Sermone: BONTA’ E GIUSTIZIA

«Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa, il quale, sul far del giorno, uscì a prendere a giornata degli uomini per lavorare la sua vigna. Si accordò con i lavoratori per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. Uscì di nuovo verso l’ora terza, ne vide altri che se ne stavano sulla piazza disoccupati, e disse loro: “Andate anche voi nella vigna e vi darò quello che sarà giusto”. Ed essi andarono. Poi, uscito ancora verso la sesta e la nona ora, fece lo stesso. Uscito verso l’undicesima, ne trovò degli altri in piazza e disse loro: “Perché ve ne state qui tutto il giorno inoperosi?” Essi gli dissero: “Perché nessuno ci ha presi a giornata”. Egli disse loro: “Andate anche voi nella vigna”. Fattosi sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: “Chiama i lavoratori e dà loro la paga, cominciando dagli ultimi fino ai primi”. Allora vennero quelli dell’undicesima ora e ricevettero un denaro ciascuno. Venuti i primi, pensavano di ricevere di più; ma ebbero anch’essi un denaro per ciascuno. Perciò, nel riceverlo, mormoravano contro il padrone di casa dicendo: “Questi ultimi hanno fatto un’ora sola e tu li hai trattati come noi che abbiamo sopportato il peso della giornata e sofferto il caldo”. Ma egli, rispondendo a uno di loro, disse: “Amico, non ti faccio alcun torto; non ti sei accordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene; ma io voglio dare a quest’ultimo quanto a te. Non mi è lecito fare del mio ciò che voglio? O vedi tu di mal occhio che io sia buono?” Così gli ultimi saranno primi e i primi ultimi». (Matteo 20,1-16)

Le parabole sono facili da capire, ma anche da fraintendere. Da un lato, quando le ascoltiamo, ci sembra tutto evidente, il messaggio è chiaro, dall’altro però ci accorgiamo che è facile capire un’altra cosa rispetto a quello che la parabola in realtà ci vuole dire. E io, iniziando questa predicazione, voglio indicare tre fraintendimenti possibili di questa parabola, prima di venire poi a una spiegazione di quello che mi sembra essere il messaggio che questa parabola ci vuole dare.

Il primo fraintendimento è molto evidente. E’ quello di pensare che questa parabola ci voglia offrire un modello di organizzazione del lavoro, da applicare alla società. Nessun sindacato accetterebbe che chi ha lavorato dieci ore sia pagato come chi ne ha lavorata una, e nessun imprenditore accetterebbe di pagare chi ha lavorato un’ora sola come se avesse lavorato dieci ore. Dunque, è chiaro che questa parabola non è un disegno di organizzazione sociale … è una parabola su Regno di Dio, non una parabola sulla nostra società; ed è perfettamente giusto che nella nostra società chi lavora molto e bene sia pagato di più di chi lavora poco e forse anche male. Sarebbe un totale fraintendimento della parabola capirla come se fosse esempio di un modello sociale.

Un secondo fraintendimento possibile è quello che è accaduto tante volte nella storia della Chiesa, e cioè è che il centro della parabola siano le 5 chiamate con cui Dio, padrone della vigna, chiama dei lavoratori nel corso della giornata (alle sei del mattino, alle nove, a mezzogiorno, alle tre del pomeriggio, e alle cinque l’ultima chiamata). Allora molti commentatori, soprattutto antichi, i Padri della Chiesa soprattutto, hanno inteso come se il centro delle parabole fossero queste diverse chiamate di Dio, da intendersi come ad esempio le 5 grandi tappe della storia della salvezza, oppure come le 5 occasioni della vita, i 5 momenti chiave della vita di ogni persona durante i quali Dio cerca di chiamarti a sé e di farci diventare credenti.

Il centro della parabola non sta nelle chiamate del padrone della vigna sta, come tutti abbiamo capito, nel pagamento, nel come questo padrone remunera i lavoratori delle diverse ore. Quello però che ci può stupire ancora di più è il fraintendimento che compie l’evangelista Matteo perché, lo dico con tutta l’umiltà del caso, anche l’evangelista Matteo ha frainteso questa parabola, perché, come avete sentito, lui dice “Così i primi saranno ultimi e gli ultimi saranno primi”, cioè interpreta la parabola come se fosse un ribaltamento delle posizioni davanti a Dio di tutte le gerarchie umane, in poche parole, così che “gli ultimi saranno primi e i primi ultimi”. Matteo probabilmente è stato indotto a questo fraintendimento perché al v. 8 c’è proprio questo espressione, in cui il padrone dice al fattore di pagare i lavoratori cominciando dagli ultimi fino ai primi, cioè dal lavoratore dell’undicesima ora fino a quelli dell’alba. E allora lui ha creduto che quello fosse il senso della parabola. Ma non è così. Perché non è così? Perché si, è vero che gli ultimi diventano primi, ma non è vero che i primi diventano ultimi. I primi restano primi. “Avevamo pattuito un denaro? Eccolo qua; Non è che ti castigo come se tu avessi lavorato un’ora sola, ti pago per le tue dieci ore”.

E questo, guardate, è tanto più significativo in quanto il ribaltamento, l’idea che  “i primi diventano ultimi e gli ultimi diventano primi” è anche quello evangelo, intendiamoci bene, ma non qui, non in questa parabola. Si, in altre parole, ad esempio quando Gesù dice: “Ti ringrazio Signore perché hai nascosto queste cose ai saggi e agli intelligenti, e le hai rivelate ai piccoli e ai fanciulli” fa un ribaltamento, i saggi non capiscono e i bambini capiscono, i primi diventano ultimi e gli ultimi diventano primi; quando Gesù dice ai farisei: “I pubblicani e le meretrici vanno davanti a voi nel Regno dei cieli” fa il ribaltamento, questi che sono ultimi, che voi considerate fuori dalla comunità sono i primi ad entrare nel Regno dei cieli; quindi c’è il ribaltamento. Ma non in questo, dove invece ci sono gli ultimi che diventano primi e i primi che restano primi, non diventano ultimi. E questa è una cosa formidabile, perché che cosa vuol dire? Che tutti sono primi. C’è anche l’evangelo del ribaltamento, ma c’è anche un altro evangelo, quello in cui i primi restano anche loro primi, e non diventano ultimi. E allora, se tu credi di essere primo davanti a Dio non temere di diventare ultimo, resti primo. E se tu credi di essere ultimo, rallegrati, perché Dio può fare di te un primo. Questo è il cuore di questa parabola.

E forse si può anche aggiungere: com’è che nessuno diventa ultimo? Nessuno diventa ultimo perché Dio si è fatto ultimo, affinché tutti diventassero primi. Sarà questa la chiave del discorso di questa parabola?

E perché Dio si fa ultimo affinché nessuno resti ultimo? Perché è buono, lo ripeto, perché è buono. Se non fosse buono direbbe: Ma chi me lo fa fare? Sono primo e resto primo, non c’è nessun bisogno che diventi ultimo. Non c’è nessun bisogno che io venga dove sei tu, per tirarti fuori … se Dio non fosse buono. E invece Dio è buono; questo è il messaggio della parabola. Ed è anche giusto, perché a quelli a cui ha detto: “Vi do uno”, dà uno. Quindi la caratteristica di questo Dio che questa parabola presenta è quella di essere giusto e buono. È giusto, però in modo che la sua giustizia non cancelli la sua bontà, ed è buono, ma in modo che la sua bontà non cancelli la sua giustizia.

Certo, i lavoratori della prima ora protestano, non potrebbero fare altro, però Dio gli dice: Ti ho dato quello che avevamo pattuito, e allora vai pure, ma se io voglio essere buono con gli altri, chi me lo impedisce? O forse ti dà fastidio la bontà di Dio? A Giona, abbiamo letto, dava fastidio, dava molto fastidio che Dio perdonasse gli abitanti di Ninive, questa città pagana, dissoluta, simbolo della degenerazione; che questa città si penta, e soprattutto che Dio si penta del male che voleva fare a questa città, No, questo non l’accetto, non accetto che Dio sia buono. Ai farisei dava molto fastidio che Gesù accogliesse i peccatori: i peccatori vanno puniti, non vanno amati.

Che Dio sia buono dà fastidio, dà molto fastidio. Anche ai discepoli dava fastidio questo amore di Gesù: ricordate la situazione in cui c’è un tipo che cacciava i demoni nel nome di Gesù, ma non era un discepolo, e allora i discepoli veri e propri protestano, e sperano che Gesù glielo vieti, come loro glielo hanno vietato. E invece Gesù dice: NO, non glielo vietate, perché chi non è contro di noi è per noi”.

Ma c’è di più, per raccontare quanto l’amore di Dio sia fastidioso per tante persone. L’apostolo Pietro, il grande apostolo Pietro, ha fatto una fatica immensa per accettare che Dio desse lo Spirito Santo ai pagani, e non soltanto agli ebrei diventati cristiani. Ma come? Ci metti sullo stesso piano? Noi che abbiamo Mosè, la Legge, il Tempio e i pagani che non capiscono nulla, che hanno soltanto degli idoli? Dio ha fatto una gran fatica per convincerlo; ci sono ben 3 capitoli nel Libro degli Atti degli Apostoli che narrano questa cosiddetta conversione di Pietro, fino a quando anche lui deve arrendersi alla bontà di Dio!

E a noi: ci dà fastidio la bontà di Dio verso le persone che non sopportiamo, veso il mondo?

Che cosa mette in movimento la bontà di Dio? Perché al lavoratore dell’undicesima ora Dio dà la stessa paga del lavoratore che ha lavorato tutto il giorno? Perché Dio guarda alla fame di quell’uomo. Non al merito, perché quell’uomo non avrebbe merito, ma la fame quella c’è.

Cos’è la bontà di Dio? Che lui non guarda al nostro merito ma al nostro bisogno! E il bisogno è grande, che tu abbia lavorato o che tu non abbia lavorato, che tu abbia meritato o che tu abbia demeritato, il bisogno è grande. Il bisogno è uguale, ecco perché è uguale anche la paga, perché risponde al bisogno, non risponde al merito.

Che bell’annuncio che è questo, che bel evangelo: che Dio guarda al nostro bisogno, non al nostro merito. Che liberazione. Dio è buono ma è anche giusto, però preferisce essere buono! Ricordiamo il terzo comandamento: Dio punisce l’iniquità di quelli che lo odiano fino alla terza e alla quarta generazione, e benedice quelli che egli ama fino alla millesima generazione. Cioè: giustizia SI, però più bontà. Ha una preferenza per la bontà, perché la bontà corrisponde alla sua natura. Dio è buono nel suo essere; non dimentica la giustizia ma è innanzitutto buono.

Questo annuncio è stupendo; basterebbe quasi solo questa parabola per la nostra conversione e la nostra vita. Ma cosa significa questo annuncio per noi personalmente e per il nostro mondo? Per noi singole persone ho pensato a quanto abbiamo letto dalla seconda lettera ai Corinti: “Dobbiamo comparire tutti davanti al tribunale di Cristo affinché si riceva la retribuzione di ciò che ha fatto in bene e in male”. Cioè la giornata del lavoratore l’ho associata alla nostra vita, e il padrone che paga la retribuzione l’ho associato a questo tribunale di Cristo, e ho pensato: se mi va bene, potrò far valere davanti a Dio un’ora di lavoro, se ho lavorato almeno un’ora per il suo Regno, ma quante ore ho sciupato nella mia vita, quante ore. E allora invocherò la bontà di Dio, con la mia piccola e misera ora, Dio sarà buono anche con me.

E pensando al mondo, al nostro mondo nel quale c’è tanta malvagità. Cosa ha a che fare il nostro mondo, così lontano da Dio, che nega Dio, con questo Dio che è buono? Io penso che Dio voglia dirci di avere fiducia, che alla fine prevarrà la sua bontà, che Dio vincerà perché è buono. La sua bontà dura in eterno e avrà la meglio sulla malvagità dell’uomo, come già è avvenuto nella persona e nella vita di Gesù di Nazareth, nella quale vediamo “come in uno specchio” non solo che Dio è buono ma che può esserlo anche l’uomo. Anche l’uomo può essere buono. Credendo in Gesù, vivendo in stretto rapporto personale, intimo, con lui, anche l’uomo può diventare un uomo buono, come forse ancora non lo siamo stati. Iddio lo voglia per tutti noi.

