IL SOLE, LA LUNA E LE STELLE

Vorrei raccontarvi una storia, la storia dell’umanità e del sole, della luna e delle stelle. Una storia che inizia nel principio, per usare le parole bibliche, perché gli astri, da sempre, prima di noi, hanno il loro posto sopra di noi.

Sono proprio sole, luna e stelle che permettono e regolano la vita umana: il sorgere e il tramontare del sole e della luna scandiscono il tempo, il passare dei giorni, dei mesi, delle stagioni; ma anche regolano l’alternarsi del buio e della luce, del caldo e del freddo, e quindi della semina e del raccolto; senza dimenticare la possibilità di orientarsi… gli astri, nel principio, non erano solo compagni di viaggio, ma strumenti essenziali del viaggio, erano ciò che faceva la differenza fra carestia e abbondanza, benessere e povertà, salute e malattia.

Ma ecco che un giorno Mosè dice al popolo di Israele:

badate bene a voi stessi, affinché, alzando gli occhi al cielo e vedendo il sole, la luna, le stelle, tutto l’esercito celeste, tu non ti senta attratto a prostrarti davanti a quelle cose e a offrire loro un culto, perché quelle sono le cose che il SIGNORE, il tuo Dio, ha lasciato per tutti i popoli che sono sotto tutti i cieli.           (Deuteronomio 4,15.19)

Badate bene di non cedere alla tentazione di prostrarvi davanti a sole, luna, stelle, pianeti…

Ci fa quasi sorridere l’idea di pregare o offrire sacrifici a sole, luna e stelle per ricevere in cambio un buon raccolto, ricchezza, salute…

Eppure, se ci pensate, noi non siamo molto diversi dal popolo di Israele. Certo, non preghiamo e non ci prostriamo davanti a pianeti e stelle, e non ci lasciamo spaventare dai segni nel cielo, ma non lo facciamo solo perché non ne abbiamo bisogno: infatti noi sappiamo.

Noi possediamo le conoscenze e le tecniche necessarie per spiegare, ma anche sfruttare e costringere alla nostra volontà il tempo, la luce, il calore. Possiamo alzare e abbassare la temperatura a nostro piacimento; possiamo coltivare qualsiasi prodotto in qualsiasi posto e in qualsiasi stagione; possiamo rallentare o accelerare i processi di crescita. Non temiamo più gli astri e non cerchiamo di compiacerli, perché non sono più indispensabili: adesso possiamo appropriarci delle loro funzioni.

Anche per noi, come per il popolo di Israele, la creazione non è solo dono da accogliere con gratitudine e da condividere; la creazione è qualcosa di cui impadronirsi, da sottomettere e controllare; è una ricchezza da sfruttare.

Quasi senza accorgercene anche noi ci siamo costruiti delle divinità che richiedono attenzione, sacrifici, compromessi. Chi possiede acqua, aria, sole, terra, vento ha potere, ricchezza, energia, vita. Non c’è più gioia, né canto, né lode nelle parole della creazione: non siamo più compagni, non viviamo più gli uni per l’altra. Il nostro è diventato sempre più il tempo dello sfruttamento e della violenza.

Ma questo è solo l’inizio della storia, che continua con le parole di un narratore d’eccezione, il profeta Isaia:

Ecco il giorno del Signore giunge: giorno crudele, di indignazione e di ira furente,

che farà della terra un deserto e ne distruggerà i peccatori.

Poiché le stelle e le costellazioni del cielo non faranno più brillare la loro luce;

il sole si oscurerà mentre sorge, la luna non farà più risplendere il suo chiarore.

Io punirò il mondo per la sua malvagità e gli empi per la loro iniquità;

farò cessare l’alterigia dei superbi e abbatterò l’arroganza dei tiranni.    (Isaia 13,9-11)

Sorelle e fratelli, gli astri, le stelle, le costellazioni, il sole, la luna, sono creati per testimoniare il Creatore perché il progetto di Dio per noi comprende e coinvolge ogni elemento del creato. E quando noi ci allontaniamo da questo progetto, un progetto di amore, giustizia, salvezza, benessere, gli astri stessi ci avvertono.

Il giorno del Signore è il giorno in cui ci confrontiamo con la volontà di Dio per noi. E in quel giorno la terra diventa deserto, le stelle e le costellazioni non brillano, il sole che sorge si oscura e la luna non splende più.

Gli effetti della nostra gestione della creazione, li stiamo vedendo già da qualche anno: cambiamenti climatici, ghiacciai che si sciolgono, innalzamento del livello del mare, scomparsa di interi piccoli arcipelaghi, migrazioni di persone ma anche di animali, deforestazione e incendi, coltivazioni intensive che impoveriscono la terra e le popolazioni…  e spesso per contrastare gli effetti delle nostre scelte sbagliate, non facciamo che aggravare la situazione. In nome di uno sviluppo al quale non possiamo assolutamente rinunciare, cerchiamo sempre più di controllare lo scorrere del tempo, l’intensità della luce, le fonti di energia piegando la creazione alle nostre esigenze.

Continua Isaia:

In quel giorno il Signore punirà nei luoghi eccelsi l’esercito di lassù,

e giù sulla terra i re della terra;

La luna sarà coperta di rossore e il sole di vergogna                               (Isaia 24,21.23)

Così aveva detto il Signore:

«Nel tornare a me e nello stare sereni sarà la vostra salvezza;

nella calma e nella fiducia sarà la vostra forza».

Ma voi non avete voluto!

Avete detto: «No, noi galopperemo sui nostri cavalli!»

E per questo galopperete!

Tuttavia il SIGNORE desidera farvi grazia, per questo sorgerà per concedervi misericordia;

Quando andrete a destra o quando andrete a sinistra,

le tue orecchie udranno dietro a te una voce che dirà: «Questa è la via; camminate per essa!»

Egli ti darà la pioggia per la semenza con cui avrai seminato il suolo,

e il pane, che il suolo produrrà saporito e abbondante.

Sopra ogni alto monte e sopra ogni elevato colle ci saranno ruscelli, acque correnti

La luce della luna sarà come la luce del sole e la luce del sole sarà sette volte più viva,

come la luce di sette giorni assieme                                    (Isaia 30,15-16.18.21.23-26)

Fino a quando? È questa la domanda che con sempre più insistenza ci viene rivolta dai nostri fratelli e sorelle dei Paesi che più subiscono la nostra violenza, o la nostra indifferenza.

Fino a quando ci ostineremo a credere di essere noi a controllare il mondo e le sue risorse?

Fino a quando continueremo ad imporre a tutti e a tutto le nostre priorità, i nostri progetti, il nostro stile di vita?

Fino a quando continueremo ad illuderci di essere i sovrani del creato, invece che gli amministratori della creazione e i servitori delle creature di Dio?

Quel giorno, il giorno in cui il Signore ci ricorda che è lui la fonte della nostra vita, la sorgente della nostra energia, il senso della nostra storia, perfino la luna e il sole arrossiscono per la vergogna e ci sembra che non ci sia più nulla da fare, nessuna speranza.

Eppure le parole di Isaia non sono prive di speranza, perché Dio non smette di suggerirci la strada da percorrere, nonostante le nostre reticenze. Dio conosce la nostra umanità, la nostra fragilità, le nostre paure e ci assicura che, quando torneremo e ci affideremo a lui, collaborando al suo progetto di salvezza, allora l’ordine della creazione sarà ristabilito e il sole e la luna brilleranno di una luce mai vista perché lui stesso sorgerà e donerà la sua luce e il suo calore.

Non più il sole sarà la tua luce, nel giorno;

e non più la luna t’illuminerà con il suo chiarore;

ma il SIGNORE sarà la tua luce perenne.

Il tuo sole non tramonterà più,

la tua luna non si oscurerà più;

poiché il SIGNORE sarà la tua luce perenne,

i giorni del tuo lutto saranno finiti.    (Isaia 60,19-20)

Il sole, la luna, le stelle e noi… e ancora Dio.

È una storia che viene scritta giorno dopo giorno, e ognuno di noi ne scrive una pagina: le nostre scelte, le nostre azioni, la nostra testimonianza non sono indifferenti.

Quale sarà il finale? Nonostante tutto, Isaia è certo che il lieto fine non mancherà. Forse cambieremo mentalità, forse riconosceremo finalmente tra le tante voci che tentano di convincerci, la voce di Dio che ci indica la strada giusta da percorrere, forse riusciremo alla fine a sentirci compagni e compagne del mondo in cui viviamo… quello che è certo è che Dio non ritirerà la sua promessa: la sua luce continuerà ad illuminare il nostro buio, il suo calore continuerà a infondere coraggio, il suo amore accompagnerà sempre il nostro cammino.

Il tuo sole non tramonterà più, la tua luna non si oscurerà più;

poiché il SIGNORE sarà la tua luce perenne,

Amen.

Pastora Daniela Santoro

IL SOGNO DI SALOMONE

Davide si addormentò con i suoi padri, e fu sepolto nella città di Davide. … Salomone sedette sul trono di Davide suo padre, e il suo regno fu saldamente stabilito.

A Gabaon, il SIGNORE apparve di notte, in sogno, a Salomone. Dio gli disse: «Chiedi ciò che vuoi che io ti conceda». Salomone rispose: «Tu hai trattato con gran benevolenza il tuo servo Davide, mio padre, perché egli agiva davanti a te con fedeltà, con giustizia, con rettitudine di cuore a tuo riguardo; tu gli hai conservato questa grande benevolenza e gli hai dato un figlio che siede sul trono di lui, come oggi avviene. Ora, o SIGNORE, mio Dio, tu hai fatto regnare me, tuo servo, al posto di Davide mio padre, e io sono giovane, e non so come comportarmi. Io, tuo servo, sono in mezzo al popolo che tu hai scelto, popolo numeroso, che non può essere contato né calcolato, tanto è grande. Dà dunque al tuo servo un cuore intelligente perché io possa amministrare la giustizia per il tuo popolo e discernere il bene dal male; perché chi mai potrebbe amministrare la giustizia per questo tuo popolo che è così numeroso?»

Piacque al SIGNORE che Salomone gli avesse fatto una tale richiesta. E Dio gli disse: «Poiché tu hai domandato questo, e non hai chiesto per te lunga vita, né ricchezze, né la morte dei tuoi nemici, ma hai chiesto intelligenza per poter discernere ciò che è giusto, ecco, io faccio come tu hai detto; e ti do un cuore saggio e intelligente: nessuno è stato simile a te nel passato, e nessuno sarà simile a te in futuro. Oltre a questo io ti do quello che non mi hai domandato: ricchezze e gloria; tanto che non vi sarà durante tutta la tua vita nessun re che possa esserti paragonato. Se cammini nelle mie vie, osservando le mie leggi e i miei comandamenti, come fece Davide tuo padre, io prolungherò i tuoi giorni».

