Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 20 LUGLIO 2014 (Lc 8, 4–15)

IL BUON SEMINATORE

Il buon seminatore

Un uomo ancora giovane che parla, e tutt’intorno a lui una grande folla che pende dalle sue labbra e ricerca i suoi occhi, e altra gente che arriva da ogni dove, come fiumi che sfociano nel mare. Per molti dei presenti è un momento importante, forse addirittura decisivo:  il momento che può dare una svolta alla vita. Sanno che quel maestro è un grande operatore di miracoli. Ma quello che impressiona è soprattutto come parla di Dio: come mai nessuno prima! Tu l’ascolti e senti Dio presente, accanto a te, come misericordia e tenerezza: un padre che ti ama e ti apre il cuore perché vuole il tuo cuore… vuole la tua attenzione, tiene a te. Davvero, mai nessuno ha insegnato di Dio come Gesù. In lui tutto l’antico si fa nuovo: un nuovo modo di incontrare il Signore, un continuo stupore, una sorpresa che ti scalda il cuore, una cosa che mai prima hai provato, e rinnova anche te… Ed ecco, ora sei lì, davanti a lui, e lo guardi, e lo ascolti. E già fin dall’inizio cogli la novità di quel maestro. Perché non parla come gli altri maestri di comandi e precetti, non ti dice “Fa’ questo” o “Non lo fare”. Ti racconta una storia, ti dipinge una scena, e quasi senza accorgertene, ti ritrovi coinvolto, sei parte di quel mondo che è fatto di parole, ma che ha una sua realtà, dei suoi colori. Sono le “parabole” di Gesù. Brevi storie, “bozzetti” della vita di ogni giorno che sanno parlare al cuore, smuovono sentimenti e sensazioni. E tu ascolti e t’accorgi che sei il protagonista di quello che hai ascoltato: sei stato interpellato, e devi dare tu senso alla storia con la tua decisione. Il bello delle parabole è proprio questo: da un certo punto in poi non c’è più uno che parla e gli altri che lo ascoltano senza poter far altro: c’è l’unica realtà della storia raccontata. E in essa si ritrovano chi ha iniziato il racconto e chi lo sente, che adesso è sfidato a diventare protagonista: deve scoprire lui quello che la storia racchiude in sé e deve trasformarlo in verità, per se stesso e per gli altri. È davvero così: Gesù ci chiama ad essere i coautori delle sue parabole; e in questo modo, ad entrare in comunione con lui. In fondo, in questo senso, il linguaggio delle parabole è un linguaggio d’amore: non più “io” e “voi”, ma “noi”… In particolare, nel nostro testo d’oggi, Gesù chiama la folla già presente attorno a lui e chi ancora è in arrivo “da ogni città” a farsi “noi” con lui, raccontando la “parabola del seminatore”. Una parabola che inizia all’improvviso, senza un’introduzione né una similitudine, come invece molte altre che sovente si aprono con la formula: “Il regno di Dio è simile a…”.  Qui invece, c’è subito il racconto: “Il seminatore uscì a seminare la sua semenza”. E, subito, c’è il tocco del maestro: la ripetizione delle varianti della stessa parola: “seminatore… seminare… semenza…”, ti fa quasi vedere il gesto ampio e cadenzato con cui il seme viene sparso nel campo. E questo seme cade. Ma forse il campo è piccolo, o il gesto è troppo ampio, e così una parte del seme finisce sul piccolo sentiero che corre lungo il campo, e un’altra parte sul terreno roccioso, e un’altra ancora tra le spine. E quel seme va perso. Su questo “seme perso” la prima comunità cristiana ha riflettuto, e s’è come riflessa in uno specchio. Ha veduto se stessa e la sua incredulità e quella di tanti altri, venirle incontro in quelle tre realtà di “semenza sprecata” che Gesù ha pitturato. E ha cercato le risposte alle domande che sempre rendono inquieta una comunità credente: perché molti non credono nell’evangelo? E perché molti che credono non hanno la costanza di rimanere saldi nella fede? Perché non provano in sé la gioia dell’incontro con Gesù che ti cambia la vita? Perché, insomma, a volte sembra proprio che in tanti, in troppi, “guardino e non vedano, ascoltino e non comprendano”? Le risposte della comunità credente, le troviamo nella seconda parte della pagina di oggi, nella cosiddetta  “spiegazione della parabola”, che con tutta probabilità è appunto la riflessione dei primi cristiani che, proprio come la “terra buona” di cui parla la parabola, hanno accolto in sé il “seme” della parola, l’hanno conservato “in un cuore onesto e buono” e hanno “portato frutto con perseveranza”, e qui però si pongono il problema degli altri che non hanno creduto o non hanno perseverato nella fede.  