Amen

Fabio Barzon

Sermone: SOLA SCRIPTURA – LA BIBBIA UNICA AUTORITA’

A volte capitano cose assai strane, eventi che ci costringono a riflettere su argomenti che magari abbiamo lasciato correre, per distrazione, per timore o per semplice disinteresse. Capita che magari questi eventi nascano da pensieri e sollecitazioni totalmente differenti, che sembrerebbero non avere una sorta di fil rouge che li accomuna e ci ritroviamo invece obbligati a riconoscerne le connessioni.

Provo a spiegarmi, condividendo con voi una mia recentissima esperienza. Il mio più caro Amico, grande intenditore di musica classica e devoto seguace di Bach, da tempo mi sta conducendo per mano alla scoperta di questo sommo compositore, incitandomi non solo ad ascoltare le sue opere (come già facevo), ma a porre attenzione ai testi, ai toni, ai ritmi, relazionando il tutto con la biografia, le esperienze e la vita di colui che qualcuno ha definito “il quinto evangelista”.

Orbene, qualche giorno fa, per rimanere virtualmente in compagnia del mio aio musicale, mi stavo cimentando con l’ascolto attento di alcuni pezzi della passione secondo Matteo, una splendida composizione che Bach (studioso anche di teologia) scrisse, trasponendo in musica i relativi capitoli dell’evangelista nella traduzione che fece Martin Lutero.  Potrebbe quasi essere una lectio divina!

Seguendo il testo che viene cantato mi imbatto in alcuni versi, che sembrano infastidirmi, dal titolo “O mondo, osserva qui la tua vita”, che recitano: “Sono io, io che dovrei scontare la pena, con le mani ed i piedi legati, nell’inferno. I flagelli e le catene, e tutto quello che tu hai sofferto, lo avrebbe meritato l’anima mia”.

Perché questo testo mi colpisce, dandomi una sorta di fastidio?  Ma perché parla di inferno, di una dannazione dove scontare la pena con flagelli e catene.

Abituata a riempirmi il cuore con la promessa del perdono, con la certezza della grazia in dono da Dio, interpreto queste parole come un eccesso di austerità, dovuta soprattutto ai tempi, e preferisco passare oltre, riconoscendo però la persistenza di un tarlo che mi suggerisce che non tutti saremo eredi del regno dei cieli. Drammatico.

Passa qualche giorno e mi trovo a dover preparare questo culto e, fra le letture suggerite dal lezionario “Un giorno una parola” trovo il passo di Luca 16,19-31 che vado a leggervi nella recente traduzione della BIR:

C’era un uomo ricco, che si vestiva di porpora e di bisso e ogni giorno festeggiava splendidamente.  Ma c’era anche un povero, di nome Lazzaro, gettato alla sua porta, coperto di piaghe.  Questi desiderava sfamarsi con quel che cadeva dalla tavola del ricco; ma i cani venivano a leccare le sue ulcere.

Il povero morì e fu portato dagli angeli nel grembo di Abramo.  Morì anche il ricco e fu sepolto. E nell’Ade, alzati i suoi occhi mentre stava nei tormenti, da lontano vide Abramo e Lazzaro nel suo grembo.  Avendolo chiamato: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a immergere la punta del suo dito nell’acqua e a rinfrescare la mia lingua, perché sono tormentato in questa fiamma”.  Ma Abramo disse: “Figlio, ricorda che nella tua vita hai ricevuto tutte le cose buone che ti spettavano, mentre Lazzaro allo stesso modo quelle cattive. Ora, però, qui lui è confortato, mentre tu sei nei tormenti.  Oltre a questo, tra noi e voi è stato posto un gran precipizio, perché quelli che vogliono attraversare da qui a voi non possano, né attraversino da lì verso di noi”.  Disse allora (il ricco): “Ti prego, padre, di mandarlo alla casa di mio padre – ho, infatti, cinque fratelli – perché renda loro testimonianza e non vengano anche loro in questo luogo di tormento”.  Abramo gli disse: “Hanno Mosè e i profeti; diano ascolto a loro”. E lui replicò: “No, padre Abramo; ma se uno dai morti va a loro, si convertiranno”.  Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i profeti, non saranno persuasi nemmeno se uno dei morti risorgesse.”

Direi che questa parabola ha connotazioni abbastanza cruente, disperanti addirittura. Ci viene presentato l’Ade, un luogo che forse potremmo chiamare anche “inferno”, un luogo di sofferenze e tribolazioni, un luogo che Gesù, nel passo di Matteo 8 che abbiamo letto prima, definisce un luogo senza luce, dove c’è il pianto e lo stridor dei denti. Un luogo ben lontano dal regno dei cieli, da questo separato addirittura da una voragine invalicabile!

Non sono solo questi i passi del Nuovo Testamento in cui Gesù fa riferimento a ciò che potremmo trovare dopo la morte; ricordiamo ad esempio cosa dice in Matteo 19 e Luca 18, facendo l’esempio del cammello che passi per la cruna di un ago.

Sì, Gesù ci presenta chiaramente il destino futuro dell’uomo: chi ama Dio, chi fa la volontà di Dio e in Lui confida, rimarrà in comunione con Lui per l’eternità; chi invece respinge i Suoi insegnamenti continuerà ad essere separato da Dio, nella sofferenza dell’eterno distacco dal Signore.

E questa situazione di dolore non è sanabile; non c’è una sorta di “purgatorio” dove espiare la colpa per un periodo di tempo, in attesa di accedere al regno di Dio, perché la nostra scelta la dobbiamo fare ora, in questa vita. È in questa esistenza che dobbiamo scegliere se vogliamo seguire le indicazioni di Dio oppure se le rifiutiamo, se accogliamo nel nostro cuore gli insegnamenti di amore, fraternità e solidarietà, oppure se vogliamo vivere come se Dio non esistesse, se vogliamo aderire al messaggio di fede che ci è stato proposto oppure no.

In questa scelta siamo totalmente liberi, per cui, se ci condurremo in completo distacco dal nostro Signore, sappiamo che dopo la morte corporale, permarrà un eterno angoscioso distacco da Dio, perché questo è ciò che abbiamo voluto noi.

Ma dove troviamo gli insegnamenti per condurci nella vita? Chi può aiutarci per renderci consapevoli del volere di Dio? Dove troviamo le indicazioni per tentare di improntare la nostra esistenza come figli di Dio?

Per noi, popolo del Libro, non c’è che una risposta: la Bibbia. Un libro dove il Signore, attraverso suoi molteplici testimoni, ha nei secoli comunicato all’uomo come vivere. Lo ha comunicato nell’Antico Testamento, coi profeti, ma questo evidentemente non è bastato a convertire il cuore di pietra dell’uomo, per cui l’Eterno è intervenuto una volta di più con il dono più grande, attraverso Suo figlio, il nostro signore Gesù Cristo, che ci ha lasciato innumerevoli insegnamenti affinché non ci perdiamo.

La Bibbia, unica vera fonte per noi protestanti. La Bibbia che siamo tenuti a leggere, a studiare, a frequentare, perché, ripeto, è l’UNICA parola di verità (non certo la tradizione e tantomeno l’interpretazione da parte di una gerarchia ecclesiastica).

Uno dei nostri famosi “cinque sola” che abbiamo scritto anche sulle nostre vetrate non a caso è “SOLA SCRIPTURA”. La Bibbia basta, non abbiamo bisogno di null’altro, non abbiamo bisogno di miracoli, di segni portentosi per riconoscere la grandezza del Signore.

E se questo non ci bastasse, ricordiamoci la risposta che viene riportata nella parabola oggetto di questo sermone quando il ricco, preoccupato per la sorte del padre e dei cinque fratelli, chiede che venga mandato Lazzaro ad avvisarli, a sollecitarli; chiede che un uomo dal regno dei morti vada a dire loro che si convertano, evitando la perdizione. Abramo risponde: “Se non ascoltano Mosè e i profeti” (cioè la Scrittura, la legge, al tempo) “non saranno persuasi nemmeno se uno dei morti risorgesse”.

Noi siamo ulteriormente privilegiati, perché non abbiamo ricevuto solo gli insegnamenti della legge e dei profeti, ma abbiamo avuto anche la presenza di Gesù nel mondo, quel Gesù figlio di Dio che ben conosce le nostre infedeltà e le nostre debolezze e ci viene in soccorso con il perdono gratuito, se riconosciamo il nostro peccato e ci pentiamo.

Fratelli e sorelle, pensiamoci! Non facciamo come coloro che fugano dalla propria mente l’idea di un aldilà di continua sofferenza, perché abbiamo la possibilità di essere rassicurati e perdonati se ci convertiamo alla Parola di Dio, traendo forza dal costante confronto con la Bibbia.

Concludo con una battuta spiritosa che spero non faccia parte del pensiero e dei comportamenti di qualcuno di noi. C’è una vignetta di Schulz che ben rappresenta ciò che NON dobbiamo fare: Linus, un personaggio riflessivo, dice mentre ha la Bibbia in mano: “Hanno detto che questo libro avrebbe cambiato la mia vita. È da mesi sul comodino ed è ancora tutto uguale”.

Leggiamolo questo libro! Non dobbiamo temere che sia troppo astruso e non possiamo delegare solo ad altri la testimonianza su ciò che c’è scritto. Preghiamo, certo, il nostro Signore, ma rimaniamo diligenti e solleciti nel confrontare la nostra vita con la Scrittura. Così forse non dovremo dire anche noi le parole presenti nel coro di Bach: “Sono io, io che dovrei scontare la pena, con le mani ed i piedi legati, nell’inferno” perché sapremo quali sono le nostre infedeltà per le quali chiederemo perdono al Signore. E se chiederemo perdono con cuore puro, sappiamo che la grazia non ci sarà negata, perché, come diciamo spesso nell’annuncio del perdono, “nessuno deve dubitare del perdono ricevuto”.

AMEN

Liviana Maggiore

Sermone: LA PREDESTINAZIONE

“Benedetto sia il Dio e Padre del nostro Signore Gesù Cristo, che ci ha benedetti di ogni benedizione spirituale nei luoghi celesti in Cristo. In lui ci ha eletti prima della creazione del mondo perché fossimo santi e irreprensibili dinanzi a lui, avendoci predestinati nel suo amore a essere adottati per mezzo di Gesù Cristo come suoi figli, secondo il disegno benevolo della sua volontà, a lode della gloria della sua grazia, che ci ha concessa nel suo amato Figlio. In lui abbiamo la redenzione mediante il suo sangue, il perdono dei peccati secondo le ricchezze della sua grazia, che egli ha riversata abbondantemente su di noi dandoci ogni sorta di sapienza e d’intelligenza, facendoci conoscere il mistero della sua volontà, secondo il disegno benevolo che aveva prestabilito dentro di sé, per realizzarlo quando i tempi fossero compiuti. Esso consiste nel raccogliere sotto un solo capo, in Cristo, tutte le cose: tanto quelle che sono nel cielo, quanto quelle che sono sulla terra. In lui siamo anche stati fatti eredi, essendo stati predestinati secondo il proposito di colui che compie ogni cosa secondo la decisione della propria volontà, per essere a lode della sua gloria; noi, che per primi abbiamo sperato in Cristo. In lui voi pure, dopo aver ascoltato la parola della verità, il vangelo della vostra salvezza, e avendo creduto in lui, avete ricevuto il sigillo dello Spirito Santo che era stato promesso, il quale è pegno della nostra eredità fino alla piena redenzione di quelli che Dio si è acquistati a lode della sua gloria.” (Efesini 1,3-14)

Cari fratelli e sorelle, il testo che questa domenica “Un giorno una parola”, il nostro testo di letture bibliche quotidiane, ci propone quale riflessione, come sempre strettamente connesso con le altre due letture bibliche che abbiamo ascoltato in precedenza, riporta per due volte un termine ben noto nel mondo della Riforma: predestinati.