Salomone si svegliò, e capì che era un sogno; tornò a Gerusalemme, si presentò davanti all’arca del patto del SIGNORE e offrì olocausti, sacrifici di riconoscenza e fece un convito a tutti i suoi servitori.   (1 Re 2,10-12; 3,5-15)

Il mondo dei sogni è affascinante e incontrollabile. Basta ripensare ai nostri ultimi sogni: a volte ci capita di vivere le situazioni che più temiamo o che non sappiamo come affrontare; altre volte riviviamo situazioni in cui però personaggi, luoghi, tempi sono completamente differenti; altre volte ancora i nostri sogni sono assolutamente incomprensibili: scene sparse, senza alcun legame logico, sono popolate da persone che forse non sarebbe mai possibile riunire insieme. Nei sogni presente, passato e futuro non contano; la razionalità non è necessaria; le distanze non esistono.

Forse è anche per questo che a volte Dio si serve proprio dei sogni per comunicare con gli esseri umani, perché lì è più facile raggiungerci.

Salomone, alla morte del padre, il grande re Davide, si ritrova a capo del popolo che Dio si è scelto. Un compito difficile, tanto che Dio vuole dargli una mano e, durante il sonno, gli dice: “Chiedi ciò che vuoi che io ti conceda”.

Sembra la frase del genio della lampada: un desiderio, ma solo uno, da esaudire, un desiderio che una volta realizzato cambierà la tua vita e tutto andrà bene.

Quanti desideri affollano la nostra mente, desideri per i quali, a volte, saremmo pronti a tutt; quante cose sembra che ci manchino per poter definire soddisfacente la nostra esistenza…

Basta guardarci attorno: tante persone si lasciano tentare da facili guadagni; tante sprecano l’intero stipendio o la pensione nei giochi d’azzardo… (quante pubblicità arrivano sui nostri telefonini?) In televisione vengono trasmessi programmi che si offrono di realizzare ciò che più si desidera: migliorare l’aspetto fisico, rinnovare la casa, organizzare un matrimonio principesco, trascorrere megavacanza in zone esotiche…; quante pubblicità ci ricordano che è facile e veloce realizzare un sogno: basta chiedere un prestito, basta un giorno…

Se ci trovassimo al posto di Salomone, se avessimo la possibilità di chiedere a Dio ciò che vogliamo, che secondo noi ci permetterebbe di vivere bene, ci sentiremmo addirittura in imbarazzo.

E così Salomone pensa: forza militare eccelsa per vincere tutte le battaglie… fondi illimitati per realizzare qualsiasi progetto nel regno… fedeltà assoluta dei sudditi per evitare sommosse… sottomissione dei popoli vicini… oppure qualcosa per se stesso: vita lunga, serena, senza malattie, con molti figli, vera ricchezza di ogni famiglia del tempo, un periodo di regno tranquillo… che cosa scegliere?

Salomone sogna, e nei sogni, come abbiamo notato prima, passato, presente e futuro sono un’unica cosa, e così, prima di rispondere alla domanda di Dio, prima di scegliere, Salomone ricorda. Ricorda la storia del popolo di Israele, a partire dalle promesse fatte da Dio ai patriarchi e rinnovate nella storia gloriosa di Davide; ricorda la sua storia, il suo essere re, e la sua attenzione si sposta verso il futuro. Solo dopo aver considerato il presente, il passato e il futuro, Salomone risponde: dà al tuo servo un cuore intelligente per amministrare la giustizia per il tuo popolo e discernere il bene dal male.

Se Salomone fosse stato sveglio, probabilmente si sarebbe guardato attorno e si sarebbe lasciato condizionare e limitare dalle tante necessità del presente, ma nel sogno tutto è diverso.

Nel sogno davanti a Dio non c’è il re Salomone, con scettro in mano e corona in testa: Salomone è il servo convocato da Dio, non il potente che pretende, ma l’umile che riceve. Salomone è il giovane a capo del popolo di Dio che può riconoscere di essere inesperto e di aver bisogno di aiuto.

Nel mondo reale Salomone deve difendere il suo ruolo imponendosi agli altri, mostrandosi fermo, coraggioso, deciso… il sogno è il mondo in cui Dio ha scelto di incontrarlo per dargli la possibilità di valutare la sua offerta e decidere senza condizionamenti, liberamente. È un dono quello di poter essere se stessi, e non dover mostrare di essere quello che gli altri si aspettano.

E così nel sogno Salomone si riconosce nel popolo in cammino come uno strumento di Dio, non per realizzare il suo sogno personale di potere, ma per guidare se stesso e il popolo verso la vita che Dio ha da sempre in mente per l’umanità.

E solo adesso, finalmente, Salomone fa la sua scelta, che Dio conferma: Salomone riceve un cuore intelligente per compiere la volontà di Dio, sarà ricordato per la sua saggezza nell’ammi­ni­stra­re la giustizia, saprà distinguere il bene dal male.

Così la promessa del passato diventa presente per Salomone e per chi verrà dopo di lui. Ma Dio fa ancora di più: Oltre a questo io ti do quello che non mi hai domandato: ricchezze e gloriaSe cammini nelle mie vie, osservando le mie leggi e i miei comandamenti come fece Davide tuo padre, io prolungherò i tuoi giorni, ti benedirò, ti sosterrò.

Strana questa fine del dialogo fra Salomone e Dio: sembra che Dio con queste parole ponga una condizione alla realizzazione della promessa (se cammini nelle mie vie, se osservi le mie leggi…).

Ma, in fondo, Dio non chiede altro che quello che Salomone ha proposto: avere la saggezza per fare la sua volontà. E se Salomone ad un certo punto dovesse tentennare, sbagliare, e riporrà in altri la propria fiducia, come in effetti accade, che cosa succederà? La magia si spezzerà e la sua proverbiale saggezza lo abbandonerà?

La risposta è nella stessa frase: Dio propone Davide come modello di fedeltà. Se sfogliassimo i libri di Samuele, ci renderemmo conto che Davide non è stato proprio un credente perfetto, sempre fedele, da imitare in ogni cosa… anzi… Eppure Dio ha continuato ad amarlo e non gli ha rifiutato la promessa fatta.

Dio non torna indietro, non si lascia condizionare dalle risposte e dai comportamenti umani, e come è stato fedele alla sua promessa nel passato, con Davide, lo sarà anche con Salomone. E lo è ancora con noi oggi. Perché Dio forse non ci parlerà così chiaramente come ha fatto con Salomone, ma ogni giorno ci interpella chiedendoci di riflettere sulla nostra vita e sul nostro mondo e, alla fine, ci chiede: cosa vuoi che io ti conceda?

E qui la storia la fa ognuno di noi: sappiamo vincere la tentazione di considerare Dio un genio della lampada? Riusciamo a non lasciarci condizionare e limitare dal presente? Sappiamo chiedere qualcosa per il futuro e per la vita del popolo di cui facciamo parte, o ci limitiamo a inseguire la nostra sopravvivenza giornaliera?

Sappiamo chiedere a Dio di realizzare anche per noi la sua promessa, ricordando il passato e senza temere per il domani, o siamo così spaventati dal presente da non riuscire a fidarci della Parola di   Dio? Vogliamo chiedere a Dio la sua saggezza per fare la sua volontà?

Che Dio non si stanchi di rivolgerci ancora la sua parola, che non si stanchi di ricordarci il suo amore, che non si stanchi di proporci la sua volontà e di donarci la sua saggezza; che continui ad invitarci a partecipare al suo regno, un regno che in Gesù ha inaugurato per tutti coloro che a lui affidano la propria vita.

Che Dio ci accompagni verso il suo regno con la sua benedizione. Amen

Pastora Daniela Santoro

IL SANTO BACIO

“Del resto, fratelli, rallegratevi, ricercate la perfezione, siate consolati, abbiate un medesimo sentimento, vivete in pace; e il Dio d’amore e di pace sarà con voi. Salutatevi gli uni gli altri con un santo bacio. Tutti i santi vi salutano. La grazia del Signore Gesù Cristo e l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi”.  (2 Corinzi 13,11-13)

“Quella domenica i banchi della chiesa rimasero semi vuoti. Noi giovani, reduci dal ballo, cercavamo di soffocare gli sbadigli, mentre gli anziani bisbigliavano tra loro il peccato e la dissolutezza. Il pastore ci ammonì contro le tentazioni del periodo estivo, esortandoci a stare in guardia dai demoni che ci attiravano sulla via più larga. Per l’ennesima volta nominò l’alcol come la più grossa radice del male, e condannò senza pietà tutti i tavernieri clandestini che facevano affari nella zona infischiandosene della devastazione che provocavano”. (Mikael Niemi, Cucinare con l’orso, Iperborea 2018).

Lars Levi Laestadius, il protagonista del libro che vi ho citato, è un esperto botanico e anche un carismatico pastore di origini sami, fondatore del movimento detto Il Risveglio che a partire dalla metà dell’800 si diffonde nell’estremo Nord della Svezia e della Finlandia. L’amore per il ministero pastorale vede Laestadius sporcarsi le mani con le cose più orribili che la vita porta con sé, senza mai perdere la fede, né la voglia di testimoniare l’amore di Dio, nonostante i banchi della chiesa fossero, ogni domenica, per lo più vuoti o pieni di persone addormentate o annoiate.

“I banchi della chiesa domestica sono vuoti”, sembra urlare Paolo poco prima dei versetti che ci accompagnano questa mattina. “Non sono fisicamente con voi, sono in Macedonia, ma lo so che sono vuoti”, dice Paolo. È vero, i banchi sono vuoti! Allora come ora. Sono vuoti a causa del fatto che si manifestano degli apostoli arroganti, che si definiscono super apostoli e che mettono in dubbio le credenziali e l’autorità di Paolo. Qualcuno dice infatti: «Le sue lettere sono severe e forti; ma la sua presenza fisica è debole e la sua parola è cosa da nulla» (10, 10). I banchi sono vuoti!

E Paolo ci tiene a ricordare ai cristiani di Corinto che l’arroganza, manifestata dagli falsi apostoli, è l’opposto della debolezza attraverso cui Dio preferisce lavorare come ha dimostrato attraverso la croce di Cristo. I banchi sono vuoti perché quelli di Corinto non hanno voglia di praticare un discepolato responsabile. Come Laestadius, Paolo, si sporca le mani, si espone, si arrabbia perché quelli di Corinto hanno bisogno, per la seconda volta, che venga fatto il punto su cosa è la fede e su come deve essere vissuta. Ed è per questo che in poche frasi prepara un programma composto da una premessa e da 4 punti, precisi e motivazionali.

La premessa: “Infine, fratelli rallegratevi”. Come è possibile che i banchi siano vuoti! Non avete voglia di rivedere i vostri fratelli e le vostre sorelle? La parola adelphos può significare un fratello con gli stessi genitori fisici, ma anche fratello spirituale, un fratello o una sorella figli dello stesso Dio. I cristiani nel primo secolo si riferivano l’un l’altro come fratelli della stessa fede.

Paolo ha mantenuto uno spirito gioioso nonostante le avversità che ha affrontato (Atti 16:25, Filippesi 1:18, 2:17, 4:10). La sua gioia si basa sulla sua relazione con Cristo. Ora chiama la comunità di Corinto a rallegrarsi per la stessa ragione. È come se dicesse: “Voi non siete soli! Non potete non sentire lo sguardo amorevole di Cristo che si posa su di voi. Ed è quello sguardo che rende lieve la vostra vita nonostante affrontiate difficoltà, dolori, incomprensione. In Cristo, con Cristo, in ogni caso, è impossibile non essere rallegrati”.