Ascoltiamole allora, queste risposte: Quelli lungo la strada sono coloro che ascoltano, ma poi viene il diavolo e porta via la parola dal loro cuore, affinché non credano e non siano salvati”. Il cuore umano è un campo di battaglia. Il Signore ti fa dono della sua parola ma, veloce ed avido come “gli uccelli del cielo” che atterrano a beccare i chicchi finiti sulla via e frantumati dai piedi dei passanti, irrompe l’avversario. È il nemico per eccellenza, che Luca e la sua chiesa conoscono bene: è “il diavolo” che viene con le ali spalancate a rubare la parola, prima che essa attecchisca e chi l’ascolta creda in lei e si salvi. Poi c’è il seme che cade fra le pietre: “Sono coloro i quali, quando ascoltano la parola, la ricevono con gioia; ma non hanno radice, credono per un certo tempo ma, quando viene la prova, si tirano indietro”. Dopo gli increduli, i deboli.  Dobbiamo sempre avere ben presente che la chiesa del Nuovo Testamento vive in un clima di continua ostilità che sovente si fa persecuzione. Così, se la parola non ti ha afferrato in profondità, quando per quella fede sei chiamato a soffrire, alla gioia degli inizi della fede subentra la paura, e per paura tu “ti tiri indietro” dal seguire Gesù.  E ancora, ecco il seme “caduto tra le spine”: “Coloro che ascoltano, ma se ne vanno e restano soffocati dalle preoccupazioni, dalle ricchezze e dai piaceri della vita, e non arrivano a maturità”.  Non basta avere accolto la parola. Se non diventa in te fonte di vita, libertà dalle cose che tu pensi di avere e invece sono loro a possederti, allora “le preoccupazioni, le ricchezze e i piaceri della vita” soffocano la tua fede, e tu vai alla deriva, senza nemmeno rendertene conto. E ti ritrovi vuoto. Quello che avevi udito e avevi accolto, non t’è servito a niente: in te non c’è alcun frutto ma solo delusione e un senso di sconfitta… Ecco allora: gli “increduli”, i “deboli”, i “soffocati”… Così la chiesa ha esaminato se stessa, le sue sconfitte, i suoi fallimenti e le sue frustrazioni alla luce della parabola del suo Signore. Lo ha fatto con serietà ed impegno, fino al punto di attribuire questo esame allo Spirito che Gesù le ha donato e di sentirsi così autorizzata a mettere il risultato della sua riflessione sulla bocca stessa del Signore, come sua riflessione e ammonimento a tutti i credenti che leggeranno l’evangelo… E anche noi facciamo bene a sottoporci al vaglio di questo stesso esame. A chiederci come accogliamo la parola seminata in noi: quanta ne frantumiamo, e quanta roccia c’è dentro di noi, e a quante spine diamo nutrimento… Ma non possiamo fermarci qui, sotto pena di fare del nostro essere cristiani soltanto una morale, e forse un moralismo… Se la spiegazione che la comunità di Gesù ha dato della parabola del suo Signore è certo seria e valida per chiunque di noi voglia esaminarsi su come accoglie e vive la parola di Dio, prima della spiegazione c’è e resta la parabola stessa, la storia raccontata da Gesù. E il clima di questa storia è tutto un altro… quale soltanto lui lo poteva creare… Per coglierlo, quel clima, e per gustarlo appieno, per intendere davvero la “parabola del seminatore” nel significato che le ha dato Gesù, dobbiamo fare un atto di coraggio. Dobbiamo mettere da parte almeno per un po’ la spiegazione su cui sinora ci siamo soffermati, e guardare soltanto alla parabola, come se ci fosse solo lei e come se l’ascoltassimo per la prima volta. Questa parabola è nota – già l’abbiamo detto e ripetuto – come quella “del seminatore”. Dovrebbe chiamarsi “la parabola del seminatore scalcagnato”. Perché, a guardarlo lavorare, quel seminatore è un vero disastro! Il seme in Palestina era prezioso: la produzione non era mai abbondante. Tra la farina per il pane di ogni giorno e la parte che bisognava consegnare come imposta a Roma e per la tassa del tempio, per la semina dell’anno successivo restavano davvero pochi semi, da trattare con cura per non sprecarne nemmeno uno. Qui invece c’è uno spreco colossale. Questo seminatore infatti, da un alto sembra non avere assolutamente preparato le condizioni minime necessarie