cattiveria, di ogni frode, dell’ipocrisia, delle invidie e di ogni maldicenza”. Si può obiettare che il nostro visitatore non può certo aspettarsi di essere stato invitato a “venire a vedere” una comunità perfetta. Certamente no; ma ha tutto il diritto di aspettarsi  una comunità che, nonostante tutte le sue fragilità, è salda nella fede e cerca di comportarsi come si comporta – per usare ancora le parole di Pietro – “chi davvero ha gustato che il Signore è buono”. Vogliamo dirla con parole più semplici? Ricorriamo allora alle parole del discorso di Gesù riportato da Giovanni, al quale accennavo prima: “Da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri”. No, certo, il nostro visitatore non ha diritto di aspettarsi una comunità perfetta; ha tutto il diritto, però, di aspettarsi una comunità di discepoli. Discepoli che facciano davvero vedere, conoscere, gustare, provare “quanto il Signore è buono”.

(Estratto dalla riflessione della pastora Caterina Griffante)

Sermone: Predicazione di Domenica 11 Marzo – Osea 10, 12

Seminate per voi secondo giustizia e mieterete secondo bontà; dissodatevi un campo nuovo, perchè è tempo di cercare il Signore, finché egli venga e diffonda su di voi la giustizia.

La Parola di Dio, che ci giunge attraverso le parole della Scrittura, è così ricca di senso che i nostri giorni su questa terra non bastano perché ne possiamo comprendere tutto il significato profondo che ci è necessario per la costruzione della nostra interiorità dalla quale nascono le nostro azioni, davanti a Dio e davanti agli uomini.

Perciò è prezioso ogni momento che dedichiamo alla meditazione, ma in particolare lo è questo breve tempo che ritagliamo negli affanni quotidiani per dedicarlo al culto comune. Questo ci permette di uscire dalle nostre varie solitudini per sostare insieme ai piedi del Maestro, sapendoci discepoli chiamati ad avere un medesimo animo, consapevoli della povertà dei nostri linguaggi ma tesi nella preghiera che lo Spirito santo ci sia luce e guida.

Quando l’evangelo ci parla di terra, di seme, di grano buono, parla della nostra vita. Della nostra vita di uomini e donne, di esseri singoli e al tempo stesso strettamente interdipendenti gli uni dagli altri in quella fitta rete di aggregazioni umane che ricoprono la faccia di questa nostra terra. L’agricoltore non lavora a caso. Se vuole del buon grano che gli dia pane per campare, lavora al meglio il campo che ha. Comincia prima di tutto da quello. Poi si sceglie la qualità del seme, semina, e a suo tempo raccoglie. Non c’è niente di nuovo in questo: è stato così fin dai tempi dei tempi e avviene anche oggi. Ma se il coltivatore vede che il campo non gli dà pane, lo lascia e dissoda un campo nuovo. E questa volta sa che non dovrà fallire – ha bisogno estremo di alimento, quindi è lì, in questo campo nuovo che porrà le sue energie e lì fonderà le sue speranze per il suo presente e per il suo futuro. Proprio così è della nostra vita. […]

Ebbene, l’appello che ci viene dalla Parola è chiaro: in tutti questi casi non ci può, non ci deve essere esitazione. Abbandoniamo il vecchio e dissodiamo un campo nuovo. Facciamoci un’altra vita. È questo che hanno fatto tutti coloro che si sono convertiti alla buona notizia dell’evangelo, che si sono aperti nell’interezza della propria persona a Dio perché egli vi deponga il seme del Regno di giustizia – o del Regno dei cieli come la Bibbia spesso lo chiama – che il Cristo ha già seminato e che è già presente sulla terra e nella nostra stessa vita, come molti di noi sanno per esperienza; e poi hanno rovesciato la propria terra per scendere a una maggiore profondità e riconoscervi gli elementi utili che frutteranno in nutrimento e vita. Cambiamento, rinnovamento, lo sentiamo invocare tutti i giorni nella crisi che attraversa gran parte del mondo. Ma da dove si comincia? C’è un solo punto di partenza utile ed efficace e ce lo dice il nostro testo: è tempo di cercare il Signore, finché egli venga e diffonda su di noi la giustizia. Il riassetto dell’anima nostra dipende dal rinnovamento dei nostri pensieri e del nostro agire nell’appassionata e quotidiana ricerca di Dio come è stato reso luminosamente evidente nel Cristo, nella sua predicazione, nella sua compassionevole personificazione nei più miseri, nella sua mite assunzione di morte come di un agnello sacrificale e che il Padre ha tradotto nella gloria eterna della vittoria sul male e sulla morte. E’ con questa realtà che il mondo oggi si scontra e si confronta – tutto il mondo nelle sue molteplici forme di costumi, di pensieri, di conoscenze, di linguaggi, di logiche di vita, oggi con questa realtà vissuta e presente nel Cristo, il mondo si scontra.