Paolo offre poi un programma in quattro punti che può servire anche a noi:

  1. “ricercate la perfezione” (katartizo): la parola katartizo viene usata quando un artigiano fa un restauro di qualcosa di vecchio e danneggiato e ridà forma e valore ad un oggetto. L’idea che vuole qui illustrare Paolo riguarda il fatto che è davvero necessario essere spiritualmente in forma. Bisogna ridare valore alla nostra spiritualità, coltivarla con esercizio e passione. Bisogna andare al culto, occorre la lettura delle Scritture, è necessaria la comunione con la propria comunità. E tutto ciò solo perché non possiamo fare a meno dell’essere rallegrati nel Signore insieme alle altre e agli altri!
  2. “siate consolati” (parakaleo): la parola greca parakaleo combina due parole, para (a lato di) e kaleo (chiamare), e significa “chiamare di lato” o “incoraggiare” o “confortare”. Statevi vicino, coccolatevi, amatevi come per primo vi è vicino, vi coccola, ci ama Cristo. Sì è proprio Cristo che ti chiama, a te, personalmente, da parte, e ti dice le parole di cui hai bisogno al momento giusto.
  3. “abbiate un medesimo sentimento”. Certo Paolo lo sa che ogni comunità ha le sue caratteristiche e che all’interno di esse vi possono essere molte incomprensioni. Però Paolo sa anche, che Cristo, chiede di portare le proprie diversità nelle chiese e che le chiese stesse devono trovare il mondo affinché esse possano dialogare. Non si tratta qui di omologarsi ma di mettere in dialogo le differenze che possono pregare lo stesso Dio, lo stesso Cristo.
  4. “vivete in pace” (eirene): la pace (eirene) è una parola significativa, che è presente quasi cento volte nel Nuovo Testamento. Ha le sue radici nella parola ebraica shalom, che è stata usata frequentemente nell’Antico Testamento. Ma sia l’eirene che lo shalom possono anche riferirsi l’assenza di rancore o violenza tra individui o nazioni.

Paolo chiama i cristiani di Corinto e noi a vivere in armonia e tranquillità l’uno con l’altra. Solo seguendo questo programma di Paolo i banchi non saranno più vuoti ma pieni di gente motivata e alleggerita dal peso della vita grazie alla fede e alla comunità. Ma attenzione Paolo non parla solo dell’attenzione dovuta alla spiritualità. Paolo parla anche dei corpi delle donne e degli uomini e ricorda loro che la perfezione o il sentirsi consolati, che l’avere un medesimo sentimento e il vivere in pace hanno bisogno di esprimersi attraverso i nostri corpi. “Salutatevi gli uni gli altri con un santo bacio” (v. 12).

Nella nostra cultura, i baci sono riservati a persone con le quali si ha un rapporto romantico o di parentela. Se noi però ci riconosciamo come fratelli e sorelle, siamo intimi in Cristo e quindi abbiamo un vincolo gli uni con le altre dato dalla fede! Nel Nuovo Testamento, il santo bacio era un simbolo dell’amore cristiano (l’amore che cerca il benessere dell’altra persona) piuttosto che l’eros (amore romantico). Era anche il simbolo della comunione cristiana. Gesù rimproverò Simone per non averlo salutato con un bacio (Tu non mi hai dato un bacio; ma lei, da quando sono entrato, non ha smesso di baciarmi i piedi. Luca 7:45). Nella chiesa primitiva, il santo bacio divenne parte della liturgia. Col passare del tempo, a causa di un uso improprio, la pratica si estinse nella chiesa occidentale, anche se è ancora viva nelle chiese ortodosse orientali.

Ma nulla è perduto! Possiamo ricominciare a darci il santo bacio, e vi invito a farlo, ora. Noi attraverso il santo bacio ci siamo riconosciuti in Cristo e ci sentiamo legati l’uno l’altra dalla nostra fede in Cristo.

Alla fine Paolo parla di grazia, associata a Gesù, di amore, associato a Dio, e di amicizia, associata allo Spirito Santo. Basta solo questo per riempire le nostre panche!  Le panche diventeranno piene, non scoraggiamoci!

Che Dio sia con noi nei nostri giorni e ci aiuti a riempire i banchi delle nostre chiese, che sia possibile non cadere nella trappola della tristezza; che sia possibile ripete, ogni giorno, il nostro “sì” convinto alla vita e soprattutto alla fede in colui che ci ha donato un nuovo respiro per stare al mondo con agio e sovranità.  AMEN

Pastora Daniela De Caro (sermone al culto di chiusura Assemblea II Distretto 2019)

SOCIAL e SOCIALE

“Ed ecco, un dottore della legge si alzò per metterlo alla prova, dicendo: «Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?» Gesù gli disse: «Nella legge che cosa sta scritto? Come leggi?» Egli rispose: «Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta l’anima tua, con tutta la forza tua, con tutta la mente tua, e il tuo prossimo come te stesso». Gesù gli disse: «Hai risposto esattamente; fa’ questo, e vivrai». Ma egli, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è il mio prossimo?» Gesù rispose: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico, e s’imbatté nei briganti che lo spogliarono, lo ferirono e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso un sacerdote scendeva per quella stessa strada, ma quando lo vide, passò oltre dal lato opposto. Così pure un Levita, giunto in quel luogo, lo vide, ma passò oltre dal lato opposto. Ma un Samaritano, che era in viaggio, giunse presso di lui e, vedendolo, ne ebbe pietà; avvicinatosi, fasciò le sue piaghe versandovi sopra olio e vino, poi lo mise sulla propria cavalcatura, lo condusse a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno dopo, presi due denari, li diede all’oste e gli disse: “Prenditi cura di lui; e tutto ciò che spenderai di più, te lo rimborserò al mio ritorno”. Quale di questi tre ti pare essere stato il prossimo di colui che s’imbatté nei ladroni?» Quegli rispose: «Colui che gli usò misericordia». Gesù gli disse: «Va’, e fa’ anche tu la stessa cosa». (Luca 10,25-37)

Ho letto l’altro giorno un articolo scritto da Alessandro Bergonzoni, un attore e scrittore abbastanza noto nel panorama nazionale. È famoso per la sua capacità di sviscerare le parole, di usare una comicità che unisce riso, spesso amaro, e riflessione critica. Molti lo definiscono un “pensattore”. Quando ho letto il suo pezzo, che è stato pubblicato da vari quotidiani nazionali a metà maggio, ho pensato subito al brano che vi ho letto, il famoso brano del cosiddetto “buon samaritano”.

Bergonzoni non so neppure se sia credente; e il suo articolo è una specie di testamento laico, che non nomina mai Dio. Ma questo – se ci pensate – non lo fa neppure la parabola raccontata da Gesù.

Eppure il racconto del buon samaritano ci parla proprio di Dio, dicendoci una cosa decisiva per la nostra vita: la misericordia è l’impronta di Dio nell’uomo. Credere in Dio significa soprattutto credere nella sua misericordia e nel fatto che Egli desideri che l’uomo partecipi a questo infinito amore. “Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro”, si legge sempre nel Vangelo di Luca. Affermazione che ritroviamo nel vangelo di Matteo, dove al posto della parola “misericordioso” si trova “perfetti”. Misericordia è dunque perfezione di Dio e dell’uomo. Il cammino per giungere a tale vetta dell’amore è proprio l’azione di farsi “prossimo” all’altro, di chi ha più bisogno, come indica proprio la parabola che abbiamo ascoltato.

Anche Bergonzoni ci parla di misericordia, e quindi ci parla di Dio. Ho pensato molto se proporvelo all’interno di questa mia predicazione. Penso che sia utile ascoltare la voce di chi ci sta accanto e che – pur tra mille dubbi – ha ancora fiducia nell’uomo, nella sua capacità di amare e di essere amato, che è proprio della volontà salvifica di Dio per tutti noi.

Ho pensato di intercalarlo però con versetti della Bibbia, proprio per far risuonare nel nostro cuore quale sia il progetto di amore che Dio ha per noi, e che si è rivelato nella vita, nelle opere, nella morte e risurrezione del nostro Signore Gesù.

Così scrive Bergonzoni: odiatori, nella vita come nella Rete. L’ondata di cattivismo che sta infestando il dibattito pubblico rischia di sovvertire millenni di etica, con i samaritani del 2000 disprezzati, accusati di salvare vite e occuparsi dei fragili, come fosse una colpa anziché ciò che ci fa uomini. Rigurgiti odierni di “disgusto verso i poveri”, fenomeno mai visto prima… Ho finito le guance. Ho già esposto anche l’altra, non ne ho più. Ormai è uno stato di isteria, una malattia effettiva e affettiva. Rabbia e paura ci hanno drogato, ci hanno alterato quasi chimicamente, fino alla patologia. L’odio nasce da un cortocircuito, avvenuto per poter scaricare una rabbia che è stata preparata accuratamente.

C’è scritto nel vangelo di Matteo: “io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli”.

Credevamo di avere gli anticorpi contro tutto questo, che gli errori del passato ci avessero resi irrimediabilmente migliori. Invece assistiamo al trionfo della ci/viltà, l’anonimato è la forza con cui si esprime oggi chi odia: ti insulto tanto io non so chi sei e tu non sai chi sono io. È la ci/viltà dei social, dei media, la viltà da dietro un vetro. Il potere ha paura dei solidali, colpevoli di trovare soluzioni che toglierebbero il dominio alla nuova economia. Allora avalla questo delirio di impotenza, questa fame di diffamare… Mi dai l’inimicizia su Facebook?

Così ci si assuefà a tutto e può anche accadere, a Manduria per esempio, che un anziano debole sia seviziato per mesi da baby bulli, fino alla morte, nel silenzio osceno di tutti. L’anonimo è vile perché è forte della debolezza altrui, macchia la tela bianca e sa che la tela non potrà rispondere. La povertà è invisibilità, se la si vede la nascondiamo, inchiodiamo i ferri sulle panchine per non far sedere i mendicanti, per non farli ri/posare.

Dice la lettera di Giacomo, al capitolo 2: “Fratelli miei, la vostra fede nel nostro Signore Gesù Cristo, il Signore della gloria, sia immune da favoritismi. … Dio non ha forse scelto quelli che sono poveri secondo il mondo perché siano ricchi in fede ed eredi del regno che ha promesso a quelli che lo amano? Voi invece avete disprezzato il povero!”.

I Comuni dicono ci pensi lo Stato, ma lo Stato è confusionale e allora chi ci pensa è il terzo settore, il volontariato, quello odiato, che però è all’elemosina, perché il potere non si può permettere un’economia sociale… E allora tocca per esempio all’Elemosiniere ridare non solo quella luce (una vera Illuminazione) che non nasconde più nel buio il bisogno, il disagio e la vita, ridando altra energia a quelli a cui l’abbiamo tolta da troppo tempo e che dobbiamo difendere con ogni costo a tutti i costi per non continuare a vergognarci.

