Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 17 FEBBRAIO 2013 (Is 61:1-2; Gv 8:31-32; Gal 5: 13 testo di predicazione)

17 FEBBRAIO: FESTA DI LIBERTA’

“La Libertà vi farà liberi” (Gv 8:32)

Proprio di domenica cade quest’anno la ricorrenza del giorno, 17 febbraio 1848, in cui re Carlo Alberto dichiarava i valdesi “ammessi a godere di tutti i diritti civili e politici de’ nostri sudditi, a frequentare le scuole dentro e fuori delle Università, ed a conseguire i gradi accademici”. Diritti civili e politici ai valdesi e tolleranza per il loro culto: nozioni scontate e superate per noi, ma che all’epoca significarono la fine di una plurisecolare emarginazione e aprirono la strada a ulteriori conquiste future. La corretta definizione di questo evento è “Emancipazione dei valdesi”, ma nell’uso corrente si è soliti parlare del 17 febbraio come di “Festa della libertà valdese”: una festa che ormai è stata fatta propria anche dai metodisti e da tutto il protestantesimo “storico” italiano che in questa occasione si sente sollecitato a riflettere sulla propria storia, rileggendola nell’ottica che è propria di tutto il protestantesimo: l’ottica, appunto, della libertà. È ciò che mi propongo e che vi propongo per questa specialissima domenica: riflettere sul rapporto inscindibile, indissolubile, tra protestantesimo e libertà, tra cristianesimo e libertà. E a questo scopo nessun testo biblico può farci da guida meglio di quel vero e proprio “manifesto della libertà cristiana” che è la lettera ai Galati, della quale ho scelto un solo, ma densissimo, versetto. Che cosa ci dice questo versetto? Ci dice, in primo luogo, che essere cristiani vuol dire essere liberi, ma che in particolare essere protestanti vuol dire essere liberi. Perché questa identità tra cristianesimo e libertà che nella Chiesa era ormai da secoli offuscata, per non dire sepolta, è stata prepotentemente riportata alla luce da Lutero. Liberare le coscienze e dare loro, per fede, la certezza della grazia: questo è stato il grande dono di quel grande movimento di liberazione che è stata la Riforma. Recentemente Fulvio Ferrario, docente di teologia sistematica alla Facoltà Valdese di Teologia, in un bell’intervento sul tema La Chiesa cattolica e il Cinquecentenario della Riforma protestante ha dichiarato di dovere, come protestante, “gratitudine a Dio per il dono della Riforma: per il dono di una fede vissuta, per quanto indegnamente, nel segno della libertà”. Essere protestante vuol dire assumere, in modo cosciente e coerente, la responsabilità, il peso, il rischio e la gioia della libertà. “Libertà” è parola affascinante, che trova in ogni essere umano un’eco immediata e profonda; una parola che risveglia l’essere umano, lo suscita alla vita. Ma qui appare una grossa contraddizione: se da un lato la libertà corrisponde a un’esigenza insopprimibile dell’essere umano, gli è essenziale, vitale, d’altro lato essa comporta responsabilità e doveri talvolta difficili da reggere. La libertà non rende più facile la vita umana. Ecco perché l’essere umano non può vivere senza la libertà, ma non sa vivere con la libertà; ama la libertà, ma è inadeguato alla libertà, ne ha anzi un’inconfessata paura. Per questo la libertà è così scarsa e precaria nel nostro mondo. Allora, dov’è l’essere umano veramente libero? Dov’è il mondo veramente libero? Dov’è la Chiesa veramente libera? Se cerchiamo una risposta in questo versetto della lettera ai Galati, ci troviamo di fronte a un discorso sulla libertà davvero sorprendente. La prima sorpresa ci coglie appena iniziato il testo: “Perché, fratelli, voi siete stati chiamati a libertà”. Perché deve essere chiamato alla libertà, l’essere umano? Non è forse libero? Proprio questa è la prima cosa che il testo ci chiede: che consideriamo e viviamo la libertà non come qualcosa di scontato, ma come una domanda che ci interpella, come un problema aperto. Io sono chiamata alla libertà. Ma allora, questo significa che forse non sono così libera come credo. In effetti, la Bibbia non mi annuncia: sorella, tu sei libera. Mi dice, prudentemente: sorella, tu sei chiamata alla libertà. La libertà è ancora davanti a te. È la tua mèta, il tuo avvenire, il tuo compimento, il tuo destino. È esterna a te. Tu non possiedi la libertà, tu vai verso la libertà; la libertà è la tua vocazione. E chi ti chiama alla libertà? Dio, dice la Bibbia – tutta la Bibbia, per esempio i versetti di Isaia che abbiamo ascoltato. Anche questo ci sorprende, perché nel comune modo di pensare di coloro che sono scettici nei confronti della religione, ma anche di tanti credenti, Dio è considerato il limite piuttosto che la sorgente della libertà. E invece, Dio ama la nostra libertà più di quanto la amiamo noi. Egli è libero, e desidera che lo seguiamo come esseri umani liberi. Perciò ci chiama alla libertà. È un appello, non un comando, perché nessuno può essere forzato alla libertà. Rispondere all’appello di Dio alla libertà e riecheggiarlo, renderlo “buona notizia” per gli umili, gli infelici, gli schiavi e i prigionieri, come dice Isaia: ecco cosa vuol dire essere protestanti. Risuona, questo appello, nella Chiesa di oggi? Non sembra. Non certo nella Chiesa romana, che sembra aver quasi paura della libertà, che della libertà