Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 25 NOVEMBRE 2012 (Mt 25: 1-13 Ap 21: 1-7 Is 65: 17-19, 23-25)

NUOVI CIELI E NUOVA TERRA

Siamo arrivati all’ultima domenica dell’anno liturgico, quando la liturgia ci invita a riflettere sul significato del tempo e dell’eternità. E proprio “domenica dell’eternità” è il nome che il calendario liturgico assegna a questa domenica. Meditare sull’eternità: non è un compito facile quello che ci viene proposto oggi, perché si tratta di elaborare delle idee, delle immagini di qualcosa che sfugge alla nostra esperienza, qualcosa di cui possiamo soltanto avere qualche barlume di intuizione. Nell’eternità sfocia il tempo. Volgere la nostra attenzione all’eternità significa quindi renderci attenti al tempo che ci è stato dato come un dono, un’opportunità preziosa di cui fare buon uso, perché saremo chiamati a renderne conto; perché la nostra eternità è strettamente legata al nostro tempo, cioè al modo in cui questo tempo noi l’abbiamo vissuto. Parlavo di farne buon uso. “Buono”, in questo caso, equivale a “saggio”, “avveduto”; proprio come sagge e avvedute furono cinque delle dieci ragazze delle quali parla Gesù nella parabola riportata da Matteo. Perché sono dette “avvedute”? Non perché siano rimaste sveglie. Tutte e dieci le ragazze della parabola si sono addormentate. A differenza delle altre, però, le cinque ragazze sagge sono pronte per ciò che le attende. Come le altre, non conoscono l’ora in cui lo sposo verrà; ma appunto per questo si sono organizzate, e quando è il momento fanno quello che sanno di dover fare: preparano le lampade, utilizzando la loro scorta di olio. Le cinque sprovvedute, invece, perdono completamente la testa, con esiti disastrosi. Perché questo fallimento finale per le cinque ragazze “stolte”? Perché hanno perduto un’occasione destinata a non ripetersi più. È quanto avviene a tanti di noi. E questo succede quando non si comprende che l’attesa non è un periodo che comincia e che finisce; che non è un tempo, ma un atteggiamento, un modo di impostare la propria esistenza. L’attesa di Dio dura tutta la vita, non è a termine; e questo atteggiamento di attesa è connaturato alla fede. Non si può dire di aver fede se non si sa attendere il domani di Dio, che verrà non quando lo aspettiamo noi, ma quando lo avrà deciso Dio stesso. Si tratta di un’attesa che il credente vive in modo consapevole e, pertanto, con tranquillità, in modo rilassato. Il vero credente può permettersi il lusso di addormentarsi, perché è ben preparato per ciò che lo attende al risveglio. Il suo sonno è un sonno sereno, benefico, ristoratore; non è il sonno, magari indotto artificialmente, di chi tenta di sfuggire a una realtà che lo spaventa. Tanto nella veglia quanto nel sonno, chi ha fede vive tranquillo perché, come le cinque ragazze avvedute, si è organizzato, ha fatto scorta di olio: ha deciso, cioè, di affidarsi totalmente al Signore. E quando il Signore deciderà di venire, di irrompere nella vita del credente, il risveglio non sarà traumatico. Sarà un entrare nella casa dello sposo, per festeggiare insieme a lui. Ma come dobbiamo interpretarla, questa “venuta” del Signore nella nostra vita? L’interpretazione tradizionale la identifica con l’incontro personale che avremo con lui al momento della morte. Non credo che questa sia un’interpretazione superata, da scartare; credo, piuttosto, che debba essere ampliata. Ho parlato di un Dio che “irrompe nella vita del credente”; ebbene, questo può avvenire in qualunque momento della vita. Compreso anche il momento estremo che noi chiamiamo morte. Qualunque momento può essere un momento in cui il Signore viene da noi come uno sposo che ci apre la porta di casa sua per farci partecipare alla sua festa. Momenti del genere sono occasioni irripetibili di incontro con la grazia