Chi esprime tenerezza diventa quasi un nemico, mai nel passato la Croce Rossa o Medici senza Frontiere o la Caritas erano stati insultati in quanto umanitari…

C’è scritto nella lettera di Paolo ai Filippesi: “Se dunque v’è qualche incoraggiamento in Cristo, se vi è qualche conforto d’amore, se vi è qualche comunione di Spirito, se vi è qualche tenerezza di affetto e qualche compassione, rendete perfetta la mia gioia, avendo un medesimo pensare, un medesimo amore, essendo di un animo solo e di un unico sentimento”.

Ci vuole un cambio di frequenza che muova da dentro, da dove parte la tua idea di vergogna: quando parlo di diritti non regge più la sola Costituzione, manca una sana costituzione interiore. I partiti hanno creato questo momento storico, hanno acceso il fuoco perché potesse bruciare, perché si calpestasse il pane purché non andasse ai rom: quando arrivi a questo è già tardi, bisogna agire nelle scuole, raccontare lì il tema della paura che nasce da una mancanza d’amore, e raccontare il mistero degli Interni, il mistero della Giustizia, il mistero della Salute, il mistero dell’Istruzione. La libertà di parola quali condizionamenti può avere? Davvero ognuno può scrivere tutto? Ognuno può offendere? C’è una sproporzione umana che chiede una condizione di sovrumanità, altro che sovranismo! E poi perché vogliono depotenziare la storia a scuola? Questo è lavorare sull’annientamento della memoria, renderci poveri, sì, ma di idee, il potere è malato, teme gli spiriti liberi della solidarietà, perché dimostrano che la povertà può diventare ricchezza. In questo momento c’è un Dna del buio.

Cosa possiamo fare, allora? Cambiare il linguaggio, gridare la tenerezza e la compassione, urlare nei teatri, sui libri, ovunque, contro questa cultura in vitro – il vetro della tivù e dei computer – che non la tocchi e non la annusi, che non ha sensi. Ma c’è una nuda verità che viene prima: essere o essere? Questo mi interessa. Attenzione, il volontariato verso i bisognosi esiste, anche a Bologna (lui è di Bologna) ne vedo tanto, ma oggi occorre indossare questa povertà, abitarla, sentirla con un settimo senso, ecco il cambio di frequenza che tocca a noi, non ci sta più solo la denuncia e la manifestazione. C’è un fare l’impossibile e un fare l’impassibile, io devo fare il mio volontariato quotidiano che è lo sguardo, il non avere paura d’avvicinarmi. Il mercato ci ha detto cosa dobbiamo avere per mantenere il nostro benessere e il suo benestare, senza cadere mai sotto la famosa soglia della povertà… Invece no, dobbiamo attraversarla avanti e indietro questa soglia, ognuno come può, lavorare sulla nostra santità, altra parola che fa tanta paura. Invertiamo la rotta, mettiamocela addosso questa santità, per combattere il morbo del “disgusto verso i poveri” c’è bisogno di uno scatto, un moto a luogo, altrimenti poveri… noi.

C’è scritto al Salmo 41: “Beato chi ha cura del povero! Nel giorno della sventura il Signore lo libererà”.

Di che cosa si accusa il povero? Mai visto nella storia un accanimento come oggi. Il povero… non ti ha fatto assolutamente nulla. Semplicemente ti accanisci contro questa condizione inerme e sai che non reagirà. E siamo pure arrabbiati perché stiamo male, a differenza di chi sta male: quello che vive sotto i ponti dà fastidio a noi. Penso ai cartoni animati, quelli dei clochard, con dentro degli uomini… Bisognerebbe aprire l’era del risarcimento per togliere l’in/fame nel mondo e restituire il maltolto, invece su questa gente si consuma la fame di fama che ci vede potenti sui social, dove li disprezziamo e così siamo forti. Pensare che social con una “e” in più diventa sociale, cioè terzo settore, pietà, condivisione. Invece il social è vedo e colpisco. I nativi digitali moriranno tra atroci divertimenti, dipendenti dalla Rete non conoscono la concezione tattile, olfattiva, umana dell’altro, è questo il sacrilegio che vedo. Io auspico il cambio di frequenza dal basso all’altro, e non lo lascio solo alle religioni, tutti noi abbiamo una parte divina che non ci è permesso esercitare: siamo stati lavorati sulla stanchezza, sottomessi a spauracchi con mezzi di distrazione di massa. Liberiamo i nostri figli dalla paura! Diciamogli che la persona disagiata è chi guarda, non chi è nel disagio. Che il cibo è spazzatura, ma per molti la spazzatura è il cibo. Liberiamoci dal conflitto di disinteresse. Il cambio dev’essere esistenziale, non di partito: portiamolo nelle scuole, è lì il vero Parlamento.

E aggiungo io, sommessamente: viviamo tutti i giorni nelle nostre vite, nelle nostre relazioni, nella nostra esperienza di fede, questo desiderio per l’altro Abbiamo ascoltato all’inizio nel vangelo di Luca: “Un Samaritano, che era in viaggio, giunse presso di lui e, vedendolo, ne ebbe pietà; avvicinatosi, fasciò le sue piaghe versandovi sopra olio e vino, poi lo mise sulla propria cavalcatura, lo condusse a una locanda e si prese cura di lui”. Dio lo voglia per tutti noi.   AMEN

Fabio Barzon

UNA FEDE ATTIVA, ANZI PRATICA

In verità, in verità vi dico che qualsiasi cosa domanderete al Padre nel mio nome, egli ve la darà. Fino ad ora non avete chiesto nulla nel mio nome; chiedete e riceverete, affinché la vostra gioia sia completa. Vi ho detto queste cose in similitudini; l’ora viene che non vi parlerò più in similitudini, ma apertamente vi farò conoscere il Padre. In quel giorno chiederete nel mio nome; e non vi dico che io pregherò il Padre per voi; poiché il Padre stesso vi ama, perché mi avete amato e avete creduto che sono proceduto da Dio. Sono proceduto dal Padre e sono venuto nel mondo; ora lascio il mondo, e vado al Padre». I suoi discepoli gli dissero: «Ecco, adesso tu parli apertamente, e non usi similitudini. Ora sappiamo che sai ogni cosa e non hai bisogno che nessuno ti interroghi; perciò crediamo che sei proceduto da Dio». Gesù rispose loro: «Adesso credete? L’ora viene, anzi è venuta, che sarete dispersi, ciascuno per conto suo, e mi lascerete solo; ma io non sono solo, perché il Padre è con me. Vi ho detto queste cose, affinché abbiate pace in me. Nel mondo avrete tribolazione; ma fatevi coraggio, io ho vinto il mondo».  (Giovanni 16, 23b-33)

Cari fratelli e care sorelle, nel testo dell’Evangelo di Giovanni che abbiamo appena ascoltato, è detto chiaramente “qualsiasi cosa domanderete al Padre nel mio nome, egli ve la darà”. Ad una lettura superficiale e letterale ci può quindi sorgere dinanzi l’immagine o comunque l’idea di un Dio con il quale stabilire una relazione puramente strumentale, ovvero io ti prego affinché tu mi dia. Qualcosa di simile al rapporto che gli antichi avevano con gli dei dell’antichità classica, sia greca che latina. Senza parlare poi di altre religioni dell’Oriente antico. Faccio un sacrificio o mi reco al tempio per partecipare ad una celebrazione in cambio di qualcosa, per ottenere, in cambio del mio dono o del tempo che ho dedicato al dio, un favore, un beneficio di varia natura.

Ecco, fratelli e sorelle, noi non siamo pagani, non abbiamo un Dio al quale chiedere qualcosa e se non ce la dà allora cambiarlo con un altro a cui rivolgere le nostre attenzioni nella speranza che sia migliore del precedente e più attento ad esaudire i nostri desideri. Noi siamo altro, radicalmente altro. “Signore, insegnaci a pregare” chiedono i discepoli a Gesù nel Vangelo di Luca letto in precedenza. E Gesù risponde con la preghiera che ben conosciamo e che spesso recitiamo in maniera automatica, non consapevoli appieno del suo messaggio. Sto parlando, chiaramente, del Padre Nostro. L’unica e sola preghiera che Gesù ci ha insegnato.

Il nocciolo della questione, pertanto, cari fratelli e sorelle, la soluzione a questo problema, sta negli ultimi passi di questa lettura evangelica di Luca: “chiedete con perseveranza, e vi sarà dato; cercate senza stancarvi, e troverete; bussate ripetutamente, e vi sarà aperto”. Mai stancarsi di chiedere o di cercare, dice Gesù. Mai.

Ma il punto, che ci distacca decisamente dal rapporto strumentale di cui parlavo all’inizio, che ci distingue da una religiosità pagana o comunque fasulla, infantile, superficiale è la frase evangelica successiva: “Se voi … che siete malvagi …” (perché noi esseri mortali e perfettibili siamo sempre esposti al male e vi cadiamo spesso per nostra natura, che lo vogliamo ammettere o no) dicevo: “Se voi che siete malvagi, sapete dare buoni doni ai vostri figli, quanto più (ovvero tanto più) il Padre celeste donerà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono!”. Ecco allora la soluzione tanto cercata, la chiave di volta del nostro problema. La fede che porta alle opere, una fede attiva e non solo contemplativa. Una fede che mi porta a compiere, quale ringraziamento a Dio per avermi salvato, le buone opere verso i fratelli e quindi ecco che Dio Padre ascolterà ed esaudirà le mie preghiere.

Non basta quindi dire Signore, Signore. Ma fare, fare attivamente nei confronti dei nostri fratelli, degli altri. Chiunque essi siano. Gesù ci chiede di operare concretamente nel mondo, di mettere in pratica i suoi insegnamenti. Egli non vuole che noi facciamo semplici esercizi mentali, sfoggio di chissà quale cultura teologica o filosofica. Vuoi che io, il tuo Signore, esaudisca le tue preghiere? Vuoi che ascolti i tuoi lamenti e le tue sofferenze? Ebbene sii coerente con te stesso e applica concretamente i miei insegnamenti. Non basta dire “Io sono cristiano”. Non basta andare in chiesa la domenica o farsi vedere a qualche celebrazione o dare segni di una religiosità puramente esteriore. Bisogna applicare concretamente quanto nostro Signore ci ha comandato di fare. Prima comportati verso gli altri così come ti ho insegnato e poi, poi ti ascolterò.

E anche, quando chiedi, chiedi con fede. Credi fermamente in quello che chiedi. Credi che lo avrai sicuramente nel momento stesso in cui lo chiedi. “Se avete fede quanto un granello di senape, potrete dire a questo monte: “Passa da qui a là”, e passerà; e niente vi sarà impossibile”. Questo è quanto dice Gesù, attestato nell’Evangelo di Marco 17,20. Quindi, è parola di nostro Signore.