La predestinazione. Questo è quindi quello su cui la Scrittura ci spinge oggi a meditare. Voglio rassicurarvi anzitutto che non intendo spingermi a fare un excursus storico sulla questione né tantomeno gettarmi sul versante delle dispute teologiche che il tema della predestinazione, come ben sapete, ha acceso nel mondo protestante nel corso dei secoli.

Non vi parlerò quindi di Giovanni Calvino, nonostante mi sia particolarmente caro, dato che le sue concezioni mi abbiano spinto verso il mondo protestante. Non vi parlerò neppure dell’idea, cara al calvinismo ortodosso successivo a Calvino, per cui i predestinati si possono riconoscere dal grado di benessere economico raggiunto. E, apro un inciso, come i libri scolastici di storia, sia delle medie che delle superiori, si ostinino invece a dire che questa idea è la base della dottrina calvinista, riducendo la figura di Calvino ad una sorta di procacciatore d’affari che spingeva il popolo cristiano al guadagno per meritarsi il regno dei cieli.

E nemmeno vi parlerò delle dolorose lotte tra Calvinisti e Arminiani in Olanda proprio su questo tema. Anche perché, più che un sermone, cari fratelli e sorelle, ne verrebbe fuori un trattato di teologia o una lezione di storia e non mi sembra decisamente il caso non volendo vedere una fuga in massa di persone che abbandonano questo luogo.

Vorrei invece attenermi esclusivamente al testo biblico. E allora, iniziamo! “In lui ci ha eletti prima della creazione del mondo”. Cosa significa? Eletti, scelti, nominati. Ci ha scelto in lui cioè ci ha chiamati ad essere parte di lui, non semplici seguaci ma un tutt’uno con lui.

E questo fin dall’inizio dei tempi, prima ancora che le cose create esistessero. Quando, per dirla con l’evangelista Giovanni, la Parola, il Verbo, era. Era con Dio ed era Dio. Insomma, Lui ci ha scelto, ci ha chiamato per nome ancor prima che nascessimo, anzi, ancor prima che a qualcuno venisse in mente che potevamo essere concepiti un giorno.

Potenza costruttrice della Parola. E questo perché? Perché l’ha fatto? “Perché fossimo santi e irreprensibili dinanzi a lui” dice la Scrittura. Insomma, per salvarci. Per renderci persone purificate da ogni peccato. Ma come ha fatto? “Per mezzo di Gesù Cristo … secondo il disegno benevolo della sua volontà” prosegue la Scrittura. La sua volontà, si badi bene, non la nostra. “A lode della gloria della sua grazia, che ci ha concessa nel suo amato Figlio”. Per grazia, quella grazia infinita che abbiamo cantato prima, dopo l’annuncio della grazia, del perdono. Concessione della grazia, salvezza, predestinazione. Tutto si collega, tutto si intreccia mirabilmente in Gesù Cristo.

Ma la grazia, fratelli e sorelle, si riceve nella fede. Quindi, anche la fede incontra la predestinazione. Quando? Come? Perché? “E avendo creduto in lui, avete ricevuto il sigillo dello Spirito Santo”. Eccolo qui il punto nodale, fondamentale: “avendo creduto in lui”. Io ti salvo, dice il buon Dio, ma tu devi credere in me. Devi aver fede. E cos’è la fede?

Fede = Fiducia. Una fiducia totale, cieca. Ci prendi per la mano, dice un nostro inno. Ecco, fratelli e sorelle, diamo la mano incondizionatamente a Dio. Di lui possiamo sicuramente fidarci. E come possiamo, metaforicamente, dare la mano a Dio? “Bisogna che nasciate di nuovo”. Lo abbiamo appena sentito dall’Evangelo di Giovanni. La nuova nascita. Il Battesimo nello Spirito. “Quello che è nato dalla carne, è carne; e quello che è nato dallo Spirito, è spirito”. Accettiamo Gesù non come complemento, come semplice parte della nostra vita. Dio non ci chiede di fargli spazio, di concedergli un po’ del nostro tempo di persone del XXI secolo sempre di corsa. Dio non deve diventare un appunto nella nostra agenda. Ma orientiamo la nostra vita in Lui. Lui detta la nostra agenda. Costruiamo la nostra vita dentro Dio. L’ho detto infatti all’inizio di questo sermone: “Ci ha scelto in lui cioè ci ha chiamato ad essere parte di lui, non semplici seguaci ma un tutt’uno con lui”.

Ma, tornando nello specifico al tema della predestinazione, qualcuno, come nei tempi andati, potrebbe chiedersi “Ma come faccio a sapere se sarò predestinato alla salvezza o meno? C’è la possibilità di riconoscerlo ora, adesso? Ci salveremo tutti, credenti fiduciosi nel Signore, o solo alcuni?”. La Scrittura, cari fratelli e sorelle, ci viene ancora una volta in aiuto: “In lui abbiamo … il perdono dei peccati secondo le ricchezze della sua grazia … dandoci ogni sorta di sapienza e d’intelligenza, facendoci conoscere il mistero della sua volontà, secondo il disegno … che aveva prestabilito dentro di sé, per realizzarlo quando i tempi fossero compiuti”. In poche parole, non preoccupiamoci, non angustiamoci. Non tormentiamoci.

Del resto, come dice l’Epistola ai Romani che abbiamo precedentemente ascoltato “quanto inscrutabili sono i suoi giudizi e ininvestigabili le sue vie!”. “Chi ha conosciuto il pensiero del Signore?” e aggiungo io, chi ha l’ardire di pretendere di farlo? Non spetta a noi cercare di capire il suo pensiero ma soltanto accettare e seguire la Sua parola “perché da lui, per mezzo di lui e per lui sono tutte le cose”. E quindi, non dobbiamo fare assolutamente alcuna opera meritoria ma credere, fidarsi come ho già detto prima. Quando i tempi saranno compiuti le promesse di Dio si manterranno e chi lo avrà veramente seguito allora capirà. E cos’è quindi, in conclusione, la predestinazione? È il sigillo dello Spirito Santo di cui parla la Scrittura nelle ultime righe del testo della predicazione odierna: “e avendo creduto in lui, avete ricevuto il sigillo dello Spirito Santo che era stato promesso”. “Pegno della nostra eredità fino alla piena redenzione”.

Possiamo quindi concludere, cari fratelli e sorelle, questa breve riflessione biblica, tornando alle ultime parole del passo tratto dall’Evangelo di Giovanni ascoltato in precedenza: “Il vento soffia dove vuole, e tu ne odi il rumore, ma non sai né da dove viene né dove va; così è di chiunque è nato dallo Spirito».

Non preoccupiamoci, l’ho detto prima e lo ripeto ora. Lo Spirito di Dio è su di noi, affidiamoci totalmente a lui e sicuramente riceveremo anche noi il sigillo dello Spirito.

Amen

Daniele Rampazzo

Sermone: LO SPIRITO CREA DIVERSITA’

“Circa i doni spirituali, fratelli, non voglio che siate nell’ignoranza. Voi sapete che quando eravate pagani eravate trascinati dietro agli idoli muti secondo come vi si conduceva. Perciò vi faccio sapere che nessuno, parlando per lo Spirito di Dio, dice: «Gesù è anatema!» e nessuno può dire: «Gesù è il Signore!» se non per lo Spirito Santo. Ora vi è diversità di doni, ma vi è un medesimo Spirito. Vi è diversità di ministeri, ma non v’è che un medesimo Signore. Vi è varietà di operazioni, ma non vi è che un medesimo Dio, il quale opera tutte le cose in tutti. Ora a ciascuno è data la manifestazione dello Spirito per il bene comune. Infatti, a uno è data, mediante lo Spirito, parola di sapienza; a un altro parola di conoscenza, secondo il medesimo Spirito; a un altro, fede, mediante il medesimo Spirito; a un altro, doni di guarigione, per mezzo del medesimo Spirito; a un altro, potenza di operare miracoli; a un altro, profezia; a un altro, il discernimento degli spiriti; a un altro, diversità di lingue e a un altro, l’interpretazione delle lingue; ma tutte queste cose le opera quell’unico e medesimo Spirito, distribuendo i doni a ciascuno in particolare come vuole.” (1 Corinzi 12,1-11)

Dal passo che abbiamo letto emerge che lo Spirito Santo è l’unica fonte di diversi doni, mediante i quali i credenti danno la loro testimonianza per il “bene comune”.  Senza lo Spirito nessuno può dire “Gesù è il Signore” e quindi nessuno può arrivare alla fede, a comprendere il lieto annuncio dell’amore di Dio che distribuisce gratuitamente i doni come vuole.

A pensarci bene, dobbiamo riconoscere che già qui c’è qualcosa che cozza contro la nostra indole umana. La gratuità insita nel dono ci può mettere in difficoltà, abituati come siamo a ragionare in termini di ricompensa o di scambio di favori e di doni.

Certo, siamo abituati a dire e sentirci dire che la grazia sovrabbondante di Dio ci viene donata per suo puro amore, ma credo che talvolta possa risultarci difficile capire la portata di questo concetto, abituati come siamo a ragionare in termini di “Do ut des”.  Ed è così difficile che in altre confessioni, così come nel dire comune, troviamo il termine di “azioni meritorie”, quasi che non si riuscisse a concepire una grazia così sovrabbondante dispensata gratuitamente.

E, ripeto, anche se da credenti protestanti siamo convinti che le azioni, per buone che siano, non sono certo meritorie, cioè non concorrono alla salvezza che ci deriva solo da Dio, dobbiamo riconoscere che tutta questa gratuità è difficile da capire, anche perché non c’è nulla da capire, ma dobbiamo solo accettarla per fede nel Signore e nel suo grande amore.

Un amore così grande che non si può esprimere, perché completamente anacronistico, secondo le categorie mentali umane.  Ecco allora che, se riusciamo a riconoscere i doni che abbiamo ricevuto (e questo possiamo farlo) e se non imputiamo questi doni alla “sorte”, possiamo accettare che essi sono la manifestazione dello Spirito, che si sparge sui credenti come vuole, in modi assai diversi, ma sempre in modo totalmente gratuito, sconvolgendo le nostre categorie mentali, le nostre idee, le nostre abitudini, perché è qualcosa che va oltre noi, oltre il nostro pensiero, oltre i nostri limiti.

Evidentemente questo non è un problema solo nostro, di uomini e donne dei tempi moderni, perché Paolo scrive alla chiesa di Corinto e cerca di spiegare che la diversità di doni ha però origine da un unico Spirito e se così scrive, significa che le medesime difficoltà di pensiero e accettazione che possiamo avere noi oggi, le avevano anche i Corinzi.

Orbene, questa difficoltà di comprensione può trarre origine dal fatto che i differenti doni in realtà creano diversità fra gli uomini: qualcuno ha la conoscenza, qualcun altro la sapienza, altri ancora la profezia, per non parlare della diversità di lingue e della capacità di saperle interpretare. In questo senso credo che la diversità di lingue stia a significare la diversità di cultura dell’etnia cui si appartiene, di abitudini sociali, di convenzioni e credenze proprie del popolo di cui si è parte.

Certo sarebbe tutto più semplice se uno stesso Spirito creasse omogeneità.

Invece NO! Accade esattamente il contrario, perché la diversità non è una minaccia, bensì una opportunità che ci viene proposta per costringerci ad andare oltre il nostro limitato orizzonte, allargando la nostra visione della vita, imparando ad accettare il diverso da noi.

Non è facile. No, proprio non è facile.

Come chiesa sappiamo che non è facile accettare chi ha teologie ed ecclesiologie differenti dalle nostre. E come individui constatiamo spesso quanto sia difficile esercitare la pazienza e l’accettazione con coloro che hanno un diverso approccio alla vita rispetto a noi, ai nostri convincimenti, alle nostre aspettative.

Risulta, ad esempio, difficile condividere ciò che siamo con coloro che mettono in atto comportamenti che ci turbano o che ci fanno soffrire; e non mi riferisco a persone cattive e malvage (che pure esistono), ma a coloro che sono vicini a noi, oppure che incrociano la loro vita con la nostra, ma hanno il loro carattere oppure vengono da esperienze differenti, talvolta totalmente opposte alla nostra.

