Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 16 DICEMBRE 2012 (Is 40:1-8; Mt 11:2-6, 1 Cor 4:1-5)

“Consolate, consolate il mio popolo”

Com’è bello questo versetto tratto dal libro del cosiddetto terzo Isaia che parla di consolazione, ma non di natura umana. No, qui è Dio stesso che dà ordine di consolare il suo popolo. A chi lo dà, questo ordine? Vari esegeti rispondono: alle schiere celesti, alle moltitudini angeliche al servizio del Signore; e anche questo è bello, perché allude a un universo animato da infinite energie spirituali tutte mobilitate nello svolgere il ministero della consolazione a beneficio di quel popolo misero e peccatore, che pure il Signore chiama il suo popolo.

“Consolate”. Non è però questa la traduzione più precisa del verbo ebraico, che significa piuttosto “prendere forza”, “confortare” nel senso etimologico del termine. Ciò che Dio vuole per il suo popolo è dunque che questo popolo si alzi e si metta in cammino. Dio vuole dare una scossa a questo popolo inerte e pertanto vuole che il messaggio raggiunga non le orecchie, bensì il cuore di Gerusalemme: il suo nucleo vitale, la sua intimità più profonda. Abbattuto, avvilito dalla lunga schiavitù babilonese, disgregato, privato delle proprie istituzioni, della propria stessa identità, il popolo di Israele deve ora acquistare consapevolezza che, per volontà del Signore, questo stato di cose è finito, “che il tempo della sua schiavitù è compiuto”.

Questo annuncio di liberazione rivolto a Israele tocca nel profondo ciascuno di noi. Chi di noi non ha bisogno di consolazione e di conforto – se non personalmente, quanto meno in una situazione collettiva come quella che stiamo vivendo? Si tratta di una situazione che genera inquietudine, apprensione, anche desolazione: per le difficoltà concrete del presente, per l’incertezza del futuro, ma anche e soprattutto, per la grave condizione di degrado morale, culturale, spirituale nel quale versa il nostro Paese. Siamo anche noi, sotto tanti aspetti, schiavi; legati a catene che, se in parte ci vengono imposte da strutture e da realtà sulle quali non abbiamo alcun potere, in parte siamo stati invece noi stessi a forgiarci. Ecco perché siamo assetati di parole di conforto. Parole che non siano superficiali, illusorie; di queste ne abbiamo sentite e continuiamo a sentirne fin troppe. Sappiamo bene di dover sempre stare in guardia da coloro che la Scrittura denuncia come falsi profeti, falsi appunto in quanto annunciatori di false sicurezze (cfr. Ger 6: 13-14; Ez 13). La consolazione fallace è moneta corrente; la consolazione vera è rara e a volte sembra davvero introvabile. La Scrittura registra senza reticenze questo dato di fatto: Qohelet ricorda “le lacrime degli oppressi, i quali non hanno chi li consoli” (Ec 4: 1); nel libro delle Lamentazioni si constata che “[Gerusalemme] fra tutti i suoi amanti non ha chi la consoli” (Lam 1: 2).

Ma la stessa Scrittura registra anche parole di consolazione/conforto autorevoli come questa di cui si fa interprete Isaia: parola autorevole perché pronunciata da Dio, e perché non si tratta di consolazione a buon mercato. Essa può infatti venire offerta da Dio solo dopo che è stato ristabilito il giusto rapporto tra Israele e il suo Dio, dopo che il debito di Israele è stato pagato. È così che Israele può rialzarsi, mettersi in marcia, continuare il cammino. E lungo questo cammino incontrerà il Signore. Questo lo annuncia una voce, “la voce di uno che grida”: forse il profeta stesso, ma l’identificazione della “voce” non ha molta importanza. Importante è ciò che la voce grida. La voce grida che il Signore si farà incontrare lungo una strada aperta nel deserto, una strada costruita appianando ogni dislivello, una strada pianeggiante e rettilinea. Una strada che deve consentire a chi ritorna da Babilonia a Gerusalemme di andare in processione festosa, senza fatica e senza deviazioni, con gioia, verso il Signore; ma è, allo stesso tempo, una strada preparata per il Signore, una strada nella quale risplenda e si manifesti al mondo intero la sua gloria. Questo è il compito al quale è chiamata Israele: eliminare tutti gli ostacoli alla costruzione di quella che deve essere “la via del Signore”.

Una via che va costruita nel deserto, nei luoghi aridi. Anche questa immagine simbolica, pur venendo da una cultura e da un’epoca così lontane da noi, pur appartenendo a un linguaggio che non è il nostro, ci coinvolge direttamente e profondamente: perché ciascuno di noi sa benissimo che “deserto”, “luogo arido”, è molto spesso il nostro cuore che, come quello di Gerusalemme, ha un disperato bisogno di conforto. E “deserto”, “luogo arido”, bisognoso di consolazione e di conforto che lo rendano verde e fertile, è molto spesso anche il mondo, la società intorno a noi. Ma perché i nostri luoghi aridi, individuali e collettivi, vengano irrigati e resi verdi e fertili, è necessario obbedire alla chiamata di questa voce che grida esortandoci a preparare la via, ad appianare le nostre asperità così da renderci disponibili alla sua venuta. Il “come” concretamente realizzare questo ci viene suggerito da Paolo allorché esorta i Corinzi a essere fedeli amministratori dei misteri di Dio. Il che altro non significa se non annunciare e testimoniare con la nostra vita il progetto di Dio, che è un progetto di salvezza e di liberazione, quindi di consolazione, nei confronti dell’umanità intera.

