Sermone: Il cerchio perfetto dell’amore

Voglio oggi partire per la nostra riflessione condividendo con voi il mio sentire per due persone assai speciali nella mia vita.

A gennaio è mancato un mio carissimo amico, un piacevole compagno di chiacchierate notturne al telefono, visto che per entrambi le ore della notte sono finalmente tranquille e danno la possibilità di riflettere senza la frenesia delle cose da fare durante il giorno. Lui era psichiatra e la sua dipartita ha lasciato un gran vuoto in moltissime persone che continuano ad attestare la loro stima ed il loro dolore per la sua mancanza.

Nik era una bella persona, colta, disponibile, empatico, sempre partecipe nei sentimenti dell’altro. Ma Nik era anche agnostico e ricordo ancora con un sorriso i nostri confronti durante i quali lui si stupiva della laicità sostanziale in una persona credente. Una caratteristica indiscussa di questo mio amico era l’umiltà che manifestava nel relazionarsi con tutti. Mi manca, mi manca molto.

Per mia fortuna un’altra persona è ancora presente nella mia vita. Anch’egli medico, anch’egli agnostico (seppure attirato dalla visione etica delle chiese valdesi e metodiste). Il mio amico è una persona buona, che ha come punto focale della sua vita la professione come mezzo per realizzare uno dei suoi principali obiettivi: lenire il dolore delle persone. Per esperienza so che, qualsiasi sia il problema esistenziale che sta vivendo, interpellato come medico, lui è presente, in ogni momento, con ogni persona che richieda il suo aiuto. Però, anche con lui, nelle nostre chiacchierate, percepisco l’incredulità nei confronti di Dio.

Perché il riferimento a queste due persone così importanti nella mia vita?

Perché io, come voi sorelle e fratelli, sono credente e non nutro dubbio alcuno sulla presenza del nostro Signore nella mia vita e nella storia del mondo.

Certo l’amore per il prossimo, la solidarietà, il mettersi a disposizione dell’altro, il donare all’altro ciò che siamo, ciò che sappiamo e ciò che abbiamo non è caratteristica del cristiano. Il mondo, la storia, perfino le nostre conoscenze personali sono zeppi di individui che hanno saputo relazionarsi con gli altri con spirito “fraterno”. E questo, a prescindere dalla nostra scelta di fede, va loro riconosciuto.

Ma allora, qual è la specificità del credente? Quali sono le riflessioni che dobbiamo fare e che ci rendono diversi dai non credenti? CERTO NON MIGLIORI, ma diversi sì.

 

Leggo dall’evangelo di Matteo 22: 34-40

I farisei, udito che egli aveva chiuso la bocca ai sadducei, si radunarono; e uno di loro, dottore della legge, gli domandò, per metterlo alla prova: «Maestro, qual è, nella legge, il gran comandamento?»

Gesù gli disse: «”Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. Questo è il grande e il primo comandamento.

Il secondo, simile a questo, è: “Ama il tuo prossimo come te stesso”.

Da questi due comandamenti dipendono tutta la legge e i profeti.»

 

Questo notissimo passo, riportato anche in Luca 10 con la parabola del buon Samaritano, è entrato fra i versetti più conosciuti a memoria da credenti e non credenti.

In entrambi gli Evangeli l’affermazione nasce da una provocazione, da un intervento che un dottore della legge fa per mettere alla prova Gesù. In Matteo il gran comandamento della legge è messo in bocca a Gesù, in Luca, invece, è Gesù che chiede al suo interlocutore quale sia il comandamento ed egli risponde, per cui possiamo dedurre che questa legge, questo comandamento fosse anche al tempo ben conosciuto.

Luca riporta al cap 10, laddove parla della parabola del buon Samaritano: “Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta l’anima tua, con tutta la forza tua, con tutta la mente tua, e il tuo prossimo come te stesso”.

Sostanzialmente lo stesso comandamento. Tuttavia mi vien da dire che normalmente o quantomeno spesso questo dettato è stato utilizzato solo per esprimere l’atteggiamento che il cristiano dovrebbe avere nei confronti del “prossimo” (fratellanza, solidarietà, amore, compassione, condivisione, ecc.).

Interpretazione certo corretta, ma parziale, che magari ha anche talvolta il sapore di un inutile e ipocrita buonismo caritatevole, perché, se ci pensiamo bene, i destinatari dell’amore non sono uno (il prossimo), bensì tre:

  1. Il Signore,
  2. Il prossimo,
  3. Te stesso.

E questo non è un caso, perché ciò che troviamo nella Bibbia non è stato scritto per caso.

Sono tre i pilastri dell’amore sui quali per un credente deve fondarsi la vita.