l riassetto economico della gente, di cui si sente un bisogno enorme, dipende dalla scoperta che la ricerca di questo Dio che cozza contro tutti gli egocentrismi è il luogo dove uomini e donne ritrovano dignità e piena umanità. Il riassetto del mondo sociale e politico dipende dal piegare gli orgogli e gli egoismi che dominano i popoli e le società nella scoperta che il rinnovamento sta nei piani di Dio per gli uomini, predicati e resi reali nel Cristo, e non nei piani degli uomini. Questo è il messaggio che questa nostra piccolissima comunità. molto poveramente e molto immeritatamente vuole vivere e annunciare. Perciò ci giunge preziosa l’esortazione dell’apostolo: carissimi, state in guardia per non venir meno nella vostra fermezza, travolti anche voi dall’errore degli empi; ma crescete nella grazia e nella conoscenza del Signore nostro e salvatore Gesù Cristo. A lui la gloria, ora e nel giorno dell’eternità. Amen!

(Estratto dalla riflessione della sorella Febe)

Sermone: Predicazione di Domenica 4 Marzo – Efesini 2, 8-10

E’ per grazia che siete stati salvati, mediante la fede; e ciò non viene da voi: è il dono di Dio. Non è in virtuù di opere affinché nessuno se ne vanti; infatti siamo opera sua , essendo stati creati in Cristo Gesù per fare le opere buone, che Dio ha precedentemente preparate affinché le pratichiamo.

Le opere buone! Credo che, tra tutti i punti che differenziano protestanti e cattolici nel modo di vivere e di interpretare la fede cristiana questo delle opere buone sia uno dei più conosciuti. Sì: in genere, in un Paese come il nostro, prevalentemente cattolico almeno come cultura e come tradizione, i protestanti sono “quelli che non credono [in ordine di importanza] nel papa, nella Madonna e nelle opere buone”. Credono solo nella Bibbia: eppure anche la Bibbia parla di “fare opere buone”, per esempio in questo passo della lettera agli Efesini, o anche nel versetto di Matteo che abbiamo ascoltato (Mt 5, 16). Come la mettiamo, allora?

Risposta immediata: consideriamo il contesto di questa affermazione di Paolo sulle opere buone. È un contesto dal quale risalta molto chiaramente quello che è il principio basilare della Riforma, cioè l’inutilità delle opere umane, anche di quelle buone, per acquistare la salvezza: per “essere giustificati”, per usare il termine teologicamente più preciso, che tuttavia ai nostri contemporanei suona di difficile comprensione. Per dirla tutta, è un discorso che anche molti protestanti faticano ad accettare. Non è una cosa che vada da sé, che l’essere umano sia “giustificato”, cioè accettato da Dio e a Lui gradito, solo per fede. Il nostro buonsenso vorrebbe che quanto meno si fosse “giustificati” per fede e per opere, le opere buone che tutti, se vogliamo, possiamo compiere. Anzi, può perfino darsi che, sotto sotto, anche noi protestanti pensiamo che quello che conta per Dio sono proprio le opere – s’intende quelle buone – perché quello che conta davvero nella vita, anche nella vita cristiana, non è ciò che pensiamo, crediamo e diciamo, ma ciò che facciamo, e in questo senso siamo inclini a pensare che in fin dei conti siamo giustificati solo per opere: sono infatti le opere, e non altro, il banco di prova della fede. Questo discorso è più che ragionevole, di una ragionevolezza tutta umana; ma non è il discorso che fa la Scrittura.

