Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 14 LUGLIO 2013 (Gv 18:33-38; testo di predicazione: Ef 2:19; Eb 13:14)

Cittadini del regno “altro”

Dei due popoli ne ha fatto uno solo

Accingendomi a preparare questa predicazione ho aperto, come faccio di solito, il lezionario Un giorno una parola alla data di oggi, per vedere quali fossero i testi indicati per il culto. Come sapete, però, il lezionario oltre ai testi espressamente intesi per il culto propone anche altri versetti biblici. Ebbene, da uno di questi versetti sono stata particolarmente colpita: è quello tratto dalla lettera agli Efesini, che ricorda come i cristiani non siano “più né stranieri né ospiti”, quindi gente di passaggio, in uno stato provvisorio e precario, bensì persone che hanno trovato una residenza stabile, sicura, eterna, la migliore che si possa desiderare, perché sono diventati “concittadini dei santi e membri della famiglia di Dio”. Un’unica grande famiglia, come spiega Paolo nei versetti precedenti; una famiglia “allargata”, potremmo dire usando un termine di attualità, e meravigliosamente allargata in quanto, “mediante il sangue di Cristo”, giudei e stranieri sono diventati un unico popolo; anzi, lo “straniero” proprio non esiste più, è una qualifica che a nessuno può essere più attribuita, dopo che Gesù Cristo “dei due popoli ne ha fatto uno solo e ha abbattuto il muro di separazione” (Ef 2: 11 sgg.). Si tratta di un versetto bellissimo, anche in considerazione del contesto al quale fa riferimento, e già questo potrebbe spiegare il fatto che abbia attirato la mia attenzione. Ma c’era una ragione in più, una ragione che non mi è risultata immediatamente chiarissima: questo versetto me ne richiamava un altro, ma quale? Alla fine, la risposta è arrivata quando il mio sguardo è caduto sul segnalibro del lezionario, segnalibro sul quale la Federazione delle chiese evangeliche in Italia ha fatto stampare il “versetto dell’anno” 2013. Questo versetto, tratto dalla lettera agli Ebrei, dice: “Perché non abbiamo quaggiù una città stabile, ma cerchiamo quella futura”. Ecco, era questo il versetto che mi era venuto istintivo collegare nella mia mente a quello della lettera agli Efesini. I due versetti, a prima vista, sembrerebbero quasi dire l’opposto. Scrivendo agli Efesini, Paolo mette l’accento sulla fine del pellegrinare, sulla meta finalmente raggiunta, sulla città che spalanca le sue porte, una città che è al tempo stesso cerchia familiare, grembo accogliente, comunità che trasmette un senso di appartenenza, di stabilità, di calore – che dona, soprattutto, un’identità a chi non l’ha mai avuta. Per l’autore della lettera agli Ebrei, invece, il viaggio è ancora in pieno svolgimento, l’itinerario è tutt’altro che concluso, la città è tuttora oggetto di ricerca, una ricerca piena di desiderio, illuminata dalla speranza, ma che si prevede ancora molto, molto lunga. Ho pensato, allora, che sarebbe stato interessante prendere entrambi questi versetti a base della riflessione che vi propongo oggi, e cercare di capire che cosa essi vogliono veramente dirci – o, meglio, che cosa essi vogliono veramente dire non tanto a noi, quanto di noi. Chi siamo – chi siamo chiamati ad essere? Come ci vuole il Signore: cittadini o pellegrini? Stanziali o viandanti? Come ci vuole il Signore? È questa, certo, la domanda fondamentale che dobbiamo porci e alla quale dobbiamo cercare di rispondere. Ma domandiamoci, intanto: noi, che cosa vogliamo essere, che cosa ci sentiamo? Entrambe le cose, direi: cittadini e pellegrini, stanziali e viandanti. La nostra civiltà è certamente di matrice sedentaria, tant’è vero che tende istintivamente a respingere, a rifiutare i nomadi che si accampano ai bordi delle nostre città. D’altra parte, mai come in questi tempi l’umanità si è fatta frenetica nel voler viaggiare, migrare, cercare; in senso fisico, materiale, ma anche in senso spirituale. Spesso questa irrequietezza interiore è solo segno di scontentezza, di insoddisfazione, di un’attesa frustrata; ma può anche essere un sintomo positivo, il segno della nostra incapacità di appiattirci su un’esistenza opaca e banale e il nostro continuo bisogno di cercare qualcosa di altro, di diverso, la nostra esigenza di metterci in movimento verso una meta che forse non abbiamo del tutto chiara nella mente, ma dalla quale ci attendiamo che dia un senso al nostro vivere. In questo caso – nel caso cioè in cui la nostra irrequietezza deriva dal fatto che non ci sentiamo appagati da ciò che ci circonda e, soprattutto, da ciò che noi stessi siamo – direi che ci troviamo in piena sintonia con quanto leggiamo nel versetto della lettera agli Ebrei. Tra parentesi, un’esortazione analoga la troviamo attribuita a Gesù in un vangelo apocrifo, quello che va sotto il nome dell’apostolo Tommaso: “Siate gente di passaggio”. Mi piace molto questa esortazione così straordinariamente incisiva e suggestiva, e mi sembra del tutto in linea con la predicazione di Gesù quale ci viene tramandata dai testi canonici. Il cristiano è viandante e pellegrino, dunque. Eppure, al tempo stesso, ci dice la lettera agli Efesini, il cristiano ha già concluso il suo viaggio, è già entrato nella