Fratelli e sorelle, prima la Fede e poi le opere. Credi fermamente che sarai esaudito e datti da fare. Gesù ci chiama quindi ad una “etica della reciprocità”. Ovvero, non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te. Sii coerente, dice il Signore. Se ti dichiari cristiano, comportati come tale. E io ti esaudirò. Anzi, solo allora ti ascolterò. Come è scritto nella Lettera dell’apostolo Paolo a Timoteo che abbiamo ascoltato oggi, il Signore “vuole che tutti gli uomini siano salvati e vengano alla conoscenza della verità”. Sì, noi verremo salvati se però crederemo, prima di tutto, e poi, come conseguenza, opereremo, metteremo in pratica la nostra fede. Quella fede che sola ci salva, “Sola Fide”, uno dei pilastri della nostra Riforma. Una fede che produce poi, come conseguenza, le opere. Le buone opere. Se vuoi essere esaudito fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te. “Vi ho detto queste cose, affinché abbiate pace in me. Nel mondo avrete tribolazione; ma fatevi coraggio, io ho vinto il mondo” dice Gesù nell’ultima parte del testo dell’odierno Evangelo di Giovanni. È chiaro e lampante, sotto gli occhi di tutti, che il mondo e la vita di tutti i giorni non siano facili e che i tormenti e le tribolazioni siano all’ordine del giorno ma, dice il Signore, fatti coraggio, abbi pace in me. Credi in me con tutte le tue forze e io ti salverò. Ti ascolterò e ti esaudirò. Non aver paura, non farti prendere dalle angosce quotidiane. Riponile in me. Fammene carico. Abbi fiducia in me, una fiducia convinta, e poi mettila in pratica. È infatti scritto “Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli” dice l’Evangelo di Marco 7,21. “Chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, è simile a un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia” dice il successivo versetto 24. Più chiaro e lampante di così!

Chiunque ascolti le mie parole e le mette in pratica. Le mette in pratica. Pratica. Poniamoci quindi delle domande: ho fatto veramente la volontà di Dio? Ho messo in pratica quello che predico con la mia bocca o dico con la mia mente? Sono bravo a parlare ma poi non agisco di conseguenza? Beh, allora non posso pretendere che Dio mi ascolti seriamente. È difficile, lo sappiamo bene. La vita è difficile ed essere cristiani coerenti lo è ancora di più. Ma, fratelli e sorelle, abbiamo sempre la promessa di Dio davanti agli occhi: “Credi e sarai salvato”. “Credi e sarai salvato”. AMEN

Daniele Rampazzo

TABITA LA GAZZELLA

A Ioppe c’era una discepola, di nome Tabita, che, tradotto, vuol dire Gazzella: ella faceva molte opere buone ed elemosine. Proprio in quei giorni si ammalò e morì. E, dopo averla lavata, la deposero in una stanza di sopra. Poiché Lidda era vicina a Ioppe, i discepoli, udito che Pietro era là, mandarono due uomini per pregarlo che senza indugio andasse da loro. Pietro allora si alzò e partì con loro. Appena arrivato, lo condussero nella stanza di sopra; e tutte le vedove si presentarono a lui piangendo, mostrandogli tutte le tuniche e i vestiti che Gazzella faceva, mentre era con loro. Ma Pietro, fatti uscire tutti, si mise in ginocchio, e pregò; e, voltatosi verso il corpo, disse: «Tabita, àlzati». Ella aprì gli occhi; e, visto Pietro, si mise seduta. Egli le diede la mano e la fece alzare; e, chiamati i santi e le vedove, la presentò loro in vita. Ciò fu risaputo in tutta Ioppe, e molti credettero nel Signore. Pietro rimase molti giorni a Ioppe, presso un certo Simone conciatore di pelli.  (Atti 9, 36-43)

Care sorelle e cari fratelli,

dopo averci parlato della conversione di Paolo, Luca ci racconta due miracoli di Pietro: la guarigione di Enea e quello che abbiamo ascoltato, la resurrezione di Tabita.

Tabita è appena morta; dopo essere stata preparata viene deposta nella stanza di sopra. La stanza di sopra: quante memorie evoca questo luogo!

Ci ricorda il luogo dove Gesù e suoi discepoli hanno celebrato la Pasqua, l’ultima Pasqua di Gesù. Anche allora la disperazione e lo sconforto erano palpabili.

Tabita è una discepola. È l’unica volta che la parola discepola viene usata nel Nuovo Testamento. Non è quindi una discepola qualsiasi: il testo ci dice che faceva molte opere buone ed elemosine; ci racconta anche di una disperazione tale, tra i fratelli e le sorelle della sua comunità, da spingerli a raggiungere Pietro e a pregarlo di correre da Tabita: essi avevano fede che Pietro avrebbe potuto, con la sua parola, riportare alla vita Tabita. Questa donna che non sta al suo posto, che fa “molte opere buone ed elemosine”, secondo la società del tempo avrebbe dovuto starsene a casa, e lasciare che gli uomini progettassero un sistema di assistenza. Invece era probabilmente proprio lei a capo di un programma di aiuto tra i poveri di Ioppe. Nella sua azione, Tabita s’impegnava a gettare semi del Regno e, nel farlo, a costruire anche una nuova configurazione del potere … in cui Dio usa ciò che è umile e disprezzato nel mondo per ridurre a niente le cose che sono.

Con il suo servizio, Tabita ha messo in pratica il messaggio d’amore di Gesù. Ha annunciato una fede che rimette in piedi quanti sono piegati, schiacciati dalla vita. Ha mostrato alle vedove che le donne, quando solidarizzano e mettono in rete le proprie risorse, le proprie competenze, il loro sapere, possono acquistare autonomia e uscire dalla dipendenza sociale che le rende vulnerabili, ricattabili. Quante tuniche e quanti mantelli avrà tessuto Tabita, per offrire alle più deboli della comunità una via concreta di sostentamento!

Tabita nella sua vita ha aiutato a risorgere tante vedove: ora si alzano le preghiere delle sue sorelle e dei suoi fratelli perché questa risurrezione riguardi anche Tabita. E così è stato. Tabita, la mite e veloce gazzella, viene strappata dai lacci della morte e riconsegnata vivente fra la sua gente. Per le loro preghiere, per la loro audacia, e per la solidarietà di Pietro Tabita viene restituita alla vita. Nel nome di Gesù, che ha il potere di dare la vita. Il nome di Gesù che, come ci dice questo racconto, appartiene alle vedove e a coloro che non hanno nessuna speranza all’infuori di esso.

Ogni comunità, ogni famiglia, ogni chiesa, ognuno ed ognuna di noi esiste all’interno di ben definite strutture di potere o di debolezza, di vita e di morte. Ci sono esperienze di morte che avvengono prima di morire: gente piegata, umiliata, schiavizzata. Ci sono piccole risurrezioni che possono anticipare, quale caparra e primizia, la risurrezione finale. Ogni volta che l’evangelo è annunciato come esperienza di liberazione, ogni volta che chi è abbattuto viene risollevato, ogni volta che viene ridata ad un essere umano la dignità di figlia o di figlia di Dio … ogni volta che tendiamo la mano verso il fratello o la sorella: lì avviene una risurrezione!

Tabita, la Gazzella, è un’icona, una testimone dell’amore e della promessa di Dio; con la sua comunità sta a fianco di coloro che non hanno nessuno, così come il Signore sta loro a fianco. Non ha il potere del mondo, ma ha una risorsa: la parola, il nome di Gesù che trasforma le strutture di morte in strutture di vita. AMEN

Maria Paola Gonano

IL BUON PASTORE

“Io sono il buon pastore; il buon pastore dà la sua vita per le pecore.Il mercenario, che non è pastore, a cui non appartengono le pecore, vede venire il lupo, abbandona le pecore e si dà alla fuga, e il lupo le rapisce e disperde.  Il mercenario [si dà alla fuga perché è mercenario e] non si cura delle pecore.  Io sono il buon pastore, e conosco le mie, e le mie conoscono me, come il Padre mi conosce e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore.  Ho anche altre pecore, che non sono di quest’ovile; anche quelle devo raccogliere ed esse ascolteranno la mia voce, e vi sarà un solo gregge, un solo pastore.” (Giovanni 10,11-16)

Sicuramente è capitato a tutti noi di vedere un gregge e, se ci pensiamo, avremo potuto notare che il pastore, nel governare le sue pecore, si muove lentamente, guarda spesso il gregge, sosta a lungo assieme a loro quando trova un campo dove farle pascolare. Spesso manda segnali sonori rivolti a quelle che magari cercano di allontanarsi, affinché non si perdano, affinché rimangano nel gruppo e non cadano nei pericoli di eventuali dirupi.

Fin da piccola, lungo l’argine vicino a casa oppure in montagna, ero affascinata quando mi perdevo a guardare le pecore e ricordo che, conoscendo un pastore in Cadore, ero sempre molto colpita dalla sua calma, dai suoi movimenti lenti, dal fatto che io non riuscivo mai a capire a che cosa gli servisse il bastone che aveva, perché quando qualcuna delle pecore si allontanava un po’ dal gregge, chiamava semplicemente (sempre con calma, ma con autorevolezza) uno dei cani affinché provvedesse a riportarla nel gruppo.  Non so a voi, ma a me guardare un gregge al pascolo ha sempre dato un’impressione di grande calma.

Forse per questo senso di quiete (che non credo sia cambiato col trascorrere dei secoli) Gesù ha preso spunto per questa parabola, dove lui afferma di essere Dio (tutt’uno col Padre), ma dice chiaramente che è come un pastore, un proprietario del gregge e non un mercenario, e, per ciò stesso, passa la sua vita a porre attenzione alle sue bestie, le conosce una ad una, vive con loro ed è disposto a correre rischi se solo una è in pericolo.

E le pecore vanno con fiducia appresso a lui, riconoscono la sua autorità e lo seguono senza bisogno di manifestazioni violente (bastonate), ma semplicemente perché riconoscono in lui il capo di tutto il gregge e conoscono la sua voce.

Perché mi soffermo sulla quiete?  Dobbiamo vedere il contesto in cui si sviluppa questa parabola: siamo a Gerusalemme e i farisei sono molto agitati per la venuta di questo tizio, con un seguito, che opera perfino prodigi e che predica di essere colui che il popolo attende: il Messia, il figlio di Dio.  Bestemmia!  Stravolgimento dell’ordine costituito per i farisei che, ligi alla legge, non possono tollerare un simile atteggiamento proprio a Gerusalemme, la città fulcro di coloro che credono.  E di fronte a tanta agitazione, ecco la parabola che richiama la calma, perché i grandi annunci non necessitano di grandi urla.

Il passo che abbiamo letto è titolato “il buon pastore” e Giovanni riferisce chiaramente che le pecore siamo noi e Gesù è il pastore, non uno che “fa” il pastore, bensì uno che “è” pastore, non un mercenario che svolge un lavoro e che, di fronte al pericolo, privilegia la propria vita rispetto a quella della pecora, ma uno che è disposto a rischiare, a donare la propria vita per salvare anche una sola pecora, perché quella pecora è conosciuta ed amata come ciascuna delle altre.

In questo senso il gregge non viene interpretato come un insieme omogeneo di creature “allineate e coperte”, senza individualità, senza caratteristiche peculiari, ma come un gruppo di individui diversi, alcuni più miti, altri più trasgressivi. E il pastore lo sa, perché conosce le sue pecore una a una, perché lui “è” il pastore, non “fa” il pastore.

E fin qui l’interpretazione direi che è chiara. Ma c’è di più in questo racconto; almeno due aspetti sui quali dobbiamo porre la nostra attenzione:

1.“Io conosco le mie pecore e loro conoscono me, come il Padre mi conosce e io conosco il Padre”.