Una testimonianza tale da far intravedere qualcosa del regno che viene. Nel vangelo di Matteo, la predicazione di Gesù è accompagnata da fenomeni prodigiosi quali la guarigione da malattie e da disabilità, addirittura la risurrezione dalla morte – e poi quello che è l’evento più straordinario di tutti, una buona notizia annunciata ai poveri. Nel Nuovo Testamento i poveri sono sì coloro che non hanno abbondanza di beni materiali, ma sono soprattutto coloro che sanno di non essere autosufficienti, che sentono dentro di sé dei vuoti da colmare, che si sentono “luoghi aridi” bisognosi di pioggia, per usare il linguaggio di Isaia; che sentono la necessità di essere confortati. In quanto tali, sono aperti ad accogliere il lieto annuncio della grazia e del regno. Ecco: direi che essere “fedeli amministratori” significa fare nostro questo atteggiamento di apertura, accogliere l’Evangelo non però per tenerlo per noi, ma per testimoniarlo ad altri “poveri” come noi. Questo deve essere il nostro impegno; a noi – ci ricorda Paolo – spetta eseguire il compito, non valutare, giudicare i risultati. Non solo perché questo compete a Dio e non a noi, ma perché non saremmo in grado di farlo: troppe cose, in questa vita, restano per noi oscure e nascoste. Ma su una cosa possiamo essere tranquilli: se saremo amministratori fedeli, i risultati ci saranno, anche se forse noi non ce ne renderemo conto. E questi risultati si possono sintetizzare così: far sbocciare potenzialità di vita là dove, all’apparenza, sembra regnare solo la morte.

Far sbocciare la vita? Ma il destino finale di ogni essere umano non è forse la morte? Questo è ciò che grida un’altra anonima “voce” nei versetti di Isaia, in un dialogo serrato del quale è difficile riuscire a identificare gli interlocutori. All’annuncio della consolazione, all’annuncio della costruzione della strada, segue adesso un terzo annuncio che altro non è se non una amara constatazione del carattere effimero, transitorio della natura umana e di tutto ciò che riguarda l’essere e l’agire umano: “ogni carne è come l’erba […] tutta la sua grazia è come il fiore del campo”. Immagini di straordinaria suggestione e, al tempo stesso, inesorabili. Di ciò che è “carne”, cioè umano, nulla si salverà, nulla sopravviverà. Anche questa immagine è ricorrente nella Scrittura; il terzo Isaia la ripropone più avanti, in un versetto in cui Dio si presenta nuovamente come unico sicuro e affidabile consolatore di Israele “Io, io sono colui che vi consola; chi sei tu che temi l’uomo che deve morire, il figlio dell’uomo che passerà come l’erba?” (Is 51: 12). Qui, però, la caducità umana che Dio mette in risalto è quella dei nemici di Israele: usando un linguaggio colloquiale, potremmo dire che destinati a scomparire nel nulla sono i “cattivi”. Nel passo di Isaia sul quale stiamo riflettendo, invece, è proprio di Israele che si parla, del popolo del Signore, di quel popolo che il Signore stesso ha appena dichiarato di voler confortare. Anche quel popolo amato e privilegiato finirà come erba che appassisce, buona solo per essere gettata nel fuoco.

Per noi, questo memento mori può suonare angoscioso, quasi insopportabile; sì, anche per noi cristiani, sebbene la nostra fede ci insegni che l’ultima parola non spetta alla morte. Eppure credo sia salutare anche per noi essere costretti a ricordare che tutti gli esseri umani si trovano accomunati dalla condizione di “erba”, e che a tale condizione può sottrarsi soltanto chi apre il suo cuore a Dio, lasciandosi confortare da Lui, trovando cioè in Lui e in Lui soltanto la sua forza, nella consapevolezza, ribadita da Isaia, che l’unica realtà che non verrà mai meno è la parola del Signore. Per il resto, non è certo questa la sede per discutere (lo si potrebbe fare a lungo) su ciò che la morte significava per l’antico Israele e su ciò che significa per noi cristiani. Preferisco affidare alla vostra riflessione questa espressione di Karl Barth: “l’uomo come tale non ha alcun aldilà, non ha bisogno di averne, perché Dio è il suo aldilà”. Una sorta di traduzione, in linguaggio moderno, del “grido” di Isaia, che si risolve in un meraviglioso invito a concentrarci non sulla paura di morire, bensì sulla responsabilità di vivere.

(Sermone a cura della nostra Pastora, Caterina Griffante)