IL Sermone: REV. SOL JACOB DAL SUDAFRICA A PADOVA: PREDICAZIONE DI DOMENICA 14 APRILE 2013

Una voce metodista che viene da lontano

Domenica 14 aprile 2013 è stata, per la comunità metodista e valdese di Padova, una giornata particolare (anche se ci saremmo aspettati ben più dei 15 presenti al culto). Ci ha infatti onorati della sua presenza, il Reverendo Sol Jacob proveniente dalla Repubblica Sudafricana. Ma chi è costui? E’ un pastore della Chiesa Metodista del Sud Africa (Methodist Church of Southern Africa). Ha servito il Consiglio ecumenico delle Chiese del Sud Africa (South Africa Council of Churches) come direttore, collaborando nel peggior periodo dell’apartheid con il premio Nobel per la Pace Desmond Tutu. E’ stato incarcerato (senza che gli fosse formulata alcuna accusa) e tenuto in isolamento del carcere duro. Si è poi occupato di rifugiati anche con incarico dall’ONU.Negli ultimi anni ha ideato e organizzato un progetto per la cura e la lotta all’HIV/AIDS; sua moglie Isobel dirige la scuola materna da lui fondata nel 1976, interreligiosa e interrazziale, a Pietermaritzburg, nella Repubblica Sudafricana.

Il Rev. Jacob ha tenuto il sermone domenicale, gentilmente tradotto dalla nostra Mary Waite in collaborazione con Febe Cavazzutti Rossi.

Ecco il testo:

