LA TESTIMONIANZA

Poiché non c’è distinzione tra Giudeo e Greco, essendo egli lo stesso Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che lo invocano. Infatti chiunque avrà invocato il nome del Signore sarà salvato.  Ora, come invocheranno colui nel quale non hanno creduto? E come crederanno in colui del quale non hanno sentito parlare? E come potranno sentirne parlare, se non c’è chi lo annunzi?  E come annunzieranno se non sono mandati? Com’è scritto: «Quanto sono belli i piedi di quelli che annunziano buone notizie!»  Ma non tutti hanno ubbidito alla buona notizia; Isaia infatti dice: «Signore, chi ha creduto alla nostra predicazione?»  Così la fede viene da ciò che si ascolta, e ciò che si ascolta viene dalla parola di Cristo. (Rom 10,12-17)

I passi che abbiamo ascoltato sono solo tre fra i numerosi che troviamo nella Scrittura che raccomandano, istruiscono, incitano alla testimonianza, il che significa che nella Bibbia non c’è spazio per una fede intimistica, una fede che l’individuo coltivi solo in sé stesso, una fede non condivisa, ma soprattutto non testimoniata.

Se ci pensiamo bene è un bell’impegno quello che viene affidato ai credenti perché da questo vigoroso invito (come nello stile di Paolo) sorge spontanea una domanda: che cosa significa testimoniare la propria fede?

Beh, certamente far parte di una comunità di credenti è già una testimonianza, perché le sorelle e i fratelli coi quali condividiamo i momenti di culto sanno che quei momenti sono di condivisione fra credenti e, similmente, coloro che vincendo le proprie resistenze e timidezze entrano nelle nostre chiese possono legittimamente pensare che siamo un’assemblea di credenti, di persone che hanno accolto il dono della fede e lo dimostrano lodando il Signore insieme.  Indubbiamente questa è testimonianza, com’è testimonianza la predicazione che si può fare dai nostri pulpiti oppure in occasioni di incontri con membri di altre confessioni dove magari veniamo invitati.

Tutto giusto, ma ….. tutto qui?  Abbastanza facile, direi.  Noi siamo un’assemblea di credenti cristiani e, come tali, ci presentiamo nelle nostre chiese oppure in occasioni comunque religiose.  Ma siamo sicuri che testimoniare la nostra fede, che annunziare la buona notizia si limiti a questo?

Ovviamente questa è una domanda retorica, alla quale tutti noi risponderemmo (o dovremmo rispondere) : “No, non è solo questo”.  E allora andiamo a riflettere insieme su che altro sia la testimonianza, questo impegnativo incarico che abbiamo ricevuto ed al quale dobbiamo ottemperare per cercare di seguire gli insegnamenti che troviamo sulla Bibbia.

Nei secoli (e, in verità, ancor oggi) molti cristiani hanno interpretato la testimonianza come il diritto di imporre, con metodi più o meno violenti, la propria fede, costringendo gli altri a riconoscerla come “verità” e a convertirsi ad essa. Basti pensare alle crociate, alle persecuzioni o a certi modi di intendere l’attività missionaria in popolazioni non cristiane.  Ma questa, scusatemi, non è certo “testimonianza”.  E allora?

Premesso che nelle chiese riformate (come la nostra) uno dei principi fondamentali è che non esistono opere meritorie, cioè comportamenti che diano credito all’individuo davanti a Dio, non possiamo sicuramente sottovalutare l’importanza delle opere, cioè delle azioni e dei comportamenti che mettiamo in atto.  D’altro canto è chiarissimo quanto dice Giacomo (2,14-20):

«A che serve, fratelli miei, se uno dice di avere fede ma non ha opere? Può la fede salvarlo? Se un fratello o una sorella non hanno abiti e mancano del cibo quotidiano, e uno di voi dice loro: «Andate in pace, scaldatevi e saziatevi», ma non date loro ciò che è necessario al corpo, a che serve? Allo stesso modo è la fede: se non ha opere, è per sé stessa morta. Anzi uno piuttosto dirà: «Tu hai la fede, e io ho le opere; mostrami la tua fede senza le tue opere, e io con le mie opere ti mostrerò la mia fede». Tu credi che c’è un solo Dio, e fai bene; anche i demoni lo credono e tremano. Insensato! Vuoi renderti conto che la fede senza le opere non ha valore?»

So bene che dal pulpito di una chiesa metodista sto dicendo cose ovvie, ma è proprio su queste ovvietà che ciascuno di noi ha il dovere di riflettere, senza darle per scontate.

Sappiamo tutti da dove discende il termine “metodisti”: da un vocabolo di derisione che era stato appioppato ai nostri padri e fratelli fondatori, i quali si avvicinavano a coloro che soffrivano o che erano indigenti per status sociale per portare FATTIVO conforto, per aiutare nelle malattie, per condividere il cibo, per ascoltare coloro che erano disperati. E i nostri fratelli e sorelle nell’Inghilterra del ‘700 non chiedevano in cambio la conversione. Certo non nascondevano il motivo di questo loro operare, ma erano ben consapevoli che una testimonianza a parole non è quello che viene chiesto al credente, perché parlare di Dio a un affamato, a un disperato, a un sofferente e non far nulla per cercare di lenire le sue ferite fisiche e psichiche, non far nulla per dargli il cibo o gli abiti che non ha è un atteggiamento manicheo e perbenista che non serve a nulla al sofferente ed è fuorviante per chi lo dà.