Accettato il fatto che il pastore conosce le sue pecore, il fulcro di questa frase però sta nella similitudine che segue, parlando di conoscenza. Gesù ci dice chiaramente che lui conosce il Padre, conosce quel Signore che, anche in quell’epoca, appariva forse distante, come spesso appare distante a noi.  È una conoscenza intima quella che ci viene detta: io conosco Lui e Lui conosce me, con una totale similitudine alla conoscenza che il pastore ha con le sue pecore.

Con questa affermazione Gesù dice che lui non ha solo sentito parlare del Padre, ma LO CONOSCE.  E chi può conoscere Dio, quell’Altissimo così lontano, così evanescente, direi quasi irreale, se non Dio stesso? Certo, la Scrittura ci racconta di altri che lo hanno conosciuto, ma lo hanno visto sotto altre sembianze (un roveto ardente, una presenza testimoniata da eventi prodigiosi come un forte vento, come una voce nel sonno, ecc.), ma qui Gesù ci dice “io conosco il Padre e lui conosce me”, dichiarando quindi uno stretto rapporto fra i due, fra le due manifestazioni del medesimo Dio: Gesù, uomo fra gli uomini, Dio incarnato per tentare una volta di più di prendere contatto con gli esseri umani, visto che i profeti non erano stati sufficienti perché gli uomini capissero.

In questa riflessione, però, c’è qualcosa di più: una sorta di triangolazione fra Dio Padre, Gesù e il gregge che segue Gesù. Come io conosco il Padre e sono da Lui conosciuto, così conosco le mie pecore (una ad una) e sono da loro conosciuto, quindi, come riportato in altri passi dell’evangelo di Giovanni, chi conosce me conosce anche il Padre che mi ha mandato e come Lui ha mandato me, così io mando voi, perché siamo un tutt’uno.  Non so voi, ma spesso mi è capitato di sentirmi lusingata o addirittura, talvolta, atterrita, di far parte di questo triangolo con due figure così grandi: il Padre e il Figlio.  Eppure è così, noi siamo parte di questo rapporto intimo con Dio, sempre che accettiamo di farne parte.

2. Secondo aspetto su cui riflettere: Gesù dice: “Ho anche altre pecore, che non sono di quest’ovile; anche quelle devo raccogliere ed esse ascolteranno la mia voce, e vi sarà un solo gregge, un solo pastore”.

Ma chi sono le altre pecore che non sono dello stesso ovile? Dove sono le altre greggi?

Direi che a noi non è dato di sapere, possiamo solo fare delle supposizioni.

Altri ovili possono essere intesi come altri gruppi, appartenenti ad altre culture lontane dal cristianesimo, ma mi piace pensare che possano essere anche altri insiemi di persone che, pur avendo conosciuto il messaggio cristiano, non lo riconoscono come vero oppure ritengono che gli insegnamenti di fratellanza annunciati nella Scrittura e vivacemente confermati da Gesù nella sua vita possano essere ridotti ad una pura visione orizzontale di solidarietà umana, senza scomodare Dio.

Non lo sappiamo e, in fin dei conti, vale la pena che indaghiamo su chi possano essere?

Talvolta parlo con un mio amico che fa parte delle Assemblee di Dio e spesso percepisco il suo disagio perché, per l’amore che mi porta e per la fede in Dio che mi riconosce, mi dice che lui è certo di essere salvato perché crede in ciò che la sua chiesa gli dice, cioè che chi crede in Gesù e rispetta i dettami della “vera” chiesa (ovviamente per lui le ADI) sarà SICURAMENTE salvo, mentre gli altri credenti dovranno affidarsi alla misericordia del Signore, sperando che gli vada bene, quindi con un certo margine di incertezza.  Sappiamo che una visione del genere è presente anche nei testimoni di Jeova e in altri movimenti fondamentalisti che pur si ispirano alla medesima Scrittura.

Personalmente mi sento molto più vicina ad altri miei due amici, di fede islamica, con i quali spesso mi sono confrontata e dai quali mi sono sovente sentita dire che “Dio è uno solo ed è uno per tutti, comunque lo si chiami”.

Ma, per parlare di altri ovili, cosa dire di coloro che cristiani non sono o addirittura non sono monoteisti?

Nell’ultimo anno, per lavoro, mi sono avvicinata allo studio della devozione e della religiosità indiane, dove, in varie religioni, si contano innumerevoli figure divine e sono quasi certa che se io fossi nata e cresciuta in quel paese, non sarei cristiana, ma buddista, induista, altre forme religiose.

Allora mi chiedo: se vi sono altri ovili, se vi sarà un unico pastore per tutte le pecore, significa che il gregge al quale appartengo è quello giusto per me, ma non è giusto in assoluto, perché, quantomeno per rispetto, la stessa verità può essere interpretata diversamente, nella limitatezza della conoscenza e delle esperienze umane. Quindi: nessuno può dire di avere la verità in tasca, nessuno può dire “io sarò salvato perché sono di questo gregge, mentre gli altri ….. boh?”

Concludendo, noi possiamo dire che abbiamo ricevuto una chiamata, una vocazione, un messaggio di vita e di speranza, ma questo non ci rende migliori degli altri, né che noi siamo nel pieno della verità e gli altri sono fra coloro che saranno dannati, perché un simile ragionamento sarebbe basato unicamente sul timore di cosa avviene dopo e non sulla fiducia che un unico pastore provvederà a tutte le sue pecore, a qualsiasi ovile appartengano, perché non siamo noi coloro che devono giudicare la bontà e la veridicità di un ovile. Noi non siamo Dio!  Siamo certamente in cuore a Dio e, proprio per questo, dovremmo avere Dio nel cuore e rispondere alla sua chiamata improntando la nostra vita ai suoi insegnamenti, cercando di conoscerli per quanto ci sono stati annunciati, ben sapendo che ad altri possono essere stati annunciati in modo diverso, in una sorta di fratellanza universale che va ben oltre le barriere di tradizioni e culture differenti.

Per la vocazione che abbiamo ricevuto e nel rispetto della Bibbia e di coloro che ben prima di noi ci hanno dato le loro interpretazioni, noi crediamo nel Signore della misericordia, del perdono e della salvezza gratuiti. A questo siamo chiamati a credere e ai suoi insegnamenti dobbiamo improntare la nostra vita, perché è questo il gregge al quale apparteniamo.

Quel che accadrà negli altri ovili non è affare nostro. AMEN

Liviana Maggiore

LA CRUDELTA’ DELLA CROCE

Mt 27,31-50
Il brano che abbiamo letto è pregno di drammaticità e di dolore. Siamo nel quadro della passione e crocifissione di Gesù, un fatto di una crudezza straziante: un innocente arrestato, deriso, processato e alla fine inchiodato su di una croce, con davanti a sé un’unica speranza: che la morte giunga presto per porre fine al dolore.
Forse siamo troppo abituati a vedere le varie raffigurazioni che nel tempo sono state fatte della crocifissione di Gesù, ma non per questo non possiamo non accorgerci di quali crudeltà abbia saputo partorire la mente umana. E non possiamo nemmeno dimenticare che una tale atrocità è stata perpetrata con la scusante di un ideale di giustizia, di rispetto della religione, di garanzia dell’ordine sociale.
Tutto ciò sarebbe già molto grave, ma purtroppo nei secoli sono continuati altri strazi simili e drammaticamente continuano ancor oggi. Pensiamo ai roghi, alle persecuzioni dei valdesi, ai forni crematori dell’olocausto, alle guerre condotte con le armi più sofisticate o con lo spargimento di prodotti chimici capaci di uccidere migliaia di persone o di ferire i loro corpi in maniera indelebile e irreversibile, oppure pensiamo al fatto di sapere e fare poco o nulla nel lasciare che uomini, donne e bambini muoiano in mare. E il tutto è stato e viene fatto il più delle volte con motivazioni che appaiono insostenibili per il prezzo di morte che chiedono.
Da credenti cristiani avremmo voluto che quella di Gesù fosse stata l'ultima condanna a morte, l'ultimo frutto avvelenato del peccato che invade la mente umana. Invece gli strumenti di morte, più o meno sofisticati, più o meno giustificati da chi li impiega, continuano ad imperare sulla scena della storia. Di fronte a Gesù crocifisso tutti dovrebbero dire “basta alle uccisioni”, ma quel “basta!” dura solo fino alla prossima guerra, al successivo fatto di sangue per annientare nemici veri o presunti, al prossimo fatto di sangue anche per coloro che si professano cristiani, come accade nelle faide di mafia e camorra.
Gesù che muore in croce smaschera la ferocia delle menti che macchinano violenza, divisione e guerra; smaschera i sistemi di governo del mondo, siano essi politici, militari o semplicemente culturali e religiosi che elaborano sempre nuove divisioni e nuove guerre.
La croce di Gesù smaschera la violenza insita persino nella religione, qualsiasi essa sia. La religione col suo rituale sacrificale vuole vittime: tori, agnelli, colombi, ma poi queste vittime del sacrificio non bastano più, ma tanto a morire sono i cosiddetti nemici da annientare e coloro che muoiono “dalla parte giusta” sono invece martiri di scellerate scelte di altri, martiri che vengono immolati per alzare il valore del sacrificio, affinché appaia sempre più meritorio agli occhi del dio o dell’idolo di turno, dell’ideologia politica ed economica perversa che non consente di dare il giusto valore alla vita umana.
Pensiamoci bene: è una vera e propria aberrazione!
Di fronte alla croce di Gesù ogni religione che non depone la propria violenza è una religione che continua a crocifiggere quel Gesù che dice di onorare e adorare.
Gesù che muore in croce non può andare di pari passo con la benedizione delle armi o degli eserciti, con la sostanziale complicità e/o indifferenza per le vite che vengono stroncate.
Di fronte alla crudeltà della croce di Cristo e delle croci di altri esseri umani dovremmo dire, come individui e come chiesa, BASTA!  Basta alle morti, basta alle discriminazioni che causano conflitti e morte, basta alle armi, basta a sacrifici inutili, basta a scontri di religione (veri o presunti), basta a scelte politiche, economiche e culturali che diffondono falsità sul prossimo e che possono solo alimentare la violenza e i pregiudizi fondati quasi sempre sull’ideologia e sull’ignoranza.
L'unica parola che un cristiano deve pronunciare di fronte alla crudeltà della croce è quindi un chiaro NO alla violenza e un altrettanto chiaro SÌ all’amore e alla solidarietà.
Il Cristo che muore in croce, il Figlio di Dio immolato per il riscatto dell’uomo, non solo ci costringe a denunciare la violenza, ma ci suggerisce pensieri ben più alti. A noi, come singoli e come chiese, spettano quindi le azioni conseguenti, le denunce che vanno fatte ad alta voce, fuori dal chiuso delle nostre case e delle nostre chiese e, se necessario, fuori dal coro, senza timori di essere derisi. AMEN
Liviana Maggiore
 

PARLIAMO DI PACE

Un saggio orientale diceva che, se lui avesse avuto per un attimo l’onnipotenza di Dio, l’unico miracolo che avrebbe fatto sarebbe stato quello di ridare alle parole il senso originario. Sì, perché oggi le parole sono diventate così “multiuso”, che non puoi più giurare a occhi bendati sull’idea che esse sottendono. Anzi, è tutt’altro che rara la sorpresa di vedere accomunate accezioni diametralmente opposte sotto il mantello di un medesimo vocabolo.

