Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 19 MAGGIO 2013 (PENTECOSTE) (Gv 15:26-27; At 2:1-13. Testo di predicazione: Num 11:4-6, 10-11,16-17, 24-29)

LA LIBERTA’ E’ SCOMODA

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È un momento alquanto critico quello di cui qui racconta il libro dei Numeri. Siamo nel secondo anno dall’uscita dal paese d’Egitto del popolo di Israele, che sta attraversando il deserto del Sinai guidato dal Signore sotto forma di nuvola. Ma nell’accampamento degli israeliti c’è un clima di tensione, di insofferenza non solo contro Mosè, ma contro il Signore stesso, che per mezzo di Mosè ha sottratto i figli di Israele a una condizione subalterna, ma pur sempre di relativa sicurezza e tranquillità qual era la schiavitù in Egitto, per spingerli su una via di libertà che si profila piena di disagi e di pericoli. Di una libertà di questo genere, il popolo alla fine non sa che farsene; è stanco, esasperato di questo viaggio faticoso verso una terra promessa che ancora non si profila all’orizzonte, e chissà poi se esiste davvero. Il cap. 11 si apre appunto su questo scenario di generale scontento, su questo coro di lamentele e di recriminazioni: già il primo versetto informa che “il popolo cominciò a mormorare in modo irriverente alle orecchie del Signore”. E poco dopo, ecco mettersi a piagnucolare “l’accozzaglia di gente raccogliticcia che era tra il popolo”. I versetti che seguono mostrano che questi piagnucoloni sono seccanti, ma oltremodo meticolosi: sanno elencare con estrema precisione – perché ne hanno una grande nostalgia – quel cibo di cui si nutrivano a volontà in Egitto, quel cibo tanto più vario e gustoso dell’insipida manna, che una volta cucinata “aveva il sapore di una focaccia all’olio” (Num 11: 8). Non ne possono più, gli israeliti, di questa manna; e non ne possono più di quel dono non richiesto che appare loro deludente non meno della manna, il dono della libertà. In questo clima di nervosismo collettivo, anche a Mosè saltano i nervi, tanto che anche lui rivolge a sua volta una protesta al Signore rinfacciandogli di avergli affidato un incarico troppo pesante, che Mosè non si era certo andato a cercare: condurre in salvo fino al paese promesso tutto un popolo e intanto averne cura, di questo popolo che è come un bambino, indifeso e capriccioso. Mosè si sente così sfinito, e così disperatamente solo, da lasciarsi andare a parlare al Signore senza tanti complimenti e senza giri di parole: “Sei tu, Signore, che mi hai cacciato in questo guaio”, dice in sostanza Mosè, “e ora è compito tuo venirmi in aiuto, perché da solo io proprio non ce la faccio”. Dio stesso sembra controllarsi a fatica: all’inizio del capitolo ha dato libero sfogo alla sua ira contro i figli di Israele, addirittura incendiando parte del loro accampamento (Num 11: 1), e adesso di nuovo “la sua ira si accese gravemente” (Num 11: 10). Eppure questa volta non punisce il suo popolo e nemmeno rimprovera Mosè, che pure gli parla con tanta libertà. La sua risposta è sorprendente: il Signore si manifesta donando il suo Spirito. Lo dona in un modo singolare, molto bello: condividendolo, distribuendolo. Chi sono i destinatari di questo dono? Sono i settanta collaboratori che il Signore dà a Mosè affinché condividano con lui “il carico del popolo” (v. 17), in modo che Mosè non debba più patire quella sofferenza tremenda che è la solitudine, una sofferenza che tanto spesso accompagna le mansioni di alta responsabilità. Ed è bello vedere come procede il Signore: “prende lo Spirito” che è su Mosè e lo mette sui settanta anziani. È come una candela che accende altre candele, trasmettendo loro la propria fiamma. Condivisione dello Spirito, per consentire la condivisione dei pesi del lavoro. E qual è il primo atto che vediamo questi anziani compiere sotto l’impulso dello Spirito? Non li vediamo occuparsi insieme a Mosè di questioni organizzative, che pure, come si è visto, richiedevano attenzione con estrema urgenza; no, li vediamo profetizzare. E sappiamo che nella Bibbia il profeta è colui che sa decifrare la volontà di Dio, che annuncia questa volontà al popolo affinché la esegua, e la esegua con gioia, cantando la gloria di Dio. Questi settanta anziani divenuti profeti invitano dunque i figli di Israele a prendere sul serio la promessa che un giorno hanno accettato; invitano “l’accozzaglia di gente raccogliticcia” a convertirsi al Dio vivente, a permettere a Dio di trasformarla in un popolo. Dopo un po’, tuttavia, i settanta smettono di profetizzare. Eppure lo Spirito non smette di agire, e lo fa, ancora una volta, in modo sorprendente. Ci sono due uomini, Eldad e Medad, che “erano fra i settanta” ma non sono andati con gli altri davanti alla “tenda”: sono rimasti nel campo. Ebbene, proprio lì nel campo lo Spirito li raggiunge, raggiunge anche loro senza nemmeno servirsi dell’intermediazione di Mosè, ed essi profetizzano con la stessa potenza degli altri. La cosa però non piace a tutti. Accanto a Mosè c’è un “giovane rampante”, Giosuè, il quale sa che presto o tardi Mosè dovrà pur morire, e allora toccherà a lui di fare il capo. La sua carriera è però garantita solo se il prestigio di Mosè rimane intatto, ma questi due profeti irregolari nuocciono alla sua autorità. È meglio zittirli finché si è in tempo. E, come è sorprendente e bellissima l’azione di Dio, anche la risposta di Mosè è sorprendente e bellissima: “Oh, fossero pure tutti profeti nel popolo del Signore, e volesse il Signore mettere su di loro il suo Spirito!”