Mentre mi preparavo per lasciare il Sud Africa e venire in Europa sono stato raggiunto da due mail di persone amiche che mi descrivevano la pesante crisi che attraversa il vostro paese con i suoi aspetti tragici. Non ripeto qui le statistiche e i numeri che conoscete bene. Due cose mi hanno colpito particolarmente: che l’ultimo rapporto della Caritas definisce le migliaia che hanno perso il lavoro e sono i nuovi poveri come “i Ripartenti”, quelli che devono cominciare tutto da capo. Il mio amico chiudeva il suo scritto con queste parole: soprattutto manca la speranza! Secondo il calendario cristiano questi sono i giorni che seguono la resurrezione. Solo poche domeniche fa abbiamo cantato gli inni gioiosi della Pasqua. Siamo stati partecipi della gioia della resurrezione come l’hanno vissuta gli apostoli. Abbiamo provato con loro lo sgomento di fronte alla morte di Gesù e poi abbiamo ritrovato quella che è stata la loro felicità ed euforia quando hanno visto il loro Signore risorto. La lettera di Paolo agli Efesini di questa mattina è una delle più profonde ed esaltanti che siano mai state scritte. Paolo viveva giorni in cui nel mondo molte cose andavano male; tanti erano i preoccupati, i disillusi, disgustati e senza speranza: si trovavano in una situazione di disperazione (proprio come noi). Per quell’epoca oscura Paolo aveva un messaggio di buone notizie e di nuova speranza. La vita non è solo senza scopo, faticosa e priva di senso; la storia non è solo un riprodursi di cose in sé futili e prive di obiettivo. Vi è un segno che mostra qual è la finalità: il Cristo; l’elemento costituente di quel fine è Cristo che opera per mezzo della sua chiesa. Per tutto il corso della vita e della storia Dio ha sempre agito, tessendo un progetto e un fine preciso; quel fine è riassunto in una parola sola: il Cristo. Dio ci ha mostrato qual è l’adempimento del mistero nascosto da secoli nella mente di Dio … attuato in Cristo Gesù nostro Signore.  Oggi ci sono milioni di persone che hanno bisogno di conoscere la felice verità della Pasqua: che la perenne presenza del Signore vivente è con noi, nelle vostre pene e nel vostro dolore; nelle nostre paure e ansietà, nelle nostre delusioni, nella vostra solitudine come nelle nostre gioie.  In situazioni di assoluta disperazione quanti di noi cercano Gesù fra i morti? Quando la vita si fa difficile e dobbiamo affrontare l’ansietà; quando tutto sembra che vada storto; quando l’economia, il governo sono in crisi e la fede crolla; quando ci sono conflitti familiari e viviamo dolorosi rapporti di parentela; quando ci troviamo di fronte a difficoltà finanziarie, alla fame, alla povertà; quando siamo in lotta con i nostri figli per i loro atteggiamenti e le loro esigenze; quando perdiamo il lavoro e affrontiamo l’incertezza del vivere; quando la morte ci toglie un nostro caro o siamo costretti a separarci dai nostri cari – non ci domandiamo forse: – dove sei Gesù? Sei morto Gesù?  Nel Vangelo secondo Luca al capitolo 24, Luca prosegue nel raccontarci che, quello stesso pomeriggio, due discepoli erano in cammino da Gerusalemme verso un villaggio chiamato Emmaus. Andando per via parlavano con tristezza di ciò che era accaduto qualche giorno prima. Avevano le spalle curve. Camminavano come se avessero una palla di piombo ai piedi. È morto! Aveva promesso di essere il Messia che ci avrebbe salvato. “Ma adesso è morto: – così, come qualsiasi altro uomo” – esclamòil discepolo più giovane. “Ebbene, è morto. Aveva detto che avrebbe portato a compimento tutto ciò che i profeti hanno detto e che sarebbe risorto il terzo giorno. Ma adesso è morto” – gli rispose il discepolo più anziano di nome Cleopa. Mentre andavano così parlando uno straniero si unì a loro e domandò perché erano così tristi. Non si accorsero che era Gesù e gli dissero: “Sei uno straniero a Gerusalemme? Non sai cos’è successo in questi giorni? Quindi gli narrarono tutto ciò che avvenuto di Gesù di Nazareth: del processo, della crocifissione e della morte. Lo straniero disse loro: “Sciocchi e tardi di cuore alle parole dei profeti. Non sapevate che bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?” Essi non credevano: perché non vedevano con gli occhi della fede.  Si faceva scuro quando arrivarono a Emmaus ed essi invitarono lo straniero a restare con loro. Si sedettero per mangiare ed egli ruppe il pane, lo benedisse e lo diede loro. In quel momento i loro occhi si aprirono e riconobbero Gesù. Poi Egli scomparve dalla loro vista. Allora i discepoli decisero di tornare a Gerusalemme per dire agli altri che avevano visto Gesù e che era vivente.  La storia che Luca ci racconta nel Vangelo ci dice due cose. La prima, quale fosse la capacità di Gesù di dare senso alle cose. A questi discepoli l’intera situazione pareva priva di senso. Le loro speranze e i loro sogni si erano infranti. Dicevano: credevamo che avrebbe riscattato Israele; quelle erano le parole di persone la cui speranza era ormai morta e sepolta. Allora Gesù è andato da loro, ha parlato con loro e la loro tenebra si è tramutata in luce. Luca ci racconta questa scoperta sconvolgente: i loro occhi si aprirono e lo riconobbero.  Con gli occhi della fede i due discepoli sulla via di Emmaus poterono guardare Gesù negli occhi e riconoscerlo. Quando guardate negli occhi di Gesù anche voi scoprirete il senso della vita nel mezzo della crisi economica, della povertà, della fame e del non avere una dimora, dei fallimenti della politica, delle delusioni e dello smarrimento della fede. In secondo luogo, questo racconto ci dice anche in che modo si è fatto conoscere ai discepoli: rompendo il pane. Questo non era il sacramento. Era un comune pasto in una casa comune. Luca ci dice che mentre Gesù rompeva il pane, i loro occhi si aprirono e lo riconobbero. Cosa ha fatto sì che i loro occhi lo riconoscessero? Sono state le sue mani. Avevano visto Gesù rompere il pane tante volte quando era con loro. Secondo la tradizione della chiesa antica i due discepoli erano presenti quando Gesù moltiplicò i pani per dare cibo ai cinquemila. Quando Gesù rompeva il pane nella loro dimora vedevano le sue mani e lo riconoscevano. Avevano già visto le sue mani; erano le mani che toccavano i malati, gli zoppi e i ciechi: le mani che avevano lavato i piedi dei discepoli. Le mani che avevano rotto il pane alla festa annuale della pasqua ebraica la notte prima della sua morte. Vorrei chiudere con due storie personali che mi sono state di grande aiuto nel mio pellegrinaggio spirituale.  