Ad esempio, a me risulta molto difficile esercitare la pazienza e la comprensione con mio figlio o con il mio Amico del cuore, perché sono due persone reattive e impazienti e devo fare un grande sforzo per non litigare. In quei momenti mi risulta difficile comprendere che un carattere differente dal mio è una ricchezza anche per me, un dono che mi viene messo a disposizione.

Oppure posso capire come alcune persone possano sentirci a disagio se il figlio dichiara di essere gay, oppure ancora se incappiamo in una persona che ci si attacca come una cozza, perorando le sue necessità con insistenza. Possiamo essere così delusi o indispettiti da non vedere i doni che costoro hanno.

Ma ci potrebbero essere molti altri esempi che ci inducono a riflettere su quanto sia complicato riconoscere negli altri lo Spirito, accettare le loro diversità rispetto a noi, riconoscere che la diversità non è un limite, bensì una ricchezza.

Paolo infatti dice: «Vi sono doni diversi… vi sono diversi modi di servire… vi sono diversi tipi di attività… ma uno solo è lo Spirito, uno è il Signore. Lo Spirito si manifesta in modo diverso».

Ma qual è il fine della diversità, se riteniamo che essa sia un dono del Signore?

Paolo è chiarissimo in questo: il bene comune. Dunque possiamo dire che lo Spirito crea diversità affinché le caratteristiche di ognuno siano impiegate per il bene comune.

Questo ci dice l’apostolo; lo dice a noi oggi, a noi che preferiremmo l’uniformità perché i pensieri diversi di ognuno, i diversi comportamenti e usi sociali, i diversi approcci etici, così come le diverse teologie e le diverse spiritualità, possono metterci a disagio e facciamo fatica ad accettarle, facciamo fatica a considerarle “dono dello Spirito”, perché siamo più portati a pensare che la nostra concezione etica sia quella “giusta” e ci dimentichiamo invece che la centralità del messaggio di Gesù Cristo non coincide certo con le forme ecclesiologiche che ci siamo dati, o con la nostra teologia, o con una certa etica, o con le convenzioni sociali che noi preferiamo.

NO, il messaggio del Vangelo risiede nel Signore crocifisso e risorto per noi, per il nostro bene, per la nostra salvezza (quella di tutti), per il nostro perdono e perché potessimo orientare la nostra esistenza nella dimensione di un amore che non ci lascia mai e che ci invita invece a far sì che la diversità non diventi divisione, perché le divisioni danno come frutto solo conflitti, mancata accettazione, guerre, violenze e morte. Tutti aspetti e accadimenti ben lontani dal “bene comune”.

Dunque, per Paolo, lo Spirito agisce in modi diversi per il bene comune: come dire che quando noi agiamo solo per il bene particolare di qualcuno, di un gruppo, di un clan, di una sola comunità, ed escludiamo gli altri, quell’agire non è opera dello Spirito Santo, ma opera nostra, opera umana destinata a fallire.

Il bene comune è invece la prospettiva dello Spirito, lo scopo a cui mira l’opera dello Spirito.

E allora, che cosa significa per noi tutto questo?

Significa imparare a riconoscere l’azione dello Spirito che agisce per il bene di tutti, perché tutti possiamo beneficiare ciascuno gli uni degli altri, nella reciprocità, nella condivisione, a partire dalle nostre diversità e dai nostri doni.

Significa non arginare l’opera dello Spirito entro i propri steccati, i propri confini o i propri orizzonti, le proprie idee.

Ciò che è diverso da me, non è contro di me, ma per me. Questo ci vuole insegnare l’apostolo Paolo.

Lo Spirito ci incoraggia a lavorare, agire, lottare per il rispetto della diversità, perché il contrario significherebbe soffocare, spegnere, disprezzare l’opera dello Spirito.

Ci dia dunque Dio, attraverso il soffio del suo Spirito, la capacità di comprendere, anche dentro la nostra storia individuale, le nostre tradizioni, le nostre esperienze di vita, l’opera che lo Spirito compie, qui e ora, come altrove e in modo diverso, per il bene nostro, di coloro che ci sono vicini e dell’umanità intera.

AMEN!

Liviana Maggiore

Sermone: LA VERITÀ VI FARÀ LIBERI – Culto contro l’omofobia

Giovanni 8,31-36

Care sorelle, cari fratelli,

Stefano studiava da alcuni anni a Berlino. Ha fatto “coming out” due anni fa. Sapeva con chiarezza da tanti anni che era gay, da quando gli piacevano di più i modelli maschili nel catalogo dei vestiti della madre delle modelle femminili. Però all’inizio pensava che fosse solo una “fase”, come aveva letto in un giornale, non conosceva nessun gay tra gli amici e i parenti… Solo durante uno studio in Spagna ha preso il coraggio di frequentare una discoteca gay a Barcellona. Rientrato a Berlino non voleva continuare a fingere di essere “normale”, che non aveva ancora trovato la fidanzata “giusta”. Lui raccontava a tutti i suoi amici e particolarmente alle amiche che si interessava di più ai ragazzi.

Era un giorno solenne di primavera. I genitori avevano già pianificato da qualche tempo di venire a visitare il figlio a Berlino, il primo della famiglia che studiava. Stefano sapeva che questo incontro sarebbe stato importante per raccontare tutto ai genitori. Non aveva mai avuto un ottimo rapporto con i suoi. Stefano andava da loro a Pasqua, a Natale e in estate. Però la madre gli telefonava ogni settimana, suo padre lo aiutava sempre a organizzare l’arredamento per la sua stanza. Stefano si sentiva legato alla sua famiglia nonostante la distanza, ma allo stesso tempo era felice di poter vivere la propria vita senza essere sempre osservato. Quando i suoi arrivarono in macchina, Stefano annunciò subito di dover raccontare loro una cosa importante – per non perdere dopo il coraggio di farlo. Stefano aveva preparato un pranzo e dopo mangiato cominciò: “Vorrei raccontarvi qualcosa di personale. Siete importanti nella mia vita e vorrei che rimanesse così. Per questo dovete sapere una cosa: io sono gay”. I suoi ingoiarono la saliva, suo padre cercò nervosamente le sue sigarette, la madre chiese “Ma sei sicuro? Non hai ancora trovato la fidanzata giusta, può succedere ancora. Cosa diranno i vicini?”

Stefano cercò di spiegare che ci sono tanti gay famosi nel mondo: Elton John, Jody Foster, il sindaco di Berlino, Ricky Martin. Questa non era una consolazione per i suoi. Suo padre fuggì in cucina per fumare una sigaretta e sua madre chiese altre due volte: “Sei assolutamente sicuro?” Stefano rispose: “Sì”.  Dopo due giorni i suoi tornarono a casa. Non si parlò più di quel giorno e della sua “confessione”. Però Stefano si sentiva sollevato per aver raccontato tutto, per far partecipare i suoi alla sua vita anche in futuro.

“La verità vi farà liberi”.

Questa frase è al centro del brano biblico per il nostro culto di oggi. La Bibbia è una raccolta di storie di liberazione: l’esodo dall’Egitto, la liberazione dalla prigionia babilonica, la liberazione dal peccato e dalla morte attraverso Gesù Cristo. Questi sono i grandi temi della Bibbia, però questa liberazione capita anche a noi cristiani in un modo individuale.

La Bibbia è un mazzo di testimonianze di come Dio si mostra nelle vite dei fedeli e io spero che anche noi possiamo fare le nostre esperienze di liberazione attraverso la fede e la fiducia. Però nel nostro brano biblico di oggi secondo il vangelo di Giovanni vediamo anche che ci sono dei discorsi su come interpretare la libertà. E gli ebrei-cristiani hanno ragione se non si sentono schiavi e prigionieri.

Secondo me possiamo imparare particolarmente dall’ebraismo: il dialogo, discutere insieme, provare a trovare la verità. Tutte le chiese hanno perso un po´ questo aspetto biblico del dialogo, del condividere la Bibbia, del chiedere, del rispondere, dell’avvicinarsi.

Ricordo che in questa chiesa c’è, ogni due settimane, un gruppo biblico interconfessionale: una bella cosa.  Loro mi invitano una/due volte all’anno per uno studio biblico e vogliono sempre che io faccia una introduzione di almeno 45 minuti di un testo biblico. E io sono sempre un po´ perplesso perché voglio subito condividere il brano. I testi biblici sono scritti per il dialogo. E per questo le chiese sono importanti: Sono un posto dove si discute, si insegna e si impara, un posto di comunione tra di noi e con Cristo, proprio come oggi.

E io sono molto grato che le diverse chiese abbiano imparato e stiano ancora imparando attraverso il dialogo nella società che essere gay o transgender non è una minaccia contro qualcosa, ma è un dono. È una variante della natura, non peggiore e non migliore degli altri. Omofobia, transfobia e intolleranza invece sono un pericolo per la società.

“La verità vi farà liberi”.

Per l’evangelista Giovanni la parola chiave non è il sostantivo “fede”, è il verbo “pistis” (credere). Per Giovanni non si possiede la fede, è un processo “credere”. Fa parte della fede: riconoscere, capire, comprendere. E credere vuol dire – secondo Anselm Grün: vivere nella luce ed essere illuminato. “Io sono la luce del mondo; chi mi segue non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita”, dice Gesù.

Ma cosa vuol dire “verità” in questo contesto? Non sono dei dogmi, delle frasi vere, in cui dobbiamo credere. Abbiamo i nostri dubbi e siamo attenti con ragione quando qualcuno dice: io so la verità. La verità vuol dire: seguire Gesù.

È una verità che Gesù era una delle persone – secondo il Nuovo Testamento – del quale non conosciamo pregiudizi: lui si circonda di uomini, di donne, di bambini che non erano molto accettati a quell’epoca. E particolarmente attraverso l’incontro con gli emarginati lui insegna il vangelo, il buon messaggio, che il regno di Dio è vicino e viene in un altro modo da quello che ci aspettavamo: tramite la compassione, la comprensione, la sensibilità.

“La verità vi farà liberi”.

Si parla nel nostro brano biblico anche del peccato. Siamo molto sensibili quando sentiamo questa parola: peccato. Perché si usa sempre in un modo giudicante, quando qualcosa è immorale, è peccato. “I gay vivono nel peccato” (si sente ancora oggi). La verità invece è un’altra: collegare il peccato con le preferenze sessuali è peccato.

Peccato secondo i vangeli è essere separato da Dio, secondo Giovanni attraverso l’odio, l’infedeltà, l’egoismo e la cecità spirituale, la mancanza d’amore.

“La verità vi farà liberi”.

Poca gente sa che Martin Lutero cambia il suo nome dopo la sua scoperta teologica della grazia di Dio. Viene da una famiglia chiamata Luder. Vuole essere un monaco perfetto, serio. Vuole confessarsi ogni giorno perché vede che non riesce mai a essere sufficiente verso Dio. Scopre che non ha bisogno di essere perfetto, basta fidarsi della misericordia di Dio. Martin Luder cambia il suo nome come simbolo. Luther viene dal greco eleutheros, il liberato. La fede lo rende libero.

“La verità vi farà liberi”.

Care sorelle e fratelli, “essere a casa con il figlio”: questo è, secondo il nostro brano biblico, la formula per vivere la verità ed essere liberi. Siamo chiamati anche noi a seguire Gesù in un modo più ampio, con il nostro cuore e con tutta la nostra convinzione.

“Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta l’anima tua, con tutta la forza tua, con tutta la mente tua, e il tuo prossimo come te stesso». (Luca 10,27)

AMEN

pastore BERND PRIGGE

Sermone: LA VITE E I TRALCI

«Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo recide; ma ogni tralcio che porta frutto, lo purifica affinché ne porti di più. Voi siete già puri per mezzo della parola che vi ho annunciata. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutti da sé stesso se non rimane nella vite, così nemmeno voi, se non rimanete in me. Io sono la vite, voi siete i tralci. Chi rimane in me e io in lui, porta un frutto abbondante; perché senza di me non potete far nulla. Se uno non rimane in me, viene gettato via come il tralcio e si secca; poi li raccolgono, li gettano nel fuoco e bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà dato. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli. Come il Padre mi ha amato, così io ho amato voi; rimanete nel mio amore». (Giovanni 15,1-9)

Bellissimo questo passo dell’evangelo di Giovanni! Personalmente è uno dei passi della scrittura che più ho amato fin da giovane e sul quale spesso mi sono trovata a riflettere da sola o in compagnia.