La Scrittura infatti ci dice che le nostre opere, per buone che siano, non possono saldare il nostro debito con Dio. Ma come, siamo debitori verso Dio? In che senso lo siamo? Sì, siamo in debito verso di Lui, se crediamo in Lui. Abbiamo nei suoi confronti  il debito dell’obbedienza che il figlio o la figlia hanno nei confronti del Padre; il debito della riconoscenza, che la creatura ha nei confronti del Creatore; il debito della lode, che il prigioniero ha nei confronti di Chi lo ha liberato; il debito dell’amore, che l’amato ha nei confronti di Colui che lo ama; il debito della testimonianza, che ha chi ha scoperto Dio e sé stesso nella storia e nell’opera di Gesù di Nazareth. […]

Per saldarlo non servono né le “buone opere” che possiamo aver compiuto, poche o molte che siano, né alcun altro mezzo. Anche perché noi non abbiamo nessuna idea della ferita che le nostre trasgressioni provocano in Dio (ci pensiamo mai? Dio soffre, è ferito ogni volta che il suo meraviglioso progetto di vita e di amore viene violato, viene vanificato dalle trasgressioni degli esseri umani);  così come non abbiamo nessuna idea del danno che recano alle vittime. Questo avviene anche, forse soprattutto, per esempio, nel caso di colpe che non sono tali per la legge umana ma solo per la legge divina, come ad esempio nutrire rancori o invidie, diffondere maldicenze, o semplicemente non fare il bene che potremmo fare. Sotto questo aspetto, nessuno di noi si salva. Se siamo onesti dinanzi a Dio, non possiamo non riconoscerci in quello che dice l’evangelista Giovanni: “Se diciamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi, e la verità non è in noi” (1 Gv 1: 8).  […]

Quali sono gli impulsi ai quali obbediamo, anche quando compiamo qualcosa di buono? Siamo sicuri di essere sempre generosi, sempre solleciti del bene altrui prima che del nostro, sempre pronti a mettere in secondo piano i nostri interessi, la nostra comodità, il nostro quieto vivere se qualcuno ha bisogno di noi?  E anche quando facciamo del bene, e lo facciamo sinceramente e con dedizione: siamo sicuri della nostra purezza, del nostro totale disinteresse? Siamo sicuri di non strumentalizzare mai, nel fondo del nostro animo, coloro che serviamo, si tratti del nostro prossimo o della nostra Chiesa?  La durezza dei versetti della Genesi ci libera da una doppia illusione. La prima è l’illusione su noi stessi: pensare cioè di essere fondamentalmente buoni così come siamo, indipendentemente da Cristo. La seconda illusione è di poter stabilire che cosa è bene (e inversamente che cosa è male) indipendentemente da Dio e dalla sua parola. Conseguenza di queste due illusioni è l’atteggiamento dal quale Paolo ci mette in guardia: “vantarci” delle nostre opere.

È necessario, a questo punto, evitare che si crei un malinteso. Dio ama le buone opere, le apprezza, le valorizza, le ricompensa in questa vita e in quella futura. Ricordiamo che cosa dice Gesù nel sermone sul monte, parlando dell’elemosina, della preghiera, del digiuno: parla di ricompensa (Mt 6: 4,6,18). Ricompensa, altro non significa se non l’approvazione di Dio sull’opera dell’essere umano. Significa che l’essere umano si trova in sintonia con il progetto di Dio per l’umanità, si trova in armonia con la volontà del Signore. Non c’è ricompensa più alta, né premio più ambito di questo. Perciò, a chi ci domandasse “ma per voi protestanti, le opere non meritano proprio nulla?” noi dovremmo rispondere: “sì che meritano! Meritano la lode più alta che si possa avere su questa terra, quella di Dio!”. Dio dunque si compiace delle nostre buone opere e le premia, cioè le approva. Ma queste buone opere non servono in alcun modo a costituire nemmeno in parte la nostra giustizia davanti a Dio, per il semplice motivo che la nostra giustificazione, essendo ottenuta da Cristo sulla croce, precede le nostre opere buone, che noi compiamo non per essere giustificati, ma perché, per pura grazia, siamo stati giustificati davanti a Dio per l’opera che Gesù ha compiuto per noi e per il mondo. In conclusione: le nostre opere buone sono buone per il nostro prossimo al quale sono destinate; sono buone per Dio, che le gradisce e le premia con la sua approvazione; non sono buone per la nostra salvezza, perché non ne abbiamo bisogno, avendocela Dio già donata in Cristo gratuitamente.