città. Contraddizione, dunque? No, nessuna contraddizione. Due diverse angolature, piuttosto, di un’unica realtà: la realtà del regno, quel regno che Gesù è venuto ad annunciare. Il regno è una realtà che ha molti volti, ma che si caratterizza soprattutto per un tratto: è un regno che proviene da “altrove”. Così è solito parlarne Gesù. Così ne parla, in particolare, nel passo di Giovanni che abbiamo ascoltato, un passo drammatico che tutti noi conosciamo bene ma sul quale sarà il caso di soffermarci ancora una volta, perché ci può essere di aiuto nel nostro tentativo di comprendere che cosa significa essere viandanti e, al tempo stesso, stabili residenti. Il regno del quale Gesù è Signore è un regno che non segue le regole dei regni di questo mondo, né è ispirato dallo spirito che domina in essi. A Pilato, che rappresenta il regno di questo mondo, Gesù intende dire: “Il mio regno non è di questo mondo, ma è in questo mondo, e io sono nato per questo, per testimoniare in questo mondo di un regno che non è di questo mondo. Ma io lo testimonio davanti a te, lo porto di fronte a te, Pilato”. Gesù dice, in sostanza: “C’è un altro modo di essere re, è possibile un altro regno. E io sono nato per testimoniarlo, per portarlo, per introdurlo nella storia del mondo, che finora è andata invece in una maniera completamente diversa”. È come se ci fossero due regni contrapposti, in questo mondo: uno è quello del potere, l’altro quello della croce. Per Pilato, questa dichiarazione di Gesù, se solo avesse voluto e saputo ascoltarla davvero, avrebbe potuto aprire prospettive insospettate: dunque esiste un altro modo di regnare, il modo di Gesù; esiste un altro modello di regno, un regno dalle dimensioni inedite, “nuove” perché rispecchiano un “nuovo” criterio di regalità. Pilato, almeno per quanto ne sappiamo, non fu toccato dalle parole di Gesù, non fu nemmeno sfiorato dal sospetto che questo “nuovo” criterio di regalità, questo criterio di regalità “altro” potesse davvero esistere; ma, insieme a Pilato e dopo Pilato, ogni successiva generazione è chiamata (e, quindi, anche noi lo siamo) a confrontarsi con questa rivelazione: esiste un “nuovo”, un diverso modo di regnare, e si tratta di un “regnare” che significa dare la propria vita su una croce. Pilato siede su un trono; Gesù regnerà dalla croce, e prima sarà flagellato, insultato, oltraggiato. In fin dei conti, la parola chiave che contrappone i due regni è questa: verità. Pilato non sa che cos’è la verità; Gesù sì. L’antitesi, dunque, non è soltanto tra un regno del potere e un regno della croce; è anche tra un regno del potere e un regno della verità. E questa verità è “straniera” nel regno del potere, così come Gesù è “straniero” al potere in quanto ne rappresenta l’esatto opposto: non solo in questo momento in cui è “legato” (cfr. Gv 18: 24), impossibilitato a difendersi, a opporre la minima resistenza, ma in tutta la sua vita. Gesù non ha, non ha mai avuto nulla in comune con l’uomo di potere. Lo conferma anche qui, dinanzi a Pilato, allorché afferma: “per questo sono venuto nel mondo: per testimoniare della verità”. Per testimoniare: non per comandare, per imporre. Questa è una grande differenza dai regni e dai regnanti di questo mondo, che comandano, ordinano, impongono, mentre Gesù testimonia. Testimonia che cosa? La verità, appunto, ma non la sua verità, bensì la verità di Dio. Una verità di cui Gesù non si appropria, una verità alla quale Gesù non mette, per così dire, le mani addosso, proprio in quanto vuol essere e presentarsi come testimone, non come padrone della verità. Pensiamo soltanto a che cosa sarebbe stata la storia cristiana di questi duemila anni se si fosse svolta secondo il paradigma che qui Gesù indica, quello di essere semplicemente testimoni della verità e non di imporla. Pensiamo a che cosa sarebbe la nostra vita di cristiani ora, se noi sapessimo “testimoniare” la verità nel senso di viverla, di lasciarci abitare dalla verità, di diventare donne e uomini che la verità guida, ispira, fa vivere. Senza mai dimenticare che la nostra parola “martire” deriva da un vocabolo greco che significa “testimone”, e che la testimonianza può quindi talvolta identificarsi con quello che noi chiamiamo martirio. Anche questa possibilità fa parte del regno “altro”, del regno della verità che si identifica con il regno della croce. Dunque, alla domanda: chi siamo? Cittadini o pellegrini? Stanziali o viandanti?, sulla scorta di questo passo di Giovanni potremmo forse rispondere così: siamo entrambe le cose, abbiamo una doppia appartenenza, una provvisoria e una definitiva, e questo comporta una sfida che Gesù ci chiede di raccogliere. Viandanti nel regno del potere, siamo chiamati a vivere in questo regno da stranieri, in quanto (“mediante il sangue di Cristo”) siamo cittadini del regno “altro”, quello della croce e della verità. Impariamo dunque una buona volta, sorelle e fratelli, a essere stranieri – stranieri a ogni logica di potere, di sopraffazione, di intolleranza – per diventare davvero cittadini, per riscoprire la nostra vera identità di “concittadini dei santi e membri della famiglia di Dio”. Che il Signore ci guidi. Amen

Sermone a cura della nostra Pastora, Caterina Griffante