per la riuscita della sua semina, e dall’altro sembra buttare il seme quasi a caso: lo manda sulle pietre che non s’è preoccupato di togliere dal campo; lo getta fra le spine che non ha estirpato prima; lo manda addirittura sulla strada che corre lungo il campo, e questo è proprio il colmo! Fosse una storia vera, in Israele, un seminatore così sarebbe stato prima bastonato dal padrone del campo, poi mandato via a calci… Ma questa storia l’ha inventata Gesù. E lui, quel seminatore, l’ha pensato tutto diverso dall’impressione che sta facendo a noi. Se lo guardiamo in faccia, vedremo che il suo volto ha qualcosa di familiare… e anzi, ci accorgeremo con grande meraviglia che quel seminatore è Gesù stesso. Sì, nella figura del seminatore Gesù rappresenta se stesso… Ma a questo punto, ci farebbe segno di spostare lo sguardo dal suo volto alla mano, e nella mano al seme che sta spargendo. Perché quello che conta, è proprio il seme! E questo lo capiamo dal finale della parabola. Una parabola è un po’ come un racconto giallo: quel che conta è il finale e tutta la storia e tutti i particolari della storia sono costruiti in funzione del finale, perché colpisca e ti rimanga impresso… Ebbene qui il finale parla appunto del seme (e non più del seminatore) e ci dice che quello caduto nel “buon terreno, quando fu germogliato, produsse il cento per uno“. Altro che OGM! È una percentuale semplicemente incredibile! Ancora oggi, nella Palestina, un seme molto buono può arrivare anche a dare “dieci”, ma “cento” è una follia! Ma allora qui capiamo che è proprio questo “folle super-seme” che consente a Gesù seminatore di essere così sprecone. Una parte del seme cade sopra il sentiero? Che gli fa? Un’altra cade dritta sulle pietre o fra spine? Non ha alcuna importanza! Quel seme è così buono che quel poco che cade dove deve cadere, sarà più che sufficiente per avere un raccolto eccezionale! È così buono che ci si può permettere di essere trascurati nel preparare il terreno per la semina e distratti nel gettarlo nell’aria… Quel seme è la parola di Gesù – in questo, la comunità che ha composto la spiegazione della parabola, è pienamente in sintonia con lui… E Gesù continua a spargerla, la sua parola, ovunque e a piene mani. La getta anche là dove verrà respinta, o disprezzata, o presto dimenticata e trascurata… Non importa! Perché quella parola è una vera e propria “bomba”! Cadrà e porterà frutto, oltre ogni immaginazione! Nel profeta Isaia,  parlando della sua parola, il Signore dice: “Non tornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero, e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata” (cfr 55,11). Con Gesù è la stessa cosa. C’è in questa parabola una vera grande gioia, così grande da permettere lo spreco… c’è un senso di potenza e di vittoria: la parola che Gesù sta spargendo tutt’intorno sui buoni e sui cattivi, sui credenti e gli increduli, “crescerà” a dismisura, e sarà predicata in tutto il mondo… È predicata qui oggi, dopo duemila anni…  Allora veramente, se certo ha senso e è importante interrogarci ogni volta, domandarci se siamo “strada” o “rocce”, o “spine” o “buon terreno”… però fondamentalmente non si tratta di guardare a noi stessi, di stare a preoccuparci di quel che possiamo fare o non fare, ma di guardare alla parola di Gesù, perché è lei, e solo lei che fa, opera meraviglie… le opererà anche in noi…  Il “seminatore Gesù” è anche oggi nel campo, col suo grembiule pieno. Continua a seminare, a gettare il suo seme con un gesto sicuro… quasi festoso. Vediamo che quei semi li butta sulla strada e vengono gli uccelli e li beccano via… che li butta sui sassi dove il sole li brucerà… li butta tra le spine che li soffocheranno… Ma non possiamo dirgli: “Cosa fai?”… Non avrebbe alcun senso. Perché Gesù ci guarda. E il suo sguardo è sicuro e spensierato, come acceso da un’ironica fiducia. Ci guarda e ci sorride. E quel sorriso dice: “Non starti a preoccupare! Qualche chicco è per te! Cadrà sopra di te come sul terreno soffice… e in te farà dimora… ed in te crescerà. E sarà “cento ad uno”. E verrà la mietitura e canteremo insieme la gioia del raccolto”.

Sermone a cura del Pastore Ruggero Marchetti, della Chiesa Evangelica Valdese (Unione delle Chiese Evangeliche Valdesi e Metodiste) di Trieste