(Estratto dalla riflessione della pastora Caterina Griffante)

Sermone: Predicazione di Domenica 19 Febbraio – 1 Pietro 3, 15

FESTA del 17 FEBBRAIO

Glorificate il Cristo come Signore nei vostri cuori. siate sempre pronti a rendere conto della speranza che è in voi a tutti quelli che vi chiedono spiegazioni.

In tutte le chiese valdesi e metodiste si è celebrata questa settimana come settimana delle liberazioni del Signore. La nostra Chiesa si ricorda della sua storia e delle vicende aspre e difficili attraverso le quali è passata. Si ricorda anche che, sempre, nella sua vita secolare, la sola ragione della sua sopravvivenza è stata nella misericordia di Dio e non nell’abbondanza o mancanza delle sue virtù e dei suoi meriti. Quindi si ricorda di come la storia di tutte le Chiese cristiane, è una riprova della carità di Dio perché, lungo il passare delle generazioni terrene, c’è sempre stata la consapevolezza di una mano che guida, anche quando intorno non è che tenebre e incertezza. Concludendo questa settimana, noi ci raccogliamo alcuni istanti intorno alla parola apostolica, che da un lato ci domanda di vivere nel timore di Gesù Cristo e dall’altra ci esorta a rispondere della speranza che è in noi.I tempi di ricordi sono, per una Chiesa come la nostra, anche dei tempi di umiliazione. Umiliazione, perché la relativa prosperità e libertà di cui godiamo non sono e non sono state per noi delle ragioni di rinnovato fervore. Umiliazione perché poco alla volta ci siamo abituati ai benefici di Dio come se ne avessimo diritto, come se fosse naturale e logico avere una vita relativamente tranquilla. […]

Non spacciamo per cristianesimo un molle, fiacco ed abitudinario modo di vivere, nel quale la fede appare solo come un elemento coreografico e tradizionale. Né Dio né gli uomini sanno che farsene dell’iniquità mescolata alle solenni assemblee. Ricominciare la nostra vita di Chiesa valdese non può avvenire se non avvertendo che vi è un giudice più severo e più veritiero della storia stessa: è Cristo il Signore. È lui, che ha il diritto, e lo esercita, di chiederci conto della serietà, dell’autenticità della nostra fede. È lui che, energicamente, ci domanda che cosa abbiamo fatto della Sua Parola, come abbiamo ridotto il messaggio della croce, come abbiamo vissuto la speranza della risurrezione. Egli ci ripete: «Voi non potete obbedire a due signori; non potete servire a Dio ed a Mammona» (Lc. 16,13).  […]

È questo il richiamo che l’apostolo Pietro rivolgeva ai disseminati del Ponto, della Bitinia e della Cappadocia: «siate sempre pronti a rispondere a vostra difesa a chiunque vi chiede ragione della speranza che è in voi». Questa parola era rivolta ad una Chiesa nel pieno della persecuzione. Quanto più facile dovrebbe essere per noi oggi rispondere a questa esigenza della fede, se consideriamo che non possiamo certo affermare di avere le stesse prove di quei primi cristiani. Né facciamoci un mito della persecuzione, come se fosse di per sé motivo di fedeltà: vi sono invece molte defezioni nel tempo della prova e molti ultimi sono primi ma anche molti primi sono ultimi. La sofferenza ha altrettante e più vittime della prosperità. Lo scrittore dei Proverbi, che era un buon conoscitore della debolezza umana, domandava a Dio né povertà né ricchezza, perché sapeva che ambedue le situazioni potevano diventare delle buone culture degli elementi di distruzione dell’uomo. È dalla potenza spirituale dell’uomo che si misura la sua capacità di superare i buoni e cattivi momenti dell’esistenza. Ora i cristiani devono sapere rendere ragione «della speranza che è in loro»: non si tratta di una discussione retorica, si tratta di una aderenza concreta e quotidiana ad un programma di rinnovamento spirituale. Si tratta di presentarsi «con buona coscienza» davanti al mondo in qualità di credenti, che non fanno della loro fede soltanto un’insegna esteriore. Bisogna cioè che abbiano una speranza in sé; bisogna che effettivamente non ci sia in noi soltanto un legame a quello che ci fa comodo o che ci piace, ma ci sia una fiamma di speranza, un ardore di attesa che il regno di Dio venga. Bisogna che ci sia una viva e quotidiana adesione alla verità di Cristo, non come ad un abusato e consumato codice cartaceo, ma come un’adesione ad una fede ardente e fervente. E bisogna che questo atteggiamento sia accompagnato da una buona coscienza «vale a dire dalla consapevolezza di una reale intima obbedienza al Signore».