Oggi con voi vorrei fare alcune considerazioni in merito alla narrazione sulla vigna ed ancora sul fatto che in questi 9 versetti compare ben 7 volte il verbo “rimanere” che, nella traduzione della BIR ha sostituito il verbo “dimorare” della Riveduta, però con il medesimo significato.

LA VIGNA – Nella Bibbia si parla spesso di questa pianta, tanto che, come abbiamo sentito nelle letture precedenti, Israele viene paragonata alla vigna del Signore. Credo che l’importanza data a questa pianta derivi dal fatto che il frutto della vigna, di una buona vigna, è l’uva e dall’uva si ricava il vino, una bevanda che era ed è utilizzata per festeggiare, per gioire, per condividere il piacere con gli altri, quindi una bevanda importante nel costume sociale di tutti i tempi. Ma non sempre il vino nella scrittura è simbolo di gioia, infatti viene anche presentato come una “bevanda traditrice” perché inebria e per questo da bere senza eccesso, oppure come simbolo del sangue di Cristo. Tuttavia sono molti i passi della Bibbia dove il vino è visto con approccio positivo, così come sono moltissimi i passi in cui si parla della pianta che dà l’uva.

Anche se non sono un’esperta di coltivazioni viti-vinicole, so bene, come lo saprete anche voi, che la vite ha un fusto robusto, dai cui rami scendono i tralci che porteranno l’uva.

Ebbene, in questo passo di Giovanni, Gesù dice che noi siamo i tralci, cioè siamo quella parte della pianta che sta fra il fusto e il frutto. Ma per dare buoni frutti i tralci devono essere ben saldi sulla pianta dalla quale devono trarre la linfa, la forza, per dare e sostenere buoni grappoli.

Nel racconto che abbiamo letto Gesù si paragona alla pianta ed afferma che il Padre è il vignaiolo.  Noi quindi, coloro che credono in Cristo, dovremmo essere consapevoli che non siamo tutta la pianta e che, se non diamo il frutto sperato, se ci secchiamo, il vignaiolo provvede a recidere.

RIMANERE – “Rimanete in me”. È questa l’esortazione principale di Gesù in questo passo. Già, rimanere in lui, così che Egli rimanga in noi.  È così importante questo concetto di rimanere, di dimorare, in Cristo da essere continuamente ripetuto. Rimanere saldamente in lui così come i tralci devono essere saldamente attaccati alla vigna. Rimanere in lui per non seccarci, per godere della linfa vitale che non si ferma al tralcio, ma nutre anche il frutto.

Mi viene una considerazione in proposito: se rimaniamo saldamente ancorati agli insegnamenti di Gesù siamo tralci produttivi, però dobbiamo avere la consapevolezza che siamo sempre e solo tralci, non siamo la pianta che affonda le radici nel terreno e non certo il frutto dal quale poi si trarrà il vino. Il tralcio sta nel mezzo, non è l’inizio e non è la fine del fluire della linfa. Il tralcio succhia la linfa dalla pianta, come noi possiamo trarre insegnamento e forza dalla parola del Signore, però cede parte della sua forza al frutto, affinché cresca buono e succulento. E una pianta può avere moltissimi tralci, alcuni dei quali verranno recisi perché non porterebbero frutto.

Ecco, così è la nostra missione: nella consapevolezza di essere solo dei mezzi per passare la linfa vitale, degli annunciatori della Parola, dei discepoli del maestro, noi dobbiamo condurci nei rapporti con gli altri sapendo che abbiamo l’incarico di produrre frutto, ma dobbiamo anche sapere che il frutto non resterà attaccato a noi, il frutto non apparterrà mai al tralcio. Io credo che, se noi riflettessimo su questo nostro ruolo di discepoli, consapevoli di essere solo dei mezzi, molti dei nostri sensi di onnipotenza verrebbero ridimensionati, perché spesso, nella nostra vita, non riusciamo ad accettare che il frutto, cioè coloro che ricevono da noi l’annuncio della parola (e lo ricevono con il nostro dire, ma soprattutto con il nostro agire), è completamente indipendente e libero da noi.

Ma che cos’è la linfa che passa dal tralcio, qual è la forza vitale che Gesù dice di darci quando afferma sia così potente da concederci di avere dal Padre tutto ciò che chiederemo?

Qual è il grande alimento che riceviamo dagli insegnamenti di Gesù, tanto grande da fargli dire che Egli resterà sempre in noi, mettendoci quindi in una relazione indissolubile col Padre?

L’ultimo versetto che abbiamo letto recita: “Come il Padre mi ha amato, così io ho amato voi; rimanete nel mio amore”. Eccolo l’alimento!  Ecco ciò che abbiamo gratuitamente ricevuto e gratuitamente dobbiamo porgere agli altri come discepoli di Gesù: l’amore, linfa vitale per ciascun essere umano e per l’umanità tutta.

Ma cosa intendiamo per “amore”? Certo è facile parlare d’amore con le persone a cui vogliamo bene, con coloro che sono cari al nostro cuore, ma, volando un po’ più in alto delle nostre ridotte vite di relazione, diventa più difficile definire l’amore e magari rischiamo di interpretarlo come un vago sentimento buonista che ci consente di metterci in contatto con gli altri solo per lusingare il nostro ego.

Per sapere invece cos’è l’amore nella dimensione di credenti dobbiamo rifarci ancora una volta al nostro maestro, a colui che ha condiviso con noi tutto ciò che sapeva, tutto ciò che aveva, compresa la sua stessa esistenza terrena, morendo in croce per noi, perché, come abbiamo letto nel passo di Giovanni per l’annunzio del perdono, “nessuno ha amore più grande di questo: donare la sua vita per i suoi amici”.

Ora, comprendo bene che la maggioranza di noi non è votata al martirio e comprendo bene che, nella nostra situazione sociale, non ci viene fortunatamente richiesto di dare la nostra vita, di immolarci fino alla morte per gli altri (tanti credenti però l’hanno fatto e continuano a farlo), però è altrettanto vero che, come discepoli del Signore, ci viene chiesto di spargere amore, cioè di condividere con il nostro prossimo ciò che abbiamo e ciò che siamo. Condividere non solo il surplus che ci avanza, ma condividere l’unico mantello che abbiamo con chi è ignudo. Mettere a disposizione il nostro tempo, i nostri averi, le nostre conoscenze, il nostro essere non solo quando ne abbiamo voglia, ma soprattutto quando alla nostra porta bussa qualcuno che non conosciamo, che non aspettavamo e che magari non vedremo più.

Il tralcio non giudica quanta linfa debba passare al frutto. Ne tiene una parte come proprio alimento e poi la cede tutta. Così dovremmo fare anche noi, per amore, con tutti i doni che abbiamo ricevuto, materiali e immateriali.

AMEN

Liviana Maggiore

Sermone: OGNI GIORNO RINASCIAMO AD UNA SPERANZA VIVA!

1Pietro 1,3-9  –  Colossesi 2,12-15

 “Ha spogliato i principati e le potenze, ne ha fatto un pubblico spettacolo, trionfando su di loro per mezzo della croce” (Colossesi 2,15).

Fratelli e sorelle, quanto è forte e incredibile questo passo! Sì, avete sentito bene, incredibile: incredibile perché non è questa la realtà a cui siamo abituati, la realtà a cui noi stessi spesso ci sottomettiamo. Chi di noi può veramente affermare di vivere una vita totalmente coerente con quanto è scritto nell’epistola ai Colossesi? Eppure Gesù ha spogliato i principati e le potenze e lo ha fatto una volta per tutte: cioè ha reso evidente cosa sono e cosa fanno: come dice Colossesi, ne “ha fatto un pubblico spettacolo”. Da duemila anni, ormai, si tratta di uno spettacolo che potrebbe essere evidente per tutti, eppure noi siamo ancora ciechi o timorosi di denunciare quello che vediamo, nonostante questo passo, come molti altri, sia stato scritto proprio per darci la forza e il coraggio di tornare come bambini e come loro avere la capacità e l’ingenuità di porci di fronte al potere del male che ci circonda con franchezza.

Conoscete la favola di Andersen sui vestiti del re? Si tratta della storia di un re, molto vanitoso, che spendeva tutti i suoi soldi per comprarsi magnifici vestiti; ne aveva di tutti i generi e di tutti i colori, di tutte le stoffe e provenienti da tutti i Paesi del mondo. Anche noi abbiamo la passione per gli oggetti che ci fanno apparire belli, importanti, realizzati, i nostri telefonini, le automobili, i televisori, oppure le case e perfino i titoli di studio. Anche noi siamo appagati dall’apparenza, invece che cercare la vera sostanza. Nel paese del re della nostra favola, un giorno arrivarono due uomini, che dissero di essere due sarti molto famosi e che avrebbero confezionato un abito unico al mondo per il re. Un vestito magico che avrebbero potuto vedere solo gli intelligenti o le persone importanti, quelli che contavano nella vita. Un vestito che sarebbe stato visto solo dalle persone superiori. Naturalmente il re si entusiasmò subito moltissimo e fornì ai due sarti tutto l’occorrente che avevano chiesto: cioè tanti sacchi di filo d’oro, sete in gran quantità e bottoni in madreperla, che i due imbroglioni posero in due grosse borse e che nascosero. I due montarono un telaio e cominciarono a far finta di lavorare, perché, forse lo avete già capito, non avevano alcuna intenzione di fare un vestito per il re, ma solo di imbrogliarlo facendo leva sulla sua vanità. Il mattino dopo il primo ministro andò a vedere il vestito; naturalmente non vide nulla, ma non volendo fare brutta figura, disse che si trattava di un vestito bellissimo. Successivamente si recò dai due sarti lo stesso re e anche lui non vide nulla, ovviamente, ma non voleva essere da meno del suo ministro e quindi anche lui disse che il vestito era bellissimo. I due imbroglioni gli proposero di indossarlo il giorno dopo in una parata solenne. Il re acconsentì. Nelle piazze e nelle strade accorse tutto il popolo, sia perché si trattava di una festa importante, sia perché voleva vedere l’abito magico del re. Quando il re arrivò, scese il silenzio: tutti vedevano che era in mutande, ma nessuno osava dire niente, sia perché non volevano offendere il re, ma soprattutto perché ognuno temeva di essere l’unico a non vedere nulla. Finché un bambino gridò: “Guarda papà, il re è nudo!”

Il re è nudo. Come i principati e le potenze di cui parla l’epistola che abbiamo letto oggi. Nudo. Ma nessuno aveva avuto il coraggio di dirlo, così come, nella nostra società il più delle volte non osiamo alzare la voce per denunciare quello che vediamo.

Ma Gesù, ci ricorda l’autore dell’epistola, ha trionfato. Sì, fratelli e sorelle, ha trionfato, ma non utilizzando i nostri mezzi, cioè non con la forza, con il potere o il denaro, ma con la croce. Gesù ha trionfato su principati e potenze per mezzo della croce. Della croce, fratelli e sorelle! Della croce. Quando riusciremo a prendere sul serio questo messaggio? Quanto è lontana la croce dalle nostre esistenze? Quanta fatica facciamo a farla nostra? Quanta indifferenza abbiamo nei confronti della sequela di Cristo perfino noi che ci dichiariamo cristiani e che veniamo con regolarità in chiesa, che cerchiamo di essere fedeli e di impegnarci per la nostra chiesa. Ma quanto ci teniamo lontani dalla croce! Quanto è difficile liberarci da questa gabbia che ci imprigiona e che ci fa preferire la via larga e comoda, piuttosto che affrontare quella stretta e tutta in salita che il Signore ci ha indicato. Siamo circondati dal male, ma ne siamo anche sedotti e ammaliati.

Ma il Signore non si stanca mai di darci ancora e ancora nuove possibilità, come dice l’epistola di Pietro, ci permette di rinascere ad una speranza viva mediante la resurrezione di Gesù Cristo. Una speranza viva, non qualcosa di teorico, qualcosa di mistico o di esclusivamente spirituale! Una speranza viva che segna i nostri corpi e le nostre esistenze. Noi che eravamo morti a causa dei nostri peccati, noi che eravamo già condannati, siamo stati vivificati.