Agli inizi degli anni ’80 quando ero direttore del Consiglio delle Chiese del Sud Africa, ho visitato una baraccopoli nella regione orientale del Capo insieme ad un operatore per una indagine sulla povertà delle condizioni di vita degli africani neri sotto l’apartheid – condizioni di povertà le più deplorevoli in tutta l’Africa. In una di queste baracche una vecchia nonna (Gogo), che viveva con tre nipotini orfani, ci disse delle loro condizioni di vita, della povertà e di come lottasse per dare da mangiare e far crescere i bambini di cui si prendeva cura. Era l’ora di pranzo. Mentre ci preparavamo a pregare per poi dirle addio, ci disse: vi prego, condividete il pasto con noi. Ci siamo accorti che aveva mezzo filone di pane nero e una brocca d’acqua indolcita con un po’ di zucchero che aveva preparato per sé e per i bambini. Ci siamo guardati ed io, cortesemente, ho rifiutato. Allora la vecchia Gogo ha insistito: “è nostro costume africano che i nostri ospiti condividano il pasto con noi!. Abbiamo accettato. Eravamo in piedi, in cerchio. Abbiamo pregato. Lei ruppe il pane e a ciascuno di noi sei ne dette un pezzetto. Per me, quello è stato “il Sacramento”. Mi sono ricordato di un nostro inno metodista che dice così: “il Pane del cielo è dato in sacramento di vita”. Cristo rotto per noi in sacramento di vita. Nel condividere la povertà e la loro ospitalità, i poveri donano a noi la speranza nella disperazione. Nel 1983 ero al lavoro in un campo di re insediamento dove venivano sistemati i neri cacciati dalle loro case e dai loro villaggi, nella regione orientale del Capo. Il regime dell’apartheid trasferiva le comunità nere dalle città e dai luoghi dei bianchi in campi di re insediamento. Venivano costruite della case di una sola stanza, con il tetto di lamiera, per accogliere una famiglia intera. Non c’erano servizi igienici, niente acqua, niente negozi, cliniche o ospedali; niente scuole o chiese: la gente pregava nel culto sotto gli alberi e sul fianco della collina; dovevano coltivarsi un po’ di cibo nel piccolissimo terreno intorno alla casa. C’erano povertà, fame e sofferenza dappertutto. Ricordo di quando ero in piedi sotto un albero e parlavo con gli uomini del campo: si lamentavano di tutto: del governo dell’apartheid, dei loro capi africani, degli uomini disoccupati; dei bambini che non volevano andare a scuola perché la scuola più vicina era a cinquanta kilometri di distanza. Ma ciò di cui si lamentavano di più era che, anche avendo un po’ di suolo, mancavano di qualsiasi strumento per coltivare o far crescere l’erba per il pascolo di una mucca per avere latte e carne. Nel mezzo di tutte queste generali lamentele, un vecchio, che aveva circa 90 anni, disse: “Perché vi lamentate? Perché siete così abbattuti? Dio ci promette la pioggia per i nostri raccolti. Ci promette il sole per far maturare il raccolto. Ci dà la vita e la forza per piantare e raccogliere. Vediamo un po’ cosa siamo capaci noi di fare, avendo Dio al nostro fianco!” Il vecchio ricordò a tutti noi che, per passare dalla disperazione alla speranza, eravamo noi stessi che dovevamo fare qualcosa per cambiare la situazione o la crisi della nostra vita. Dobbiamo agire; abbiamo bisogno di cominciare con il poco che abbiamo e quando facciamo anche quel poco, Cristo agisce con noi e le peggiori situazioni cominciano a cambiare. La missione di Gesù è proclamare la buona notizia ai poveri (Mat.11,5; Lc.4,18). E’ ai poveri che il Regno dei cieli è proclamato. Il Regno dei cieli è loro. I poveri sono i disprezzati della società. Quando Gesù dice “benedetti siete voi poveri” (Lc. 6,20) parla di povertà materiale. Sono i poveri e gli oppressi del mondo che confessano la propria povertà e che si pongono davanti a Dio come poveri. I poveri sono affamati e assetati, sono nudi, malati e incarcerati. I poveri della Bibbia sono gli indifesi, gli oppressi, gli umiliati ed emarginati. Non è la natura che li ha messi in questa condizione, sono stati ingiustamente spogliati e impoveriti dai potenti: i poveri sono quelli che soffrono qualche genere di reale oppressione. Portano il peso del disprezzo pubblico e dell’aver perso la speranza della salvezza di Dio. Gesù denuncia i ricchi a causa del loro peccato contro il Regno di Dio (Lc. 6,24; 12,16; 12,31). Gesù considera un’ingiustizia che vi siano dei poveri e dei ricchi. Denuncia la situazione sociale di ingiustizia. Egli dice: dallo ai poveri (Mat. 19,21; Mc. 10,21; Lc.18,22). Oggi Gesù viene a noi: per toccarci nelle nostre gioie e nei nostri dispiaceri, nelle nostre solitudini e nel vostro dolore; nella nostra crisi economica e politica, nella nostra disperazione e mancanza di speranza. Prendiamo la sua mano e lasciamo che egli ci sollevi dal nostro abbattimento e ci doni la speranza. Il buio e il grigiore dell’inverno sono sempre seguiti dalla nuova vita della primavera. In Europa vi sono luoghi dove si conosce il freddo più pungente, Ma nella neve ci sono fiori che lottano per mostrarci la bellezza dei colori primaverili. Grazie alla fedeltà di Dio la primavera segue sempre l’inverno. La Pasqua viene dopo il venerdì santo. La SPERANZA segue la disperazione. Noi siamo il popolo dei ripartenti, quelli che cercano una nuova occasione: cogliamola, per non essere lasciati indietro nel nostro viaggio di fede e, come cristiani, abbandoniamo la disperazione e muoviamoci verso la speranza. Così come il Cristo si protende verso di noi con amore, anche noi protendiamoci verso di lui con fede. Che i nostri occhi si aprano alla sua risorta presenza, e così sia dei poveri e sofferenti in Africa come in tutto il mondo. Accogliamo con cuore grato i beni che ci vengono dal suo amore che ci redime. AMEN

Si ringraziano Mary Waite per la “traduzione simultanea” e la nostra predicatrice locale Febe Cavazzutti Rossi per la traduzione “su carta” del sermone.