(Estratto dalla riflessione della pastora Caterina Griffante)

Sermone: Predicazione di Domenica 12 Febbraio – Matteo 10, 28

Non temete coloro che uccidono il corpo, ma non possono uccidere l’anima; temete piuttosto colui che può far perire l’anima e il corpo nella geenna.

Questa parola di Gesù è detta a chi sta rischiando, e forse perdendo, la vita. Ma è detta anche a chi sta rischiando, e forse perdendo, l’anima. Ed è anzitutto questo che Gesù ci insegna: che si può perdere la vita senza perdere l’anima, e si può perdere l’anima senza perdere la vita. “Non temete coloro che uccidono il corpo”: Gesù l’ha detto ai suoi discepoli e testimoni, mandati nel mondo “come pecore in mezzo ai lupi” (Mt 10: 16). L’ha detto per incoraggiarli a dare, se necessario, anche la loro vita per l’Evangelo, e tanti l’hanno data: innumerevoli sono stati attraverso i secoli i credenti che per fedeltà e coerenza evangelica hanno perso la vita e perdendola l’hanno trovata (Mt 10: 39) – innumerevoli testimoni che hanno preferito morire confessando Gesù piuttosto che vivere rinnegandolo, hanno preferito morire con Gesù piuttosto che vivere senza di lui. Ma questa parola, destinata ai discepoli e ai testimoni di Gesù, vale certamente anche per tutti coloro che rischiano e perdono la vita per il diritto, la libertà e la giustizia. A tutti costoro viene rivolto da Gesù l’invito a non temere, perché quelli che uccidono il corpo non possono uccidere l’anima, in quanto non ne dispongono, dato che la nostra anima, il nostro io profondo, la nostra verità non appartiene a loro, non appartiene neppure a noi stessi, appartiene soltanto a Dio.  […]

Anzitutto Gesù vuole darci, davanti a coloro che uccidono il corpo, il coraggio della resistenza. Non li temete, dice Gesù, non scappate, non spaventatevi neppure quando siete nelle loro mani e possono farvi tutto quello che vogliono. In realtà non possono far molto: possono uccidere il vostro corpo ma non la vostra speranza; possono spezzare la vostra fibra ma non la vostra volontà; possono fermare la vostra vita ma non la ragione che la anima. Certo, possono uccidervi. Ma uccidere un essere umano non significa vincerlo. Anzi, spesso si uccide un essere umano proprio perché non si riesce a vincerlo. Non li temete! […] Ma Gesù non vuole darci solo il coraggio della resistenza, vuole darci anche il coraggio della fede. “Temete piuttosto colui che può far perire l’anima e il corpo nella geenna”: è Dio solo che può far questo, perché lui solo è il Signore dell’essere umano e può disporre pienamente di lui. Gesù dunque ci invita a temere Dio. Il nostro istinto sarebbe di temere gli uomini; Gesù ci dice che è Dio che dobbiamo temere. Il nostro istinto ci porta alla paura; Gesù ci porta alla fede. Temete Dio! Il timore della morte e il timore degli uomini sono superati col timore di Dio. Diceva Dietrich Bonhoeffer: “Chi teme ancora gli uomini, non teme Dio. Chi teme Dio, non teme più gli uomini”. E che cosa significa “temere” Dio, cioè prenderlo sul serio, al cospetto di quelli che uccidono il corpo?

Significa due cose: la prima, che nei confronti del male Dio è il Dio dell’ira del quale ci parlano tanti passi della Bibbia ebraica e del Nuovo Testamento, come i versetti dell’Apocalisse che abbiamo ascoltato, con quella immagine così suggestiva e potente dell’uva buttata “nel grande tino dell’ira di Dio”. Dell’ira di Dio oggigiorno non capita spesso di sentire parlare nelle predicazioni o negli studi biblici. […]Ma temere Dio davanti a quelli che uccidono il corpo significa qualcosa di ancora più importante, e cioè questo: se Dio è colui che può far perire l’anima e il corpo nella geenna, egli è anche colui che può far risuscitare e l’anima e il corpo dalla geenna. Temere Dio davanti a coloro che uccidono il corpo significa affermare la risurrezione, la sconfitta della morte, che ormai non serve più a distruggere l’essere umano, non raggiunge più il suo scopo. Uccidendo non si ottiene niente; Dio annulla l’opera della morte (Gv 11: 23: “tuo fratello risusciterà”, dice Gesù a Marta alludendo a Lazzaro morto). È questo il coraggio della fede che Gesù, invitandoci a temere Iddio, ci vuol dare. […]