. Cara comunità, caro Daniele che oggi di questa comunità entri ufficialmente a far parte, mi sembra che questo testo che viene a noi da tempi tanto antichi presenti dei tratti di straordinaria attualità, validi per la nostra chiesa, validi per qualsiasi chiesa. Un’accozzaglia di gente che mormora in modo irriverente, che piagnucola… Certo non è un modo convenzionale di descrivere una comunità di credenti. Qualcuno potrebbe anche trovarlo offensivo. Spero che nessuno di voi si offenda; ma se qualcuno si offende, pazienza. Perché di questo dobbiamo essere ben consapevoli: tutta la nostra chiesa è un’accozzaglia di gente raccogliticcia. Dobbiamo esserne consapevoli noi, devi esserne consapevole tu, Daniele: in questa chiesa della quale hai chiesto di entrare a far parte non ci sono eroiche figure di testimoni della fede, ci sono – a cominciare dalla pastora – persone comunissime, facili a lamentarsi e a recriminare assai più che a lodare il Signore, persone che spesso si sentirebbero molto sollevate se potessero scambiare con una comoda e dorata schiavitù in Egitto quella difficile, faticosa libertà che Dio ci ha donato nella persona del Suo Figlio, quella libertà alla quale Lutero ha richiamato la chiesa del suo tempo e di tutti i tempi. Sì, siamo proprio un’accozzaglia, perché siamo una comunità quanto mai eterogenea, e un’accozzaglia raccogliticcia per giunta, perché a questa chiesa siamo approdati per le vie più svariate, a volte addirittura quasi per caso. E questa, badate bene, non è una caratteristica esclusiva della nostra chiesa di Padova: no, tutte le nostre chiese, direi tutte le chiese cristiane sono “accozzaglie di gente raccogliticcia”. A ben guardare, del resto, quale comunità si può definire “accozzaglia raccogliticcia” più di quella massa di persone di cui ci narra il libro degli Atti: persone convenute a Gerusalemme più o meno da tutto il mondo allora conosciuto, da “ogni nazione che è sotto il cielo”, ciascuna delle quali nel giorno di Pentecoste udì i discepoli parlare nella sua lingua? La comunità dei credenti, la chiesa, non siamo noi a farla, non siamo noi a costruircela su misura – sulla nostra misura, e dobbiamo aggiungere: grazie al cielo; la comunità dei credenti, è lo Spirito del Signore a crearla. Guai a noi se non manteniamo sempre la consapevolezza di essere, per natura nostra, null’altro che un’accozzaglia raccogliticcia, e di poterci dire chiesa, di poter essere chiesa, solo per il dono gratuito che il Signore ci fa del suo Spirito. La chiesa è la comunità di coloro che professano “Gesù è il Signore”, e possono fare questa professione di fede, possono rendere questa testimonianza (come dice Gesù nei versetti di Giovanni che abbiamo ascoltato), perché lo Spirito del Signore è sceso su di loro, è con loro. A chi dobbiamo offrirla, la nostra testimonianza? A coloro che ne hanno bisogno. E chi sono coloro che ne hanno bisogno? Sono, in primo luogo, le nostre sorelle e i nostri fratelli di fede, perché la chiesa muore, si estingue come una fiamma soffocata se al suo interno il fuoco dello Spirito non viene continuamente comunicato, trasmesso dall’uno all’altro, proprio come avvenne quel giorno in mezzo al popolo di Israele, nel deserto del Sinai. E tutti siamo chiamati a trasmetterci l’un l’altro questo fuoco dello Spirito: in altre parole, tutti siamo chiamati a essere profeti. Tutti, nessuno escluso. Non commettiamo l’errore di Giosuè; non tentiamo di mettere a tacere gli Eldad e i Medad di turno solo perché profetizzano nel campo anziché alla tenda di convegno, in un posto cioè che a noi può apparire sbagliato e inopportuno, ma che agli occhi del Signore può essere invece il posto più indicato. Cerchiamo anzi di incoraggiarli, gli Eldad e i Medad che possono nascondersi tra noi; cerchiamo di incoraggiarli a rispondere alla vocazione profetica che è rivolta a tutti, e quindi anche a loro, e incoraggiamoli a essere profeti nel campo se non vogliono esserlo alla tenda, perché va bene anche così, va benissimo. E poi, hanno diritto alla nostra testimonianza tutti gli altri: quelli che stanno al di fuori della nostra tenda di convegno. Ci sono quelli che non credono, e che forse hanno ragione a non credere, perché il Dio nel quale si rifiutano di credere non è che un falso Dio, una caricatura di Dio. E ci sono quelli che credono in modo diverso da noi. A tutti questi, noi siamo chiamati a dare testimonianza della nostra fede lasciandoci guidare dallo Spirito, che è fuoco e libertà. Il che significa: con passione e coraggio. Ricordiamo questo: una scelta di fede – come quella che ciascuno di noi ha compiuto, altrimenti non sarebbe qui; come quella che compi tu oggi, caro Daniele – una scelta di fede non significa appiccicarci un’etichetta, significa lasciarci prendere dallo Spirito, e diventare profeti, e portare scompiglio, e anche metterci nei guai. Lo Spirito è scomodo: ricordiamolo. Appunto perché è Spirito di libertà. La libertà è scomoda; eppure, per il cristiano non c’è altra via che questa via scomodissima. Amen

Sermone a cura della nostra Pastora, Caterina Griffante

Ricordiamo che il riferimento nel sermone è relativo all’ingresso, nella nostra comunità, del fratello Daniele Rampazzo.