Sì, fratelli e sorelle, vivificati. Cioè abbiamo ricevuto una nuova vita, o come dice Pietro, una nuova speranza. Di fronte all’evidenza di quello che Colossesi chiama “il documento a noi ostile”, siamo perdonati e possiamo credere che insieme a Gesù abbiamo vinto la morte. Sì, abbiamo vinto la morte.

Non è facile parlare oggi di resurrezione: sembra una realtà lontana, lontanissima, dalla nostra esistenza quotidiana. Anche all’interno delle nostre stesse chiese, qualcuno fa fatica. Non riesce a credere a questo evento che trascende totalmente le nostre esistenze. Come credere che un uomo, un uomo qualunque abbia potuto risorgere dopo la morte? Come immaginare un’ipotesi così lontana dalle nostre esperienze quotidiane? Ma Gesù non era un uomo qualunque. La nostra fede si poggia proprio su questo. Gesù era il Figlio di Dio e se crediamo a questo e se su questo abbiamo fondato le nostre vite, o proviamo a farlo, allora dobbiamo interrogarci, profondamente, su cosa significhi per noi, per ognuno e ognuna di noi credere in Gesù Cristo.

Egli ci chiama e ci incoraggia, non vuole essere ridimensionato ad un buon predicatore, un maestro di vita, una guida spirituale. No, Gesù era il Figlio di Dio ed è morto sulla croce per tutti e tutte noi ed è risorto il terzo giorno per tutti e tutte noi: è a questo che siamo chiamati a credere, nulla di più e nulla di meno. Anche se è evidente che la nostra vita, al contrario, è circondata dalla morte. È per questo che facciamo fatica a credere nella resurrezione. Nulla, nella nostra vita concreta ce ne parla; i nostri goffi tentativi di apparire giovani e di allungare la vita non fanno che sottolineare che invece siamo mortali e abbiamo grandissima paura della nostra fine. La tentazione di rifiutare la nostra unica possibilità di vita a causa del nostro grande attaccamento a questa nostra esistenza è fortissima, ma non dobbiamo temere! Gesù, infatti, si è fatto essere umano esattamente come me e come tutti e tutte voi. Ha conosciuto la nostra vita, i nostri dolori, le nostre gioie, ha provato la fame, la sete, il piacere della tavola e dell’amicizia; un uomo che ha conosciuto la tentazione ed è entrato nella storia: un uomo completo e potremmo dire normale.

E quando sentiamo il desiderio di rifiutare la nuova vita che ci dona il Signore, perché siamo attaccati alla nostra vecchia esistenza piena di morte e di dolore, quando rifiutiamo di lasciarci convertire e di guardare con occhi rinnovati i principati e i potenti, non dobbiamo dimenticare che il Signore ci ama e ci ha amati al punto da divenire come noi, al punto da affrontare la nostra più grande paura, la morte, e non una morte qualsiasi, ma la morte di croce. Pur di liberarci dal nostro peccato, è venuto sulla terra e ha cancellato anche la traccia del nostro peccato. Quale dono maggiore poteva farci? E quindi lasciamo la nostra paura e affidiamoci con cuore riconoscente alla possibilità di vita che ci è concessa, una volta per tutte, dalla croce di Gesù.

Fratelli, sorelle se il nostro essere venuti fin qui non è vano, apriamo i nostri cuori alla gioia e alla speranza: il Signore vede il male nel quale viviamo, nel quale siamo immersi, lo conosce, ma ha scelto di darci la vita e ha trionfato sulla morte, sulla nostra morte, attraverso la sua resurrezione.

Il Signore ci doni occhi per vedere i nostri peccati e cuori per accogliere la sua luce vivificante, in modo da poter con gioia profonda vivere fino in fondo il canto di lode innalzato da Pietro: “Benedetto sia il Dio e Padre del nostro Signore Gesù Cristo, che nella sua grande misericordia ci ha fatti rinascere a una speranza viva mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti”.    Amen!

Erica Sfredda

Sermone: UNA VITA NUOVA

Questo sermone si può dire sia stato preparato a due mani, infatti la mia gratitudine per le riflessioni in esso contenuti vanno ad una pastora della nostra chiesa che ha tutta la mia stima, oltre che il sincero affetto e la riconoscenza per il piacere dei nostri contatti, complice la tecnologia che avvicina coloro che sono geograficamente lontani: Eleonora Natoli della chiesa di Savona.

Leggo dall’epistola di Paolo ai Colossesi 2,1-15

“Voglio infatti che sappiate quale dura battaglia combatto per voi, per quelli di Laodicea e per quanti non mi hanno mai visto in faccia, perché i loro cuori siano consolati, uniti nell’amore, per comprendere con piena certezza e per conoscere a fondo il mistero di Dio, di Cristo, nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della conoscenza. Dico questo affinché nessuno vi inganni con parole seducenti. Sebbene io sia fisicamente assente, nello spirito sono con voi e mi rallegro vedendo il vostro buon ordine e la stabilità della vostra fede in Cristo.

Come, dunque, avete ricevuto Cristo Gesù, il Signore, in lui anche continuate a camminare, radicati in lui e su di lui edificati, rafforzati nella fede, proprio come siete stati istruiti, pieni di gratitudine. Fate attenzione che nessuno vi irretisca mediante la filosofia e con vuoto inganno, secondo la tradizione umana, secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo, perché in lui dimora corporalmente tutta la pienezza della divinità, e voi avete tutto pienamente in lui, che è il capo di ogni principato e autorità. In lui siete anche stati circoncisi con una circoncisione non fatta da mano umana, spogliandovi del corpo della carne, ma con la circoncisione di Cristo, dato che siete sepolti con lui nel battesimo; con lui pure siete stati risuscitati per mezzo della fede operante di Dio che lo ha risuscitato dai morti. E benché foste morti nelle vostre trasgressioni e nell’incirconcisione della vostra carne, vi ha fatto viventi con lui, perdonandoci tutte le trasgressioni, cancellando il registro dei debiti contro di noi, le cui prescrizioni ci condannavano. Lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce, avendo messo a nudo i principati e le autorità, li ha esposti in pubblico, celebrando in essa un trionfo su di loro”.

Il passo che abbiamo letto porta il titolo “Avvertimento contro le false dottrine”, tuttavia nel leggerlo, oltre alla sollecitazione di vegliare per non farsi irretire dalle false dottrine e per non costruirsi idoli vani, come abbiamo letto prima in Isaia, può sorgere anche una domanda, o meglio una domanda in tre momenti:

  1. Chi è Cristo?
  2. Cosa fa Cristo per noi?
  3. Cosa compie Cristo in noi?

Certo, non è solo la lettera di Paolo ai fedeli di Colosse (città scomparsa nell’attuale Turchia) che presenta questi temi. Tutto il Nuovo Testamento è permeato da questi argomenti.  Ma, per tornare alla nostra lettura, direi che la risposta alla prima domanda è chiarissima nel versetto 15 “ha spogliato i principati e le potenze, ne ha fatto un pubblico spettacolo, trionfando su di loro per mezzo della croce”. Cioè Paolo per farci comprendere chi è Cristo ci fa vedere la banalità del mondo semplicemente orizzontale e ci spinge ad alzare il nostro sguardo e il nostro pensiero verso una dimensione cosmologica, perché le cose visibili, le potestà terrene, sono state ridimensionate da Lui, Lui che, attraverso la croce e la vita data per la salvezza degli uomini, ha trionfato sui legacci comportamentali, ha sconfitto una visione puramente materialistica del mondo, affermando la sua sovranità su tutto ciò, ma soprattutto facendo comprendere la Sua signoria anche sull’invisibile, su ciò che va oltre le nostre vite, in una dimensione dove lo spazio e il tempo non contano più, dove le nostre categorie mentali, la nostra cultura, i nostri comportamenti, i nostri usi sociali perdono completamente di valore, per lasciare spazio ad una pienezza che trova compimento nella salvezza che può derivarci solo dall’immenso amore di Dio, dal sacrificio della croce e dalla resurrezione di Cristo, perché Lui è l’alfa e l’omega, l’inizio e la fine, colui che è, che era e che viene, come troviamo scritto in Apocalisse 1,8.

E veniamo ora alla seconda e terza domanda: “Cosa fa Cristo per noi?” e “Cosa compie Cristo in noi?”

La risposta mi sembra chiara: se Gesù di Nazareth per noi è il Cristo, il figlio che Dio ci ha inviato per riscattarci dalle nostre infedeltà, per insegnarci una nuova via, per redimerci dal peccato, allora Cristo ha già fatto per noi tutto ciò che poteva essere fatto, proponendoci la sua vita, il suo modo di guardare al mondo, la sua visione di amore e fratellanza, la certezza del perdono, la sua spiritualità. Ciò significa che anche noi, secondo la mente di Dio, possiamo vivere la nostra vita in comunione con quella del Cristo spirituale, oltre che negli insegnamenti del Cristo uomo.

E Paolo ci aiuta a comprendere cosa ha fatto Cristo per noi, infatti egli scrive che, attraverso il battesimo, da morti che eravamo siamo stati resuscitati, cioè, per la potenza di Dio, siamo già diventati persone nuove. E di questa “persona nuova” Paolo non dice tanto per dire, ma, come sappiamo, ha fatto l’esperienza sulla propria pelle.  Questo è ciò che Cristo compie in noi: le forze che dominano l’universo, signorie, principati, potenze non riescono più a ridurre la nostra esistenza a un triste sopravvivere, a uno sforzo che temiamo inutile per combattere giorno per giorno mille problemi.  L’invito è a vedere e vivere l’esistenza in modo nuovo perché nella nostra unione con Cristo siamo diventati persone nuove.  Ciò significa che il nostro vivere con Cristo non ha una dimensione puramente astratta ma diventa la fibra interna della nostra psiche, della nostra ragione, del nostro stesso essere. Noi non fuggiamo verso la resurrezione come fossimo proiettati verso un risarcimento futuro, ma siamo cristiani nella storia e nella storia siamo chiamati a lasciare la nostra impronta che in termini religiosi chiamiamo testimonianza, una testimonianza che deve essere svolta qui e ora, nel nostro mondo, nel momento attuale, senza rinviarla al futuro, senza aspettare domani, perché non solo il domani, ma già fra poche ore è troppo tardi per fare ciò che dobbiamo fare, per essere come dovremmo essere.

Ma come possiamo rendere questa testimonianza in un mondo così travagliato da guerre, piccole e grandi ingiustizie, soprusi, scandali, incertezze del domani?

Nei secoli, la storia dei credenti ha avuto molti e significativi testimoni. Ma fra tutti oggi mi piace ricordarne uno in particolare; non tanto perché egli sia il migliore, ma solo perché anche di recente abbiamo sentito riparlare di lui anche sui mezzi di comunicazione: Martin Luther King, del quale il giorno 4 aprile è stato ricordato il cinquantesimo anniversario della morte.

Ebbene, che cosa ha operato Cristo in lui?

Il suo essere cristiano, il suo essere una persona nuova in Cristo, il suo essere già risorto nel battesimo mediante la fede e per la potenza di Dio, ha connotato la sua esistenza. Esistenza radicalmente conficcata nella storia di quegli anni, una lotta la sua contro le potenze e le signorie che vogliono scalzare Cristo dal mondo. Una fede la sua, forte di ciò di cui Cristo ci rende partecipi e portatori, un messaggio nuovo per un mondo vecchio, sfinito, intollerabile; ancorato da millenni a dinamiche letali di lotta per la supremazia dell’uomo sull’uomo. Questo lo spirito di Cristo ha operato in lui e può operare in tutti noi, se apriamo il nostro cuore e mettiamo la nostra vita al suo servizio.

Una vita viva, non soffocata, degna di rispetto, piena di significato per gli altri, verso i quali viene testimoniata la possibilità di un rinnovamento, e di conseguenza e a maggior ragione piena di significato per se stessi.