Guaio, del resto, che è capitato soprattutto ai termini più nobili; alle parole di serie A; a quelle, cioè, che esprimono i sentimenti più radicati nel cuore umano come pace, amore, libertà. A dire il vero, per quel che riguarda la pace, pare che questa “sindrome dei significati stravolti” fosse presente anche nei tempi remoti, se è vero che perfino in un salmo della Bibbia troviamo denunce del genere: “essi dicono pace, ma nel loro cuore tramano la guerra“.

Luca, unico tra gli evangelisti, ci presenta ravvicinati il duplice volto, prima splendente, poi deturpato, della pace. Lo fa raccontandoci l’arrivo di Gesù, dopo tanto peregrinare, a Gerusalemme.  La parola “Gerusalemme” è un termine composto probabilmente anche dal termine salem-shalom – pace; ed infatti l’autore della lettera agli Ebrei, al capitolo 7, chiama Gerusalemme “la città della pace”.

Luca ci mostra prima l’ingresso di Gesù, con la folla festante che acclama la pace, nella città santa, e subito dopo le lacrime proprio di Gesù sulla stessa città, che non comprende le vie della pace.  Ascoltiamo:

Dette queste cose, Gesù andava avanti, salendo a Gerusalemme. Come fu vicino a Betfage e a Betania, presso il monte detto degli Ulivi, mandò due discepoli, dicendo: «Andate nella borgata di fronte, nella quale, entrando, troverete un puledro legato, su cui non è mai salito nessuno; slegatelo e conducetelo qui da me. Se qualcuno vi domanda perché lo slegate, direte così: “Il Signore ne ha bisogno”». E quelli che erano stati mandati partirono e trovarono tutto come egli aveva detto loro. Mentre essi slegavano il puledro, i suoi padroni dissero loro: «Perché slegate il puledro?» Essi risposero: «Il Signore ne ha bisogno». E lo condussero a Gesù; e, gettati i loro mantelli sul puledro, vi fecero salire Gesù. Mentre egli avanzava stendevano i loro mantelli sulla via. Quando fu vicino alla città, alla discesa del monte degli Ulivi, tutta la folla dei discepoli, con gioia, cominciò a lodare Dio a gran voce per tutte le opere potenti che avevano viste, dicendo: «Benedetto il Re che viene nel nome del Signore; pace in cielo e gloria nei luoghi altissimi!». Alcuni farisei, tra la folla, gli dissero: «Maestro, sgrida i tuoi discepoli!» Ma egli rispose: «Vi dico che se costoro tacciono, le pietre grideranno». Quando fu vicino, vedendo la città, pianse su di essa, dicendo: «Oh se tu sapessi, almeno oggi, ciò che occorre per la tua pace! Ma ora è nascosto ai tuoi occhi. Poiché verranno su di te dei giorni nei quali i tuoi nemici ti faranno attorno delle trincee, ti accerchieranno e ti stringeranno da ogni parte; abbatteranno te e i tuoi figli dentro di te e non lasceranno in te pietra su pietra, perché tu non hai conosciuto il tempo nel quale sei stata visitata» (Luca 19,28-44)

Come forse avete capito, io vorrei provare a restituire, con l’aiuto della Parola appena letta, il suo significato più profondo al termine “Pace”. I nostri cuori, e il mondo che ci circonda, molto spesso non sono in pace.

Certo, il termine “pace” non indica una realtà così precisa e dai contorni così ben definiti, da escludere nettamente zone di valori limitrofi. È difficile tracciare la linea di demarcazione che distingue l’area della pace da quella propria della libertà, o della giustizia, o della comunione, o del perdono, o dell’accoglienza, o della verità.  Con tutti questi valori la pace ha sicuramente stretti rapporti di consanguineità.

Ma ciò che crea problemi, invece, è quella terribile operazione di contrabbando secondo cui si espongono nella medesima vetrina, magari con la medesima etichetta, prodotti completamente diversi. Diciamocelo francamente: la pace la vogliono tutti, anche i criminali; e nessuno è così spudoratamente perverso, da dichiararsi amante della guerra. Ma la pace di una lobby di sfruttatori è la stessa perseguita dagli oppressi? La pace delle multinazionali coincide con quella dei salariati sotto costo? La pace voluta dai dittatori si identifica con quella sognata dai perseguitati politici? E a livello personale: la pace che chiediamo alla nostra esistenza è solo una tranquilla inerzia o è impegno quotidiano verso noi stessi e verso le persone che frequentiamo nei nostri ambienti? La pace del nostro cuore è assenza di emozioni o un sentimento di gioia per la vita?

È necessario evitare il rischio di pericolose contraffazioni. È indispensabile, almeno per noi credenti, fissare dei criteri sulla cui base selezionare il genere di pace per il quale valga la spesa di impegnarsi in una scommessa.

Dire che la pace è un dono di Dio sta diventando purtroppo uno slogan pronunciato da noi cristiani senza molta convinzione e usato come formula di maniera. Tutto sommato, all’atto pratico facciamo affidamento più sulle mediazioni diplomatiche che sull’implorazione, più sulla bravura delle cancellerie della terra che sulla forza della preghiera, più sulle nostre abilità che sulla perenne fedeltà del nostro Signore.

Preghiamo, questo sì, per la pace. Ma considerare la pace come acqua ricavata dai nostri pozzi è un tragico errore di prospettiva. Quando, nella nostra riflessione personale e in quella delle nostre comunità, si riuscirà a scoprire che le fondamenta della pace sono nella croce del Risorto?

Certo, la pace è innanzitutto dono di Dio ma questo non significa che la pace proviene miracolosamente dal Cielo. Occorre scongiurare quel fatalismo che fa ritenere inutili, se non addirittura controproducenti, le scelte di campo, le prese di posizione, le decisioni coraggiose, le testimonianze audaci, i gesti profetici. È un “bluff” limitarsi a chiedere la pace in chiesa, e poi non muovere un dito per denunciare la corsa alle armi e la militarizzazione della nostra società (la “legittima difesa” …). Bisogna smascherare la logica di guerra sottesa a tante scelte pubbliche e private (“la difesa del mio territorio, della mia cultura, del mio …” e avere il coraggio di indicare nelle leggi dominanti di mercato i focolai della violenza.

Come cristiani, messaggeri della pace, la Parola ci sprona ad accelerare l’accoglimento di criteri che favoriscano un nuovo ordine economico internazionale, a tracciare i percorsi concreti di una educazione autentica alla pace, nel nostro cuore, nelle nostre famiglie, negli ambienti di lavoro. Per esporsi, magari anche con i segni paradossali ma eloquenti, del perdono, dell’accoglienza, della fiducia nell’uomo.

La Bibbia allude spesso ad abbracci tra pace e giustizia. Dice Isaia al capitolo 32: “Frutto della giustizia sarà la pace e l’azione della giustizia, tranquillità e sicurezza per sempre. Il mio popolo abiterà in un territorio di pace, in abitazioni sicure, in quieti luoghi di riposo”.

E il salmo 85, al versetto 10: “La bontà e la verità si sono incontrate, la giustizia e la pace si sono baciate”. Persino si baciano la pace e la giustizia!

È una scoperta biblica, tutto sommato recente, questa del legame esistente tra pace e giustizia. Pace, sì. Ma che c’entrano i 50 milioni di esseri umani che muoiono ogni anno per fame? Sulla pace non si discute. Ma che cosa hanno da spartire con essa i discorsi sulla massimizzazione del profitto? La pace, va bene. Ma non sa di demagogia chiamare in causa, ad ogni giro di boa, le divaricazioni esistenti tra Nord e Sud della terra? Pace, d’accordo. Ma è proprio il caso di tirare in ballo la ripartizione dei beni, o i debiti del terzo mondo, o le manipolazioni delle culture locali, o lo scempio della dignità dei poveri?

Attenzione! È in atto una campagna “soft” che spinge pace e giustizia alla “separazione legale”, con espedienti che si vestono di ragioni morali, ma camuffano il più bieco dei sacrilegi. Sentite ancora Isaia, sempre al capitolo 32: “In noi sarà infuso uno Spirito dall’alto. Allora il deserto diventerà un giardino…e la giustizia regnerà nel giardino…e frutto della giustizia sarà la pace“.

Il coraggio della riconciliazione, la non-violenza, il desiderio di relazioni autentiche con tutti, questa è la strada che Gesù Cristo ci ha indicato senza equivoci. Il grande esodo che oggi ciascuno di noi singolarmente e tutti insieme come comunità cristiane siamo chiamati a compiere è questo: abbandonare i recinti di sicurezza garantiti dalla forza per abbandonarsi, sulla parola del Signore, alla apparente inaffidabilità dell’amore, che tutto accoglie e tutto trasforma.

Il grande teologo protestante Bonhoeffer parlava di “grazia a caro prezzo“. Forse è ora che ci abituiamo a pensare che anche la pace ha dei costi altissimi. Chi scommette sulla pace deve sborsare in contanti monete di lacrime, di incomprensione e di sangue. “Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio”, dice Gesù. Operatori, non semplici uditori. La pace va messa in atto, va operata tutti i giorni, e come cristiani dobbiamo avere la fierezza di annunciare, senza sfumature, e di praticare, il vangelo della pace e la prassi della nonviolenza. È chiaro che se, invece che fare ammutolire i potenti, ammutoliamo noi, ci rendiamo complici rassegnati della volontà di predominio di questo mondo.

Sempre Bonhoeffer diceva che bisogna “osare la pace per fede”. Noi cristiani non possiamo perseguire una pace frutto solo della prudenza umana, della saggezza della carne, dei sillogismi della ragione, dei calcoli prodotti dalle nostre paure. La pace va “osata” sulla parola di Cristo, non “calcolata” dai nostri equilibri. La pace deve continuamente tenere i conti aperti. Con la stoltezza della Croce che provoca il sorriso dei dotti. Con la debolezza della Parola di Dio che suscita le preoccupazioni dei prudenti. Con il “linguaggio non suggerito da sapienza umana” (si dice nella prima lettera ai Corinti) che genera il compatimento dei devoti e l’indifferenza della massa.

La pace è una meta sempre intravista, e mai pienamente raggiunta. La sua corsa si vince sulle tappe intermedie, e mai sull’ultimo traguardo. Esisterà sempre un “gap” tra il sogno cullato e le realizzazioni raggiunte.  Ma chi è convinto che la pace è un bene la cui interezza si sperimenterà solo nello stadio finale del Regno, troverà nuovi motivi per continuare la corsa anche nella situazione di scacco permanente in cui è tenuto dalla storia.

