Sermone: Predicazione di Domenica 14 Ottobre – Giacomo 5, 13-16

La lettura per la predicazione è tratta dalla lettera di Giacomo. Una lettera preziosa proprio perché scomoda, perché mette dinanzi agli occhi del cristiano le esigenze concrete di una vera testimonianza di fede. Una lettera che non fa sconti a nessuno. Una lettera che ha posto in passato e tuttora pone qualche difficoltà al cristiano che si riconosca nella tradizione della Riforma. Perché in questi versetti vengono raccomandate pratiche come l’unzione degli infermi e la confessione privata dei peccati: pratiche, lo sappiamo bene, che sono state e sono per i protestanti oggetto di un secolare contenzioso con i cattolici, i quali hanno elevato entrambe alla dignità di sacramenti operando così una scelta dottrinale inaccettabile per il protestantesimo.

Quando ci si confronta con un passo biblico per farne oggetto di predicazione, la domanda è sempre: qual è il messaggio di salvezza, qual è l’Evangelo contenuto in questi versetti?   Leggiamola con attenzione: vediamo allora, innanzitutto, che il messaggio è qui veicolato da tre esortazioni che hanno un elemento in comune: la preghiera, sia essa preghiera di lode o preghiera di intercessione. Cominciamo allora a lasciarci interrogare dalla prima di queste esortazioni: pregare Dio nella sofferenza e “cantare inni”, cioè lodarlo, nella gioia. Si tratta di una regola da seguire nella propria vita di fede che non ha, in sé, nulla di nuovo: atteggiamenti di questo genere sono raccomandati da tutta la tradizione di spiritualità veterotestamentaria, nella quale Giacomo si inserisce pienamente.

Fermiamoci a riflettere, ponendoci questo solo interrogativo: quanto sarebbe diversa la nostra vita personale, e la vita delle nostre comunità, se ciascuno di noi prendesse sul serio questa prescrizione così ovvia? Se in ogni circostanza della nostra vita, triste o lieta, negativa o positiva, noi facessimo in primo luogo riferimento al Signore? Il fatto che questo comportamento noi dobbiamo presentarlo come ipotetico, che siamo costretti a dire “e se…?”, già la dice lunga sulla nostra condizione di credenti molto poco credenti. Porre sempre Dio al centro della propria vita dovrebbe essere non l’obbedienza a un precetto, ma un modo di essere del tutto naturale, spontaneo come il respiro: avere la certezza che in qualsiasi situazione noi abbiamo un interlocutore con il quale non dobbiamo, ma abbiamo la possibilità, abbiamo il dono, abbiamo il privilegio di condividere o la nostra sofferenza, rivolgendogli richiesta di aiuto e di sostegno, o la nostra gioia, lodandolo e ringraziandolo. Se – se! – fossimo credenti al punto di comportarci così, da avere con il Signore un rapporto tanto immediato, spontaneo, fiducioso, sono certa che la nostra vita individuale e comunitaria cambierebbe. Saremmo meno concentrati su noi stessi, e più pronti a cogliere ciò che Dio vuole comunicarci attraverso le alterne vicende della nostra vita.

Attraverso le vicende di ogni genere: positive o negative. Per chi ha fede, infatti, anche attraverso la malattia il Signore ci parla, ci vuole comunicare qualcosa. E la malattia è al centro della seconda esortazione, che sembra riferirsi a un ministero di assistenza spirituale ai malati svolto dagli anziani della comunità. Non si allude qui a persone dotate di quei “doni di guarigione per mezzo dello Spirito” che Paolo elenca tra i doni spirituali (1 Cor 12: 9); si vuol dire, semplicemente, che ai responsabili della comunità spetta il compito di visitare i malati, intervenendo su di loro e per loro con la preghiera e con l’unzione, unzione che è, in fondo, null’altro che una preghiera espressa in altra forma, una sorta di benedizione. Non credo si possa condividere la dottrina cattolica che attribuisce un carattere di “sacramentalità” a questo gesto. Penso, piuttosto, che venga indicata qui una delle modalità con le quali la comunità cristiana poteva fare sentire al fratello o alla sorella malati la propria solidarietà amorevole. Il motivo per cui Giacomo consiglia proprio l’unzione con olio sta probabilmente nel fatto che questa era una prassi molto usata, in vari contesti e con varie finalità, al tempo in cui veniva scritta questa lettera. Quanto a noi, direi che l’idea dell’unzione dovrebbe essere per le nostre chiese essenzialmente uno stimolo alla creatività, a inventare i modi più opportuni e più indicati – che possono variare a seconda dei luoghi, dei tempi, delle consuetudini – per testimoniare in concreto la nostra vicinanza a chi è malato.