Scrive M.L. King: “Voi avete una doppia cittadinanza: vivete sia nel tempo e nell’eternità, sia in cielo e sulla terra. Perciò la vostra fedeltà non è, in primo luogo, al governo, allo Stato, alla nazione o a un’istituzione umana; il cristiano deve essere, prima di tutto, fedele a Dio e se un’istituzione terrena è in conflitto con la volontà di Dio è vostro dovere di cristiani prendere posizione contro di essa. Non dovete mai permettere che le istanze transitorie di istituzioni umane abbiano la prece4denza sulle istanze eterne di Dio Onnipotente”.

Quindi possiamo dire che quando un cristiano è un essere umano nuovo sa prendere posizione per Dio nel mondo, sa testimoniare la su fede assumendosi i rischi che la lotta all’ingiustizia comporta, sa crescere come cittadino perché ha ben chiara l’incolmabile differenza tra le varie signorie terrene e la sovranità divina di quell’ideale spirituale e sociale che chiamiamo “regno di Dio”.

È vero, la concretezza della realpolitik permette agli Stati di funzionare ma l’ideale della sovranità del Dio giusto, rivelatosi in Cristo, permette alle donne e agli uomini di raggiungere la pienezza del valore di persona.

Quindi, fratelli e sorelle, sapendo cosa opera in noi la potenza di Cristo, cogliamo con cuore aperto un’esortazione pastorale di M.L. King: “Cercate Dio, trovatelo e fate di lui una forza nella vostra vita. Senza di lui tutti i nostri sforzi si riducono in cenere e le nostre aurore diventano le più oscure delle notti. Senza di lui, la vita è un dramma senza senso a cui mancano le scene decisive. Ma con lui noi possiamo passare dalla fatica della disperazione alla serenità della speranza. Con lui noi possiamo passare dalla notte della disperazione all’alba della gioia”.

Questo Cristo fa per noi e questo siamo chiamati a testimoniare.    AMEN

Eleonora Natoli + Liviana Maggiore

Sermone: UNA DONNA TESTIMONE

11 Maria invece stava all’esterno, vicino al sepolcro, e piangeva. Mentre piangeva, si chinò verso il sepolcro 12 e vide due angeli in bianche vesti, seduti l’uno dalla parte del capo e l’altro dei piedi, dove era stato posto il corpo di Gesù. 13 Ed essi le dissero: «Donna, perché piangi?». Rispose loro: «Hanno portato via il mio Signore e non so dove l’hanno posto». 14 Detto questo, si voltò indietro e vide Gesù, in piedi; ma non sapeva che fosse Gesù. 15 Le disse Gesù: «Donna, perché piangi? Chi cerchi?». Ella, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: «Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove l’hai posto e io andrò a prenderlo». 16 Gesù le disse: «Maria!». Ella si voltò e gli disse in ebraico: «Rabbunì!» – che significa: «Maestro!». 17 Gesù le disse: «Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma va’ dai miei fratelli e di’ loro: «Salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro»». 18 Maria di Màgdala andò ad annunciare ai discepoli: «Ho visto il Signore!» e ciò che le aveva detto.  (Giovanni 20,1-18)

Una premessa: la scrittura cresce con colui che la legge. Non c’è Parola di Dio nella scrittura, ma nella lettura! Chi l’ha scritta, ha raccontato la sua esperienza di Dio. Esperienza di Dio elaborata in forma di testo. Noi non siamo la religione del libro, ma della Parola.

Nel brano appena letto viene narrata una sconvolgente esperienza di Dio, quella che fece Maria di Magdala “il primo giorno della settimana”, la domenica, dopo la morte di Gesù.

Inizia così: “Maria invece era rimasta presso il sepolcro. Perché “invece”? Perché era appena stata raccontata la corsa di Pietro e dell’altro discepolo che Gesù amava (così dice il vangelo di Giovanni) verso il sepolcro, dopo che Maria stessa aveva trovato la pietra, che chiudeva la tomba vuota, rimossa, ed era andato a dirlo ai discepoli. Pietro e l’altro apostolo videro la tomba vuota, i teli ed il sudario, l’altro discepolo si dice persino che “vide e credette”, ma poi se ne tornarono a casa. Lei, invece, Maria, rimane a contemplare il mistero, rimane “fuori vicino al sepolcro a piangere. Non riesce a tornare a casa, non riesce ad andarsene, non riesce a darsi pace. Lei che si era recata di buon mattino al sepolcro, mossa da immensa gratitudine e amore per il suo maestro, per cercare di recuperare il suo corpo senza vita, è ora immersa in lacrime di dolore.

Il suo è il pianto amaro di chi sa cosa significhi perdere l’amore che salva, è il pianto dell’umanità che ha rinchiuso in un sepolcro il suo Dio, è la tristezza profonda per un crimine assurdo, è ancora l’incapacità di comprendere come possa accadere che il Figlio di Dio rimanga definitivamente in un sepolcro. Il pianto di Maria e le sue lacrime sono l’immagine di quel dolore acuto, profondo, duro da far male a chi lo vede delle persone che hanno vissuto da vicino la morte. Non ci si riesce a muovere, o ci si muove e si dicono cose inessenziali, come questo disperato ripetere di Maria di Magdala: “Hanno tolto il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno messo; Signore, se tu l’hai portato via tu, dimmi dove l’hai posto, e io andrò a prenderlo”.

La morte crea un vuoto terribile dentro la vita, dentro la casa, dentro i pensieri. Un vuoto assoluto che questa tomba, svuotata anche del corpo, amplifica. Quella persona amata non c’è più perché è morta, e ora non c’è più neanche il suo corpo. Come quando si ritorna dal funerale di chi ha vissuto con te, di chi hai amato e che ti ha amato: la morte ti ha tolto tutto, anche il corpo, ti ha lasciato il vuoto.

La Pasqua ha a che fare con questo, con la morte vera, con quel vuoto invisibile ed incolmabile, con quel bisogno di ritrovare il corpo, con quel desiderio inesaudibile di rivedere il corpo, persino di toccarlo. Questo è ciò che accade il mattino di Pasqua, che Gesù, che era morto, è stato risuscitato: per forza Maria di Magdala non riesce a capire, a sentire, a vedere. Per forza non riconosce gli angeli e non riconosce nemmeno Gesù: perché la sua vita è rimasta al di qua della risurrezione, al di qua della vita, impastata nella morte, dentro l’ordine del cimitero, dove tutt’al più puoi incontrare due angeli, che molto probabilmente lei scambia per dei giardinieri, degli addetti ai lavori che possono aver spostato il corpo per esigenze professionali.

Ricordiamocelo: nessuno sa effettivamente cosa sia successo con la resurrezione, e questo perché non c’erano testimoni. Questa è la grande differenza tra la Pasqua e la morte di Gesù. La morte di Gesù è stata vista da molte persone, sia discepoli, sia poi il centurione che fa la sua confessione di fede quando vede morire Gesù. Quindi ci sono tanti testimoni. Ma la resurrezione non ha testimoni e questa è la sua forza e la sua debolezza. È la sua forza perché è, appunto, una sfida aperta alla fede, nel senso che noi crediamo ciò che non vediamo. E questo è lo statuto proprio della fede. La fede è proprio questo credere nell’invisibile, nel Dio invisibile, nel Cristo invisibile. In definitiva la cosa che induce a dire che la Pasqua non è un’invenzione dei discepoli è proprio il fatto che nessuno se l’aspettava. Il fatto che loro non ci hanno creduto è il motivo per cui noi ci crediamo. Al venerdì santo non è solo morto Gesù, è anche morta la fede in lui. E quindi dopo il venerdì santo tutti erano pronti a ritornare ai loro mestieri. C’è addirittura una parola molto significativa dell’apostolo Pietro che in sostanza dice: io torno a pescare. Ma la Pasqua ha questa caratteristica: di smentire la realtà, che vorrebbe tutto finito, un capitolo chiuso. E invece no, Dio lo riapre. Naturalmente i testi balbettano, ma anche questo è un segno positivo per la fede, perché dimostra che la Pasqua è la sorpresa assoluta, ciò che nessuno immaginava. La resurrezione è il messaggio meno credibile, questo è il punto. Eppure è questo messaggio meno credibile di qualunque altro che ha fondato, o meglio, rifondato la fede che era morta, ha risuscitato la fede. A Pasqua non risuscita solo Gesù, risuscita anche la fede in Gesù. Non è la fede dei discepoli che ha resuscitato Gesù, ma è Gesù risorto che ha resuscitato la fede dei discepoli. È ai piedi del risorto che nasce la fede cristiana.

Il brano termina con questa affermazione: “Maria andò ad annunciare ai discepoli “Ho visto il Signore!” e ciò che le aveva detto”. Forse non ci rendiamo conto di questa incredibile novità: Gesù affida il suo annuncio di vittoria e di grazia ad una donna. Gesù comincia questa nuova storia, che nasce dalla sua Resurrezione, da una donna. Non comincia più come aveva cominciato all’inizio del suo ministero, scegliendo dodici uomini: Pietro, Giacomo, Giovanni, Andrea, Filippo e tutti gli altri. A nessuno di questi Gesù appare per primi. A nessuno di loro Gesù affida la più grande e bella notizia mai udita in questo mondo, la notizia che per una volta la morte è stata vinta, che per una volta la morte non ha avuto l’ultima parola. Questa notizia che sta al cuore della fede cristiana ed è la ragione incrollabile della nostra speranza, Gesù non l’ha affidata ai grandi apostoli uomini, uno dei quali l’ha tradito, l’altro l’ha rinnegato tre volte e tutti, senza eccezione, l’hanno abbandonato, non a loro Gesù ha affidato il messaggio più grande, quello decisivo, la parola-chiave della fede e della storia: “Risurrezione!”, quella che più e meglio di ogni altra ci porta vicino al mistero di Dio.

Affidando questa parola ad una donna Gesù va completamente contro corrente, perché allora le donne non erano accettate come testimoni nei tribunali; la loro parola non valeva niente. Gesù distrugge questa discriminazione affidando proprio a una donna la testimonianza più importante di tutte. E qual è questa testimonianza? Che colui che era scomparso, appare; colui che sembrava assente, è presente.

È presente, ma ricordiamocelo, non è riconosciuto. Questo è il destino di Dio nel mondo: essere presente e non essere riconosciuto. Si parla tanto della assenza di Dio: ma Dio non è assente, è presente, ma non è riconosciuto. Come succede qui a Gesù: “Maria vide Gesù in piedi, ma non sapeva che era Gesù” (20,14). Lo vede, ma non lo riconosce. Perché non lo riconosce? Certamente perché il corpo risorto di Gesù è diverso da quello che aveva durante la sua vita, è un corpo nuovo, e il fatto che Maria non lo riconosca esprime appunto la diversità e novità del corpo risorto rispetto a quello di prima.

Ma il tema di vedere e non riconoscere è molto ampio e concerne il nostro modo di guardare tutta la realtà che ci circonda. Ad esempio: vedere il cielo e la terra e non riconoscere la mano di Dio; vedere la creatura e non riconoscere il Creatore; vedere la vita e non riconoscere “la Fonte della vita” (Salmo 36,9); vedere l’altro e non riconoscere il prossimo; vedere il prossimo, e non riconoscere il fratello; vedere un malato, un carcerato, un profugo, un affamato e non riconoscere quello che Gesù chiama uno dei suoi “minimi fratelli” (Matteo 25,40). Che cosa vuol dire “riconoscere”? Vuol dire vedere quel che non si vede, vedere oltre le apparenze, vedere quel che è nascosto agli occhi del corpo, ma è evidente agli occhi del cuore; in una parola vedere l’invisibile. Come dice l’apostolo Paolo: “Noi abbiamo lo sguardo intento non alle cose che si vedono, ma a quelle che non si vedono; perché le cose che si vedono sono solo per un tempo, ma quelle che non si vedono sono eterne” (II Corinzi 4,18).