(Estratto dalla riflessione della pastora Caterina Griffante)

Predicazione di Domenica 5 Febbraio – Isaia 40, 21-31

Non lo sai tu? Non l’hai mai udito? Il Signore è Dio eterno, il creatore degli estremi confinidella terra; egli non si affatica e non si stanca; la sua intelligenza è imperscrutabile. (Is 40, 28)

Il Dio che appare come un monarca irraggiungibile, come il creatore e il dominatore dell’universo, è effettivamente incomprensibile alla mente umana. Eppure un aspetto di lui è comprensibile, perché lui stesso lo ha voluto rivelare al profeta, e quindi a noi tutti: l’amore, la sollecitudine per il suo popolo, e in particolare per quelli del suo popolo che sono più deboli, più bisognosi di aiuto. La sua grandezza, egli la manifesta certamente dispiegando la sua forza contro i principi e i giudici della terra – cioè contro coloro che sono ritenuti e si ritengono “grandi”, autosufficienti, non bisognosi del sostegno divino; ma la manifesta anche e soprattutto piegandosi amorosamente verso chi, stanco e spossato, dispera delle proprie forze ma è pronto a mettere la propria speranza in Dio. Nessuna via può essere nascosta al Signore, a nessun diritto il Signore può essere disinteressato.

“Levate gli occhi in alto e guardate”, dice Isaia, “chi ha creato queste cose? Egli le fa uscire e conta il loro esercito, le chiama tutte per nome; per la grandezza del suo potere e per la potenza della sua forza non ne manca una” (40: 26).  Certo, qui si raffigura la potenza di Dio, ma di un Dio che esercita questa sua potenza mantenendo un rapporto intimo con tutto ciò che ha creato. Qui si allude al firmamento, agli astri; ed è toccante questo riferimento a Colui che chiama gli astri per nome, uno per uno, come se ciascuno avesse una storia, come a dire che se ogni cosa, in fondo, ha un suo nome, un nome che Dio conosce benissimo, che mai potrà dimenticare, a maggior ragione questo deve valere per ogni popolo e per ogni singolo essere umano, per quanto trascurabile possa apparire. Lo conferma un versetto del cap. 41, straordinario nella sua tenerezza: “Non temere, Giacobbe, vermiciattolo, e Israele, povera larva. Io ti aiuto, dice il Signore; il tuo redentore è il Santo d’Israele” (Is 41: 14). E abbiamo sentito come l’apostolo Paolo colleghi la natura imperscrutabile dei giudizi di Dio, la natura ininvestigabile delle sue vie, alla sua volontà di “far misericordia a tutti”. D’altra parte le vie del Signore – come proclama il vecchio Zaccaria nel vangelo di Luca – queste vie certamente imperscrutabili e ininvestigabili, inaccessibili alla ragione umana, sono pur sempre le vie che Gesù, per conto del Padre suo, ci prepara “per dare al suo popolo conoscenza della salvezza mediante il perdono dei loro peccati, grazie ai sentimenti di misericordia del nostro Dio…”.

(Estratto dal sermone della pastora Caterina Griffante)

Eventi: Evangelici e Risorgimento

Conferenza

EVANGELICI E RISORGIMENTO

L’EVANGELO PER FARE GLI ITALIANI

 Oratore

Prof. Lothar Vogel

Concerto

Corale della Chiesa di Pinerolo

Consegna della Bibbia Deodati al Sindaco di Padova

Sabato 12 novembre 2011, ore 17

Chiesa METODISTA

Corso Milano, 6 – PADOVA

Gli Evangelici hanno preso parte alle vicende risorgimentali con uno slancio e una presenza molto superiori alla loro consistenza numerica, animati dalla convinzione che un radicale rinnovamento religioso e spirituale fosse la condizione necessaria per la rinascita politica e sociale della nazione. Il 150° anniversario dell’Unità d’Italia offre l’occasione per riflettere su quanto di quel progetto si sia realizzato e su quanto ancora resti da fare nell’Italia di oggi.