Dobbiamo essere molto decisi, sorelle e fratelli, nell’affermare che la fede del singolo e della comunità si mette alla prova proprio in circostanze di questo genere. La vocazione cristiana non consente di trascurare i malati, o di occuparsene solo a parole. Nelle nostre chiese il pastore è solito visitare gli infermi; ma questo compito non dovrebbe essere riservato al solo pastore, dovrebbe essere esteso al consiglio di chiesa o, meglio, alla comunità nel suo insieme. E, anche se certamente non tutti i membri di chiesa possono aver modo di visitare materialmente il malato, credo che tutti dovrebbero essere coinvolti nella preghiera e anche nella ricerca di qualche equivalente dell’“unzione con olio”: di qualche gesto che riesca a farlo sentire veramente oggetto di amore, da parte di Dio e da parte della chiesa e che lo aiuti al tempo stesso a riflettere, a concentrarsi per cercare di capire che cosa Dio vuole dirgli attraverso questa esperienza.

Perché anche per i più fervidi credenti la reazione più comune, in caso di malattia grave, è quella di abbattersi, di disperarsi o di abbandonarsi al risentimento (“perché capita proprio a me? che cosa ho fatto di tanto male da meritarmelo?”).  È da sperare che chi visita i malati non ricorra a sciocche frasi fatte tipo “Coraggio, vedrai che tutto andrà per il meglio, l’erba cattiva non muore”, e nemmeno alla frase forse ancora peggiore, perché quasi blasfema: “Il Signore vuole metterti alla prova”. No: l’infermo ha bisogno di essere “unto con l’olio” di una fede piena di amore, sincera e umile, che non pretende di cercare di spiegare ciò che è umanamente inspiegabile, ma semplicemente di aiutare chi soffre a capire che Dio non ci manda, ma si serve della malattia per chiederci qualcosa: un’intuizione, un cambiamento; e che una guarigione è anche una guarigione interiore, legata a qualcosa che avviene dentro di noi. Difficile? Sì, certamente è difficile; e chi l’ha mai detto che mettere in pratica la fede sia facile? Ma forse, tanto per cominciare, basterebbe proporre al malato il versetto di Ger 17: 14. Recitarlo con fede insieme a lui o a lei, e lasciare poi la Parola libera di agire.

Che il tempo della malattia possa essere per chi lo attraversa un tempo prezioso di riflessione e di mutamento interiore, in una parola di “conversione”, è confermato dallo stesso Giacomo, allorché afferma che grazie alla preghiera degli anziani della chiesa non solo il Signore ristabilirà in salute il malato, ma ne perdonerà i peccati. Per vie misteriose, dunque, alla guarigione dalla malattia è strettamente associata la guarigione dal peccato. E appunto il tema del perdono è al centro della terza esortazione: l’invito ai membri della comunità di fede a confessarsi reciprocamente i peccati, aiutandosi l’un l’altro con la preghiera. La confessione privata e personale dei peccati è un argomento quanto mai ostico a orecchie protestanti. Eppure tanti esponenti di primissimo piano della Riforma, da Lutero a Calvino fino a Bonhoeffer, pur respingendo il concetto cattolico-romano di confessione come pratica obbligatoria hanno messo in evidenza l’utilità della confessione privata, non necessariamente a un ministro del culto. Questa terza esortazione di Giacomo va presa estremamente sul serio: pensiamo a quanto sarebbe di aiuto per una coscienza tormentata poter prendere le distanze dal proprio peccato enunciandolo a voce alta, poter ricevere da un fratello o da una sorella di chiesa l’annuncio del perdono. Ma questa che chiamerei “reciproca cura d’anime” può verificarsi solo in una comunità che sia, a sua volta, una comunità davvero “guarita”, davvero “convertita”. Esiste all’interno della nostra comunità tanto amore fraterno, tanta fiducia reciproca, tanto disinteressato spirito di servizio, tanta saggezza spirituale da rendere anche solo lontanamente immaginabile la prassi della confessione privata? Lasciamoci con questo interrogativo; ciascuno, nel proprio cuore e in tutta sincerità, dia la risposta. Amen.