Ecco allora che nascevano gruppi di aiuto, scuole, centri di accoglienza e assistenza ai derelitti ed altro ancora. Insomma, era un “metodo” quello che veniva seguito: aiutare le persone nel bisogno, non per convertirle ma per mettere in atto gli insegnamenti ricevuti.

E queste iniziative non venivano solo delegate ai pastori o a pochi membri di chiesa attivi, ma trovavano il coinvolgimento di interi gruppi che poi si sparpagliavano per annunciare la Parola di speranza e di fraternità, di uguaglianza fra gli esseri umani, di salvezza promessa ed elargita a tutti, non solo a pochi eletti “ordinati” o “studiosi”.

E questo stesso metodo, questo modo di operare lo abbiamo avuto anche a Padova più di 150 anni fa, una comunità vivace e solidale, con molte attività sociali, una comunità che non temeva certo di esporsi testimoniando la propria fede come credenti “diversi”.

Ed allora, sia i passi della Scrittura che ci intimano la testimonianza, sia la nostra stessa storia, ci interrogano oggi sulla nostra testimonianza, forse ci mettono di fronte anche alla necessità di un nuovo periodo di “risveglio” nel quale dobbiamo abbandonare le nostre timidezze e i nostri timori di essere fraintesi.

Molti sono i modi che ciascuno di noi ha per testimoniare la propria fede, per rendere palese ciò in cui diciamo di credere; ed oggi vi pongo solo alcune domande, nella speranza che possano servire per una personale riflessione:

  • Quanto spesso mettiamo a disposizione degli altri le nostre risorse personali e finanziarie in una reale condivisione, non donando quindi solo ciò che ci avanza, privilegiando i nostri bisogni non essenziali o accumulando risorse che mettiamo da parte per il futuro, mentre c’è a fianco a noi chi non riesce a sostenere il presente?
  • Quanto spesso mettiamo gratuitamente a disposizione degli altri le nostre capacità, le nostre professionalità, le nostre conoscenze?
  • Quanto spesso ci lamentiamo delle nostre scarse risorse economiche, che magari così scarse non sono se confrontate con chi ha meno, molto meno di noi, e non ci degniamo di buttare lo sguardo a coloro ai quali potremmo OFFRIRE la nostra solidarietà?
  • Quanto spesso ci interessiamo a conoscere gli altri, coloro che hanno fatto una scelta diversa dalla nostra in termini di appartenenza religiosa, oppure con coloro che seriamente hanno fatto una scelta atea o agnostica? Riusciamo a relazionarci con loro in assoluta libertà in un confronto sereno e senza la spocchia di chi ha ricevuto l’illuminazione e ha la verità in tasca, ma con reale disponibilità al confronto?
  • Quanto spesso rendiamo testimonianza agli altri della nostra scelta religiosa, della nostra fede, andando oltre la semplice descrizione delle differenze fra la chiesa di maggioranza e la nostra, facendo intendere che noi siamo nel giusto e loro sono nell’errore?
  • Quanto spesso divulghiamo i contenuti dei documenti di scelta etica, politica (non partitica), comportamentale, emessi dal nostro Sinodo, dalle nostre Commissioni, dalle nostre Assemblee per dichiarare alla collettività chi siamo e cosa diciamo? Solo per fare un esempio in tal senso: il documento sul fine vita o le prese di posizione di fronte alle scelte scelerate dei potenti?
  • Quanto spesso noi stessi, invece di chiuderci tra le rassicuranti mura della chiesa, cogliamo le occasioni per esporci, per dire all’esterno chi siamo, come individui e come comunità, in che cosa crediamo, ma sereni e desiderosi di conoscere gli altri e condividere i doni di ciascuno?
  • Quanto spesso siamo disposti ad entrare in confronto anche con i nostri fratelli e sorelle di chiesa per esprimere serenamente il nostro pensiero, perfino quel pensiero che ci mette in difficoltà e che spesso sottacciamo per evitare conflitti.
  • Quanto spesso diciamo che siamo tutti uguali, a prescindere dal colore della pelle, dai inclinazioni sessuali, dalle scelte politiche, dall’appartenenza religiosa, ma poi tolleriamo chi è diverso da noi, gli riserviamo magari un saluto, un sorriso e una stretta di mano, ma non ci interessiamo alla sua vita così diversa dalla nostra e non vogliamo entrare in autentica relazione con lui/lei?
  • Ed infine, quanto spesso facciamo tutto ciò non solo con coloro che fanno parte del nostro entourage di parentela o di conoscenze, ma ci spingiamo fuori dal nostro mondo?

Queste sono indubbiamente AZIONI come ve ne sono moltissime altre, azioni certamente NON MERITORIE, ma altrettanto certamente doverose per non rintanarci in una sterile fede individualista, che a nulla serve se non a mettere a tacere la nostra coscienza.

Voglia il Signore aiutarci e darci la volontà e la forza per renderci fattivamente testimoni della buona notizia che diciamo di aver ricevuto, affinché la nostra fede non venga vissuta solo in maniera intimistica.

AMEN

Liviana Maggiore

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