Maria non riconosce subito Gesù, ma poi lo riconosce. Quando? Quando Gesù le parla. Finché Dio resta muto, è un enigma, una grande domanda senza risposta, uno sconosciuto. Dio lo si conosce e riconosce nella sua Parola. Quando Gesù parla, allora Maria lo riconosce. E che cosa le dice Gesù? Non le dice, come potremmo aspettarci: “Io sono Gesù, non sono il giardiniere”, no, le dice: “Tu sei Maria; ti conosco e ti riconosco”. E Maria risponde: “Rabbunì!” che vuol dire Maestro! C’è dunque qui un doppio riconoscimento: Maria riconosce Gesù nel momento in cui Gesù riconosce Maria!

Ora c’è una ragione per non piangere, una sola, ma c’è: Gesù è risorto, la morte è stata vinta, l’ultima parola ce l’ha la vita e non la morte, la libertà e non l’oppressione, la giustizia e non l’ingiustizia, il bene e non il male, la gioia e non il dolore. Si, c’è una ragione per non piangere, una sola, ma c’è: è quella che celebriamo in questo culto e che vogliamo gelosamente custodire nel nostro cuore, per non dimenticarla nel giorno delle lacrime. Gesù si trova già aldilà del confine della morte, nel mondo nuovo di Dio, ma non dimentica il nostro nome e ci chiama: “Maria!” “Salvatore” “Francesco” “Mary”. Mettiamo il nostro nome al posto di quello di Maria, scriviamolo nella nostra Bibbia. Gesù risorto, dall’altro versante della realtà, ci chiama per nome a entrare nella comunità della risurrezione, dove si sa che l’ultima parola ce l’ha Lui, e non la morte, Lui, il primo e l’ultimo, il vivente nei secoli dei secoli.  AMEN

Fabio Barzon

Sermone: QUAL E’ LA STRADA?

Ed ecco che, in quello stesso giorno, due di loro stavano andando a un villaggio a circa sessanta stadi di distanza da Gerusalemme, chiamato Emmaus, e parlavano tra di loro di tutti quegli avvenimenti. Mentre conversavano e discutevano, Gesù in persona, dopo essersi avvicinato, camminava con loro. I loro occhi, però, non riuscivano a riconoscerlo. Egli disse loro: «Che cosa sono questi discorsi che fate tra voi mentre camminate?» Ed essi si fermarono, mesti. Rispondendo, uno dei due, di nome Cleopa, gli disse: «Tu soltanto tra i pellegrini che stanno a Gerusalemme, non conosci i fatti che vi sono accaduti in questi giorni?» Lui disse loro: «Quali?» Loro gli risposero: «I fatti riguardanti Gesù, il Nazareno: era un profeta potente nei fatti e nelle parole davanti a Dio e a tutto il popolo; e i sommi sacerdoti e i nostri capi lo hanno consegnato, perché fosse condannato a morte, e lo hanno crocifisso. Noi speravamo che fosse lui che doveva venire a redimere Israele; ora, però, con tutto questo oggi sono tre giorni da quando questi fatti sono avvenuti. Certo, alcune donne tra noi ci hanno lasciati senza parole: andate al sepolcro presto al mattino, non hanno trovato il suo corpo, e sono ritornate per dire di aver anche visto una visione di angeli, i quali dicono che egli è vivo. Alcuni di quelli che sono con noi sono andati al sepolcro e hanno trovato proprio come le donne stesse hanno riferito, ma lui non lo hanno visto».

E lui disse loro: «Stolti! Come siete lenti a credere a tutte le cose di cui hanno parlato i profeti! Il Cristo non doveva soffrire queste cose ed entrare nella sua gloria?»  E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti interpretò per loro tutti i passi delle Scritture che lo riguardavano.

Si erano ormai avvicinati al villaggio a cui erano diretti e lui fece come per proseguire. Essi insistettero con lui dicendo: «Rimani con noi, perché è quasi sera e il giorno volge già al suo termine». Ed egli entrò per restare con loro. E mentre era a tavola con loro, preso il pane, lo benedisse, e dopo averlo spezzato, lo diede loro. Allora i loro occhi furono aperti e lo riconobbero; ma lui divenne invisibile ai loro occhi. E si dissero gli uni gli altri: «I nostri cuori dentro di noi non ardevano, quando ci parlava lungo la strada? Quando ci spiegava le Scritture?»

Alzatisi proprio in quel momento, tornarono a Gerusalemme e trovarono riuniti insieme gli Undici e quelli che erano con loro, i quali dicevano che il Signore era veramente risuscitato ed era apparso a Simone. Essi pure spiegavano le cose avvenute loro per la via e come lo avevano riconosciuto, quando aveva spezzato il pane.  (Luca 24,13-35)

Vorrei innanzi tutto fare una premessa: noi crediamo nel Cristo risorto! Non è un’affermazione così scontata, credetemi, perché mi è capitato di sentirmi dire da persone che si definiscono credenti cristiani di avere talvolta alcune perplessità sulla resurrezione di Gesù.  Io mi chiedo come si faccia a definirsi credenti cristiani e non credere alla resurrezione, tuttavia …. non è un affare mio, anche se sono legittimata a nutrire perplessità di fronte a tali affermazioni, perché viene a mancare il più grande miracolo che ha cambiato la storia dell’umanità, senza il quale il messaggio evangelico si riduce ad una serie di insegnamenti etici, certamente importanti, ma che non richiedono un approccio di fede.

Leggendo il passo di Luca e dando quindi per scontato il fatto di credere nella resurrezione, mi sono ritrovata a pensare ai sentimenti e all’atteggiamento dei due discepoli sulla strada di Emmaus.  Immagino che costoro se ne andassero mesti per quella ventina di km da Gerusalemme. Venivano via da Gerusalemme probabilmente molto delusi perché il loro maestro, il loro leader, colui nel quale avevano creduto e che avevano seguito, era morto. E, fra l’altro, era stato messo a morte come un delinquente, come coloro che si sono macchiati di nefandezze.  Certo, avevano sentito che le donne andate al sepolcro non lo avevano trovato e che avevano avuto una visione di angeli che dicevano che egli era vivo, però evidentemente non ci avevano creduto, visto che si stavano allontanando da Gerusalemme, dove c’erano ancora i loro amici, altri discepoli di Gesù.

Non serviva più rimanere insieme perché era tutto finito. Il dolore per la morte del maestro era grande, infatti parlano tra loro di quanto accaduto. Ma forse era altrettanto grande la delusione delle aspettative che avevano riposto in Gesù: avrebbe dovuto essere il Messia che libera, che riscatta Israele. Quindi, tanto valeva venire via da Gerusalemme, perché era tutto finito. La morte aveva cancellato tutto. Poteva al massimo essere mantenuto il ricordo di un’esperienza particolare: aver conosciuto una persona speciale nella quale avevano riposto il loro amore e la loro fiducia.

La morte cancella tutto. La separazione da una persona amata porta dolore, angoscia, e nel contempo ci mette davanti ad una sorte ineluttabile dove spesso la paura la fa da padrone.

Vorrei proporvi un’esperienza personale, sperando di non scandalizzare nessuno, come invece mi è accaduto in passato. Quando è morto Giancarlo, mio marito, col quale sapete ho condiviso 33 anni di matrimonio soddisfacente, parlando con alcune persone amiche ho visto il loro stupore quando dicevo che non soffrivo la separazione, non ero addolorata per la sua morte, ma sentivo la mancanza della sua presenza, delle lunghe chiacchierate, della condivisione di interessi comuni. Soffrivo il dolore per l’assenza della persona, un’assenza che, in linea teorica, avrebbe potuto essere causata anche da altro e non solo dalla sua morte. Non ho mai avuto la percezione, neppure in maniera fugace, che la morte cancella tutto.  Non dico di aver avuto ragione. Probabilmente questo mio sentire era dovuto anche al credere profondamente che la morte è solo un passaggio, come la nascita. Probabilmente questa consapevolezza mi derivava da esperienze di premorte che, come me, molti hanno fatto. Tuttavia questo era il mio sentimento, un modo di porsi che non butta all’esterno dell’esistenza psicologica individuale la colpa della separazione, quasi che la morte non facesse parte della nostra stessa vita e, invece di essere un evento, viene quasi personalizzato per proiettare il proprio dolore che non si riesce ad elaborare.  Eppure spesso invece accade così: la morte viene subita, viene vista come qualcosa di completamente estranea a noi, alla nostra vita, qualcosa di negativo e ostile che ci porta a pensare che con la fine della vita terrena tutto finisce nel nulla.

E penso che i due discepoli così la vivessero. Se ne andavano verso Emmaus per riprendere un’altra vita, forse una vita simile a quella che avevano prima di incontrare Gesù.  La loro strada è lastricata di dolore per il lutto. Sono così compresi nel loro dolore e nei loro discorsi tristi che non si accorgono di chi sia colui che diventa il loro compagno di viaggio.  Parlano con lui, si stupiscono perfino del fatto che, venendo anche lui da Gerusalemme, non sia al corrente di quanto accaduto. La loro disperazione e il sentimento di profonda delusione fa sì che siano concentrati solo su loro stessi.

Certo sono persone per bene, infatti quando si fermano sul far della sera, invitano questo estraneo a cenare con loro e, durante il pasto, accade qualcosa che li risveglia: nello spezzare il pane, nel benedirlo e nel condividerlo, riconoscono il loro maestro. Un gesto che li riporta a un “dejavu”, un atteggiamento che li sconvolge e li riporta alla loro esperienza vissuta con Gesù.

Allora comprendono. E si stupiscono per non aver capito prima («I nostri cuori dentro di noi non ardevano, quando ci parlava lungo la strada? Quando ci spiegava le Scritture?»). E lo stupore è incontenibile: riconoscere il loro maestro in colui che era estraneo fino a poco prima fa loro credere che quanto detto dalle donne sia vero.

Siamo ancora sul far della sera, ma non possono aspettare che sorga il sole per riprendere subito la via verso Gerusalemme per dire agli amici quanto accaduto. Il prodigio è così grande da non concedere esitazioni.  Immagino che questi due siano carichi di adrenalina e vadano di buon passo, col cuore ricolmo di gioia, per raccontare agli altri la loro straordinaria esperienza. Ecco allora che la stessa strada, prima lastricata di dolore e delusione, ora è invece lastricata di fiducia, di speranza, di …. fede sul fatto che Gesù era veramente colui che era atteso.

E rieccoci a parlare della strada, della via della vita che anche noi, come loro, percorriamo.

E allora mi chiedo (e chiedo a voi): sappiamo noi quale sia la strada? Siamo certi che il nostro senso di onnipotenza ci consenta di riconoscere la presenza di Gesù accanto a noi? Sappiamo sempre che strada fare? Quante volte la facciamo distrattamente oppure la percorriamo afflitti dai nostri piccoli e grandi dolori, come fossimo assolutamente soli?

In altre parole, ci conduciamo nella vita afflitti e addolorati per tutte le nostre magagne, oppure la percorriamo con entusiasmo come i due discepoli quella sera, fiduciosi nella resurrezione di Gesù?

Ma soprattutto, qual è la strada che dobbiamo seguire?

Un tempo, quand’ero giovane in Val Senales, c’era un mio amatissimo amico che era stato la guida alpina di mio nonno. Quando la neve se ne andava, Opa Toni (così lo chiamavo), prendeva nello zaino colori e pennelli per andare a segnare i sentieri, affinché i villeggianti potessero non smarrirsi nelle passeggiate. Lui diceva che le frecce che disegnava dovevano essere chiare e ravvicinate per essere utili.

Purtroppo nei sentieri e nelle strade della vita non troviamo così sovente le frecce che ci indichino il percorso e spesso il nostro senso dell’orientamento ci inganna, presi come siamo dai nostri convincimenti personali.

E allora? Qual è la via da seguire?

Direi una sola: aprire il cuore e la mente e riconoscere che Gesù è veramente con noi fino alla fine dei tempi. È Gesù stesso che ci ha già indicato la via, perché, se abbiamo fede, non possiamo fare a meno di ricordare che lui ha detto: “Io sono la via, la verità e la vita”.

Se accettiamo la presenza di Gesù nella nostra vita, la strada è già segnata.

Se accettiamo che la resurrezione che celebriamo oggi è reale, riconosceremo certamente il nostro compagno di viaggio e comprenderemo che quella resurrezione è anche per noi, come lo fu per Lazzaro, perché la morte non cancella tutto.

AMEN

Liviana Maggiore