Se volessimo raffigurare fisicamente questa situazione, potremmo immaginare tre colonne sulle quali è posato un cerchio orizzontale, il cerchio dell’amore che dovrebbe essere ben presente in coloro che hanno fatto l’esperienza del grande dono della fede.

Proviamo ad analizzare questi tre pilastri, sapendo che ciascuno di essi è assolutamente fondamentale per la stabilità della costruzione, perché nessuno dei tre pilastri può essere più alto o più basso degli altri, altrimenti viene meno il sostegno al cerchio.

  1. Amare il Signore

Cosa significa? Vuol forse dire che, per abitudine, per educazione religiosa, per una sorta di timore o per altri motivi, riconosciamo l’esistenza di Dio nell’alto dei cieli perché spesso l’uomo ha bisogno di aggrapparsi al trascendente?

NO, certo che no! Amare il Signore vuol dire aver accolto nella nostra vita la sua presenza, aver fatto l’esperienza dei suoi doni che ci sono stati abbondantemente elargiti; doni che non possiamo sotterrare, ma dell’uso dei quali dovremo un giorno rendere conto.

Amare il Signore significa essere profondamente consapevoli che in Lui abbiamo un padre amorevole, un padre che non impone nulla ma lascia liberi i propri figli nelle scelte che vogliono fare, fossero anche scelte di rottura e di allontanamento, ma un padre che è sempre disposto ad accoglierci a braccia aperte e donarci il suo perdono, come nella parabola del figliol prodigo (meglio definita “del padre misericordioso”).

Un Signore che, pur chiedendoci di rendere conto delle nostre azioni, saprà accoglierci fra le sue braccia, dopo questo scampolo di anni che è la nostra vita terrena.

Amare il Signore vuol dire sapere che in Lui vi è il nostro inizio e la nostra fine ed è grazie al gran dono che ci ha fatto in suo figlio Gesù Cristo che noi possiamo aspirare alla vita eterna, per la sua grazia e non certo per i nostri meriti.

Amare il Signore significa non relegarlo nell’alto dei cieli, in uno spazio siderale lontano da noi, ma mettersi in contatto con Lui mediante la regolare frequentazione della Parola e la preghiera, per rendere la Sua presenza una realtà della nostra vita.

Amare il Signore significa esercitare la nostra capacità di affidarci a Lui, a colui che, fra i grandi doni che ci ha fatto, ha mandato suo Figlio per riscattarci dal peccato e per illuminarci sulla strada della vita.

  1. Amare il prossimo

Se possiamo ignorare il Signore, facendo finta che non ci sia o contestandone l’esistenza, il nostro prossimo non possiamo ignorarlo. E’ qui, vicino a noi, nella vita quotidiana.

Il nostro prossimo è rappresentato da coloro che incrociamo nella vita, a qualsiasi titolo questo contatto avvenga. Il nostro prossimo non lo scegliamo: ci capita e basta. Può essere certo una persona che amiamo, magari con la quale vogliamo instaurare un rapporto duraturo, ma può essere anche una persona che entra nella nostra vita mediata da altre conoscenze o da occasioni del tutto inaspettate.

Il mio prossimo è colui che, con un’espressione che mi avete sentito dire più volte, incrocia la sua vita con la mia; e non importa per quanto tempo avremo un percorso comune, né importa se ci siamo scelti oppure se è stato il caso a farci incontrare.

Ma dirò di più: il mio prossimo non lo scelgo io e può essere perfino che non mi piaccia perché caratterialmente, culturalmente e magari religiosamente è lontano dal mio sentire. Eppure anche costui è mio fratello e a me, come credente, è dato il compito di essere comunque gentile, solidale, partecipe alle sue gioie e ai suoi dolori, SENZA ATTENDERMI NULLA IN CAMBIO.

Questo, badate bene, non è vuoto buonismo, ma è la profonda consapevolezza che tutti i doni che ho ricevuto, siano essi materiali, psicologici o spirituali, non sono una mia esclusiva proprietà, ma mi sono stati affidati dal Signore affinché io ne faccia buon uso e li condivida con gli altri.

In questa prospettiva la disponibilità ad entrare in relazione con l’altro, lasciandogli sempre la libertà e non cercando che lui faccia ciò che vorrei facesse, crea una rete di comunicazione affettiva, di solidarietà, di condivisione, grazie alla quale noi stessi diventiamo il prossimo degli altri.

Recentemente ad un amico che manifestava quasi imbarazzato una profonda gratitudine solo perché, attraverso una rete di amicizie con fratelli di chiesa di un’altra città, abbiamo potuto avvicinare e verificare la situazione di un anziano a lui caro, ma geograficamente lontano, ho risposto che per l’amore non è dovuta gratitudine, ma che la cosa importante è che ciascuno riesca a seminare amore gratuitamente, senza aspettarsi nulla in cambio.