Coraggio, allora! Nonostante le nostre esperienze frammentate di pace, in noi stessi e tra di noi, scommettiamo su di essa, perché ciò significa scommettere sull’uomo. Anzi, sull’Uomo nuovo. Su Cristo Gesù: egli è la nostra Pace, come abbiamo lettera nella lettera agli Efesini. E lui non delude. Del resto anche lui, finché staremo sulla terra, sarà sempre per noi un Ospite velato. Faremo di lui un’esperienza incompleta, e i suoi passaggi li scorgeremo solo attraverso segni da interpretare e orme da decifrare. Faccia a faccia, così come egli è, lo vedremo solo nei chiarori del Regno di Dio.

Ricordiamoci la pace che Gesù è venuto a realizzare, come si dice nel vangelo di Giovanni: “Vi lascio pace; vi do la mia pace. Io non vi do come il mondo dà”.  Se noi sapessimo, almeno oggi, ciò che occorre per la nostra pace, così come Gesù diceva di Gerusalemme: “Se tu sapessi, almeno oggi, ciò che occorre per la tua pace!”.  Solo osservando Gesù lo sappiamo. Seguendo i suoi passi possiamo essere portatori di pace. Mettendo in atto le sue parole, la profezia della nuova Gerusalemme, città della pace, potrà realizzarsi, come si dice nel libro dell’Apocalisse: “E vidi la santa città, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo da presso Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Dio abiterà con loro, essi saranno suoi popoli ed egli stesso sarà con loro e sarà il loro Dio. Egli asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non ci sarà più la morte, né cordoglio, né grido, né dolore, perché le cose di prima sono passate”.

Alla vigilia della Pasqua di Gesù, Dio ci doni la sua pace. AMEN

Fabio Barzon

LEGALITA’ E TESTIMONIANZA

Diceva poi a tutti: «Se uno vuol venire dietro a me, rinunzi a sé stesso, prenda ogni giorno la sua croce e mi segua.  Perché chi vorrà salvare la sua vita, la perderà; ma chi avrà perduto la propria vita per amor mio, la salverà.

Infatti, che serve all’uomo guadagnare tutto il mondo, se poi perde o rovina sé stesso?  Perché se uno ha vergogna di me e delle mie parole, il Figlio dell’uomo avrà vergogna di lui, quando verrà nella gloria sua e del Padre e dei santi angeli.

Ora io vi dico in verità che alcuni di quelli che sono qui presenti non gusteranno la morte, finché non abbiano visto il regno di Dio». (Luca 9,23-27)

Coloro che hanno ascoltato (o letto) le mie predicazioni sanno che rifiuto vigorosamente una visione doloristica del messaggio evangelico, perché ritengo che lo stesso sia invece un annunzio di gioia, un invito inoltre a non vivere in maniera personalistica ma di apertura verso l’altro, senza rinchiudersi nel proprio sentimento individuale, sia esso lieto o di sofferenza.

Ma allora, come interpretare questo passo dove SEMBRA che Gesù inviti il credente ad immolarsi, dove SEMBRA che al credente venga detto di soffrire per seguire il Signore (rif. “… prenda ogni giorno la sua croce e mi segua”).

Non ho mai avuto simpatia per quei detti popolari che richiamano la croce come un dolore, una sventura, un simbolo di sofferenza. Li conosciamo: “ogni giorno ha la sua croce” oppure, in caso di eventi negativi che colpiscono la persona, “ha una croce da portare”.

Noi sappiamo bene che non ha significato interpretare la Scrittura in maniera letterale, perché nel corso del tempo la lingua cambia, i termini assumono altri significati, non previsti nel momento in cui chi li ha scritti li ha utilizzati.

Ad esempio, come ben noto nelle nostre chiese, sappiamo che il termine “protestante” che viene spesso interpretato con la connotazione negativa di “essere contro”, in realtà ha il significato di “affermare a favore” (dal latino pro-testare).  Ma perché questo discorso sull’etimologia delle parole?

Perché conoscere il significato “antico” dei termini ci consente di dare interpretazioni diverse anche ai passi biblici. Vediamo allora il passo di oggi.

Gesù dice: «Se uno vuol venire dietro a me, rinunzi a sé stesso, prenda ogni giorno la sua croce e mi segua». E questa affermazione, questo imperioso invito, viene fatto appena dopo essersi palesato come il Cristo, il Figlio di Dio, il Messia che era atteso. E non è un caso che tutti e tre i vangeli sinottici riportino questo passo.

In questa affermazione di Gesù c’è il vigoroso invito a quella che chiamiamo la sequela, il seguirne gli insegnamenti, l’accoglimento senza titubanze della chiamata, della vocazione che ci viene rivolta.

Ma è interessante anche il contesto in cui vengono pronunciate queste parole. Il versetto precedente al passo che abbiamo letto ci riferisce la consapevolezza di Gesù per la sua sorte, predicendo la sua stessa morte, quella morte che avviene poi sulla croce (rif v. 22 «Bisogna che il Figlio dell’uomo soffra molte cose e sia respinto dagli anziani, dai capi dei sacerdoti, dagli scribi, sia ucciso, e risusciti il terzo giorno»). È un lampante riferimento a quello che possiamo chiamare il “martirio” della croce, ma questa visione non è limitata alla sofferenza che si concentra sull’uccisione della persona, ma, se guariamo meno distrattamente noteremo anche le ultime parole del versetto, dove Gesù parla e preannuncia la sua resurrezione.

Se ci concentriamo sulla visione limitata della morte, si concede tutto ad una interpretazione doloristica che possiamo credere venga ribaltata su di noi, noi credenti cristiani.

Ma non è così, o almeno non è solo così.  E qui entra in ballo il significato delle parole che assumono valenze positive o negative in rapporto al contesto in cui vengono usate.

È vero che la croce per i cristiani diventa elemento di “martirio”, ma dobbiamo intendere martire nel senso originario del termine.  Originariamente il termine “martire” era diffuso soprattutto in ambito giuridico e stava a indicare un testimone che garantiva la verità degli avvenimenti e che normalmente prendeva le difese dell’accusato. Col tempo il termine è stato usato anche in ambito filosofico, di testimonianza della verità, e solo successivamente assume il significato di testimonianza di un avvenimento religioso di cui il credente, con la sua vita e la sua predicazione è testimone. E osserviamo che questo termine non è mai stato usato in ambito biblico (né giudaico, né cristiano) nel significato odierno di “testimonianza sino anche alla morte”, se non dopo la nascita del cristianesimo, con l’avvento delle persecuzioni.

La lettura dell’evento annunciato del martirio della croce, quindi non può prescindere dall’annuncio di ciò che accade il terzo giorno. Ecco allora che la croce non assume il significato unico di “patimento”, ma quello più importante di “segno di testimonianza”, appunto di “martirio” nel senso originario del termine.

Ecco allora che l’imperativo che rivolge Gesù sulla sequela è un invito vigoroso alla testimonianza, una testimonianza che deve essere realizzata dal singolo e dalla chiesa tutta, una testimonianza che i credenti in Cristo sono tenuti a dare sull’amore di Dio, fondamento del patto missionario.

Ma a chi è rivolto questo invito?  Per chi sono le parole che i tre evangelisti Marco, Matteo e Luca riferiscono?

Sicuramente a coloro che hanno udito direttamente le parole di Gesù, hanno potuto verificare il suo amore per la gente (per tutta la gente, non solo per i suoi seguaci, ma anche per coloro che non credevano in lui come Messia e che magari si rivolgevano a lui come ultimo appiglio nel dolore di fronte alla malattia o alla morte di un congiunto). Ma l’invito è rivolto anche a coloro che non lo hanno conosciuto se non attraverso le parole e i racconti dei suoi discepoli, di coloro che hanno testimoniato su ciò che egli era e, nel tempo quindi anche a noi, a noi che, come moltissimi altri nei secoli, abbiamo letto oppure abbiamo sentito raccontare le vicende di Gesù di Nazareth, colui che interpretiamo come il figlio di Dio fatto uomo per il riscatto dell’umanità.

Ecco allora che l’invito alla testimonianza arriva dritto dritto fino a noi, impegnandoci a non affermare solo a parole quello in cui diciamo di credere, impegnandoci a non vivere solo per noi stessi, perché “chi vorrà salvare la propria vita (leggi la SOLA propria vita) la perderà”.

Ma cosa c’entra la testimonianza con la domenica della legalità che celebriamo oggi?

Nel momento in cui accettiamo di essere seguaci di Cristo, sappiamo che il suo messaggio non riguarda il singolo, sappiamo che la dimensione di quella salvezza annunciata non è individuale, bensì collettiva e, per ciò stesso, la persona che intenda seguire gli insegnamenti evangelici non può rintanarsi nella propria individualità, ma deve uscire da sé stesso per giudicare con occhi non egoistici gli accadimenti che lo circondano, assumendo un ruolo di testimone non silenzioso di fronte al dilagare dell’ingiustizia, alla privazione dei diritti per coloro che calpestano assieme a noi il suolo di questa terra.

Se credo nella grazia di Dio, nella sua misericordia, nella sua giustizia, debbo essere consapevole che non sono solo io la persona chiamata a salvezza, ma sono anche gli altri. Ed ecco allora che il mio essere (inteso come corpo e spirito, senza alcuna dualità) che credo sia destinatario dell’amore di Dio, non può essere inteso come uno scrigno che contiene le sole mie emozioni ed i soli miei pensieri, ma deve diventare un unicum con gli altri, con coloro che con me sono figli e figlie del medesimo Padre.

In questa prospettiva, quindi, non posso come individuo o come chiesa tacere di fronte alle ingiustizie, girare il capo da un’altra parte per non vedere, non essere testimone che credere nella croce e nella resurrezione richiede l’affermazione che tutti gli esseri umani sono uguali, a prescindere dal colore della pelle, dalla provenienza geografica, dalle abitudini sociali, dai comportamenti sessuali o da chissà cos’altro ancora.

Tutti uguali, tutti con uguale dignità, tutti con i medesimi diritti, tutti degni di uguale rispetto.  E, in questo senso, a nulla valgono le pretese politiche e sociali che anche di recente abbiamo sentito affermare e a nulla valgono le banali idee di “proprietà” del nostro orticello, così come proclamate da coloro che dicono “padroni a casa nostra” o che giustificano mezzi eccessivi di difesa del proprio ambiente o che strumentalizzano e sfruttano illegalmente gli altri.

Nella domenica della legalità siamo tenuti a fare una seria riflessione come singoli e come chiesa sulla nostra vocazione e soprattutto sul nostro impegno affinché tutti gli uomini e le donne siano considerati uguali.

E se noi ci vergogneremo di affermare questo con parole e fatti, se ci vergogneremo di annunziare che il messaggio evangelico non attiene solo alla sfera spirituale e mistica, ma riguarda la vita stessa degli individui, se decideremo di indugiare all’immobilismo, preferendo magari la nostra dorata solitudine, cosa diremo quando Qualcun altro si vergognerà di noi?

A cosa varranno allora i nostri piccoli e grandi poteri dei quali ci inebriamo? A cosa serviranno perfino le nostre depressioni che ci fanno guardare solo al nostro ombelico? A cosa sarà servito girarci dall’altra parte di fronte a chi soffre per l’ingiustizia?

Che il Signore ci aiuti e ci ispiri per camminare sulle sue vie.

AMEN

Liviana Maggiore