evidenzia sempre i rischi anziché i benefici. Per quanto riguarda le Chiese protestanti, a cominciare dalla nostra, forse non vi troviamo altrettanta paura della libertà; vi troviamo piuttosto ciò che chiamerei una libertà non messa in pratica, una libertà ignorata, trascurata, accantonata. Ebbene, essere protestanti vuol dire riscoprire e praticare la libertà. È appunto ciò che intende Paolo quando prosegue dicendo: “non fate della libertà un’occasione per vivere secondo la carne”. Anche questo ci sorprende: che cosa intende dire l’apostolo? Intende dire che siamo chiamati non a lodare la libertà, ma a usarla. Perché l’uomo è libero soltanto quando applica la propria libertà. L’uomo non libero non è quello che non ha libertà, ma quello che non la usa. Una libertà non utilizzata diventa presto ciò che potremmo definire una libertà arrugginita, una libertà ammuffita; il che equivale a una libertà perduta. Perciò alla domanda: che vuol dire essere protestanti? risponderemmo così: vuol dire non tanto esaltare la libertà, ma praticarla. Il rischio peggiore per la Chiesa protestante oggi non è una carenza di libertà, ma una carenza nell’uso della libertà. Ma come la si deve usare, questa libertà? Risposta di Paolo: non in modo da “vivere secondo la carne”. In sostanza, si può dire che “vivere secondo la carne” significa vivere secondo qualcosa di diverso dalla croce di Cristo. Dove regna la “carne”, cioè il criterio umano, sparisce la croce. Un cristianesimo “carnale” passa accanto alla croce e non porta la propria croce, è insomma un cristianesimo senza croce. Il retto uso della libertà è quello che dà spazio alla croce di Cristo; vorrei dire che la croce è l’altra faccia della libertà. Questo, secondo me, lo si verifica soprattutto nel rapporto tra libertà e verità. Spesso noi tendiamo a tacere o a sorvolare sulle verità in qualche modo sgradevoli. Sulle verità che potrebbero creare attriti o disagi con l’interlocutore, con chi ci sta vicino: nel dialogo ecumenico, per esempio, si tacciono molte cose, molti pensieri non vengono esternati. La croce della verità viene evitata, si preferisce la pace della mezza verità. Ebbene, che vuol dire essere protestanti? Vuol dire condurre il dialogo ecumenico in modo tale che al di sopra delle verità confessionali sia messa in luce la verità dell’Evangelo. Perché “la verità vi farà liberi”: lo abbiamo ascoltato nel vangelo di Giovanni. Chi si accontenta di mezze verità è libero solo a metà. Ma questo non vale soltanto nel dialogo ecumenico. Vale, per esempio, anche nel rapporto dei cristiani e delle Chiese con le potenze e con i potenti del mondo, o anche, molto più semplicemente, nel rapporto con la mentalità, le opinioni, i pregiudizi della società che ci circonda. Chi, in nome appunto della verità dell’Evangelo, obietta, contraddice, non segue la corrente, dovrà in qualche modo soffrire, andare incontro alla croce. Che cosa richiede, allora, l’essere protestanti? Richiede che alla verità dell’Evangelo venga data la precedenza su ogni criterio mondano. E ancora: liberi lo si diventa davvero se siamo disposti ad applicare la verità evangelica anche e innanzitutto nei confronti di noi stessi. Essere protestanti significa riuscire a lasciar cadere le immagini false e idolatriche che abbiamo costruito di noi stessi, e guardarci allo specchio alla luce del solo Evangelo. Continua Paolo: “ma per mezzo dell’amore servite gli uni agli altri”. Il servizio è la più alta realizzazione della libertà, e l’amore è l’humus da cui nasce la libertà. Che cosa significa “servite gli uni agli altri”? Questa esortazione si può leggere con due accentuazioni. La prima: “l’uno serva l’altro” e viceversa. Viene così espressa la reciprocità sostanziale della libertà cristiana. La libertà è reale soltanto quando è reciproca, cioè quando è uguale per tutti. Io non sono libero se tu non lo sei. Se la mia libertà comporta la tua schiavitù, non è una libertà genuina. O siamo tutti uguali nella libertà, o siamo, tutti, non veramente liberi. La libertà evangelica non è una libertà sotto l’altro (che è, in fondo, la libertà nella concezione cattolica) ma con l’altro. Essere protestante vuol dire realizzare la reciprocità della libertà in modo tale che la libertà dell’uno possa essere scambiata con quella dell’altro. Seconda accentuazione: “l’uno deve servire l’altro”. Il teologo valdese Paolo Ricca negli ultimi tempi ha molto riflettuto sul concetto di “servizio” in senso evangelico, e di questa parola, “servire” (che a noi può suonare sospetta, o quanto meno difficile da accogliere) ha dato una volta questa definizione, che a me sembra molto felice: “servire significa aiutare a vivere, e a sperimentare un po’ di felicità”. E poi ha soggiunto: “il servizio più alto che si può rendere all’altro, è mettersi al servizio della sua libertà”. Dunque, a questo siamo chiamati: a servire alla libertà degli altri. Non a godere privatamente la nostra libertà, ma a considerarla e a viverla come servizio reso alla libertà dell’altro. Questo è essere protestanti. Solo se ne saremo consapevoli, e cercheremo di agire di conseguenza, celebreremo degnamente la festa di oggi, la festa del 17 febbraio, la festa della libertà.

(Predicazione a cura della nostra Pastora, Caterina Griffante)