Visto che lui è agnostico, non credo che abbia ben percepito cosa significhi per un credente l’espressione che troviamo in Mt 10:8 “gratuitamente avete ricevuto e gratuitamente date”.

Da ultimo va detto che amare il prossimo significa condividere ciò che abbiamo e ciò che siamo, non elemosinare le rimanenze affettive o pratiche.

  1. Amare se stessi

Nei versetti che abbiamo letto c’è una forte connotazione psicologica che non va sottovalutata: “Ama il tuo prossimo come te stesso”.

A prima vista sembra facile, quasi fosse scontato il fatto che noi amiamo noi stessi, ma se ci riflettiamo un pochino, comprendiamo che non è così. I testi di studio di psicologia e psicoanalisi sarebbero totalmente inutili se gli esseri umani non soffrissero di mancanza di accettazione nei propri confronti. Immagino che ciascuno di noi abbia lati del proprio essere che non riesce ad accettare, perché non conformi a modelli che ci siamo costruiti, o magari a “fantasmi” creati dalla nostra mente ai quali vorremmo uniformarci e, non riuscendoci, di conseguenza rimaniamo insoddisfatti per nostri aspetti caratteriali, psicologici o fisici che non ci piacciono.

La mancata accettazione di noi stessi porta a conseguenze negative molto pesanti, perché potremmo certo evitare l’incontro con persone che non ci piacciono, ma non possiamo evitare di vivere con noi stessi e allora può accadere che, per sopravvivenza, proiettiamo sugli altri la nostra mancata auto accettazione.

E’ scontato che possiamo dare all’altro solamente ciò che siamo, per cui è evidente che una persona che non abbia risolto i propri problemi di accettazione guardandosi nel profondo e facendo un percorso, talvolta doloroso, di consapevolezza, non potrà porsi nei confronti del prossimo in maniera autenticamente positiva.

Questo è l’aspetto dal punto di vista esistenziale, ma, da credenti, vi è un aspetto ben più importante nei confronti del quale non possiamo rifiutare la riflessione e le conseguenti scelte. La nostra vita, il nostro essere, ciò che siamo e ciò che possediamo sono DONI DI DIO e come tali vanno rispettati, coltivati, impiegati.

Noi siamo coloro che Dio ama. Ci ama con i nostri difetti, con le nostre intemperanze, perfino con le nostre infedeltà. Il nostro Signore ci ama anche con le nostre caratteristiche fisiche e il suo amore si spande su di noi a prescindere dalle nostre scelte di tipo sociale, politico, sessuale, etico, lavorativo, religioso, ecc.

Orbene, CHI SIAMO NOI per banalizzare un tale infinito amore? CHI SIAMO NOI per svalutare i doni che ci sono stati fatti? CHI SIAMO NOI per volere che gli altri facciano ciò che noi vogliamo, ben sapendo che spesso ciò che noi vogliamo è una proiezione verso l’esterno della nostra mancata accettazione di noi stessi o del bisogno che abbiamo di essere confermati nelle nostre certezze fasulle?

Se facciamo una riflessione di questo tipo vediamo che l’amore verso se stessi non è così scontato, perché AMORE per me stessa, come creatura di Dio, non è da confondere con EGOCENTRISMO e sopravvalutazione del mio ego.  L’amore per me stesso richiede che io mi guardi dentro, disponibile anche a soffrire per questo, e comprenda quali sono in me i grandi talenti che il Signore mi ha affidato e non corra al campo per sotterrarli, ma li metta a frutto nella condivisione con il mio prossimo.

E’ solo facendo questo percorso di accettazione che potrò più facilmente rifuggire da atteggiamenti che rovinano la vita: insoddisfazione, depressione, ira frequente, mancanza di volontà nel fare le scelte, mancanza di voglia di vivere con gli altri, incapacità ad esercitare l’empatia e facilità del dare giudizi sugli altri.

L’amore per se stessi porta arricchimento nella disponibilità e nell’amore per gli altri, per il prossimo, e causa riconoscenza profonda verso quel Dio in cui diciamo di credere.

 

Solo guardando e mantenendo saldi i tre pilastri dell’amore, senza privilegiare posizioni solo fideistiche, oppure realizzando unicamente azioni di solidarietà, o disconoscendo il dono di noi stessi, il cerchio dell’amore di cui abbiamo parlato all’inizio della nostra riflessione potrà rimanere saldamente in equilibrio, in un continuo scambio di energia positiva che si muove fra i tre punti che ci presenta il più grande comandamento, come ha detto Gesù nel passo di Matteo.

AMEN

Liviana Maggiore