del Signore, da vivere nella gioia; sono momenti che, per essere vissuti pienamente, richiedono appunto una vita impostata secondo lo spirito dell’attesa. Un’attesa non inquieta, non angosciata, ma fiduciosa; un’attesa che ha il colore della speranza. Speranza e gioia. Sono questi i sentimenti che animano tanto i versetti di Isaia quanto quelli dell’Apocalisse: a far festa è Gerusalemme in Isaia, la nuova Gerusalemme nell’Apocalisse; ma anche la Gerusalemme di Isaia è una Gerusalemme del tutto nuova, rinnovata in modo radicale. In entrambi i passi biblici si annunciano nuovi cieli e nuova terra. Perché questo porta con sé la venuta del Signore: una novità di vita. Una simbologia di straordinaria suggestione, questa di Isaia, come pure quella dell’Apocalisse. Una visione abbagliante. Che cosa potremmo volere di più? Proprio nulla. E allora, la nostra reazione potrebbe essere quella di dire “Amen”, chiudere la Bibbia e andarcene a occuparci dei fatti nostri, delle concrete, pressanti e molto spesso grige e meschine incombenze quotidiane, tra le quali è davvero molto difficile scorgere qualche indizio di nuovi cieli e nuova terra, di prossima venuta dello sposo, di feste imminenti. Troppo spesso, guardandoci intorno, non vediamo altro che notte profonda, senza suoni e luci di cortei nuziali. Voci di pianto, grida di angoscia, morti premature – queste sì, invece, ne ascoltiamo e ne vediamo fin troppe. E abbiamo ampia esperienza di preghiere non esaudite. Visione abbagliante, quella di Isaia; ma pur sempre visione, non realtà. E se, invece, la “visione” di Isaia fosse tale non perché irreale, ma proprio perché capace di “vedere” più lontano e più in profondità, perché capace di mettere a fuoco una realtà più reale, più vera di quella che siamo in grado di percepire con la nostra razionalità, con i nostri sensi, con la nostra capacità di programmare solo a breve scadenza – proprio come le cinque ragazze stolte? Riflettiamo su ciò che si proponeva l’autore di questi versetti, il cosiddetto terzo Isaia. Il terzo Isaia è il profeta di un nuovo inizio per Israele: nel senso di futuro storico, ma anche di un futuro più ampio, più grande, più definitivo. Si tratta di un futuro inimmaginabile, inconcepibile, un futuro da sogno; eppure, se il profeta propone al suo popolo questa visione non è per farlo sognare, è per rivolgergli vocazione. E questo vale anche per noi: su questi versetti non dobbiamo sognare, come se dormissimo il sonno irresponsabile delle cinque ragazze sprovvedute; dobbiamo metterci in ascolto. La visione dei nuovi cieli e della nuova terra è, sì, utopia, ma è al tempo stesso realtà, perché è una possibilità che si spalanca, un compito che viene assegnato. Qual è questo compito? Innanzitutto, quello di tenere sempre le nostre lampade rifornite d’olio. Di mantenerci, cioè, sempre disponibili a riconoscere l’azione del Signore nella nostra vita, o meglio, la grazia del Signore in azione nella nostra vita. Tante volte non la sappiamo riconoscere, appunto perché non la sappiamo attendere nel vero senso della parola, perché la speranza è assente dalle nostre vite; si spiega così perché le nostre vite sembrino intessute di voci di pianto e di grida d’angoscia, di invocazioni senza risposta e di preghiere non esaudite. Noi manchiamo di speranza perché manchiamo di fede – tutti noi manchiamo di fede, nessuno escluso –, appunto per questo so bene che questo invito a riconoscere la grazia del Signore nella nostra vita può essere accolto con scetticismo, può suonare come un invito a cullarci nelle illusioni. Eppure, se pensiamo al nostro passato credo che a tutti noi capiti di riconoscere che certi fallimenti, certe occasioni mancate sono da addebitare proprio alla nostra carenza di speranza e di fede. Quello che più colpisce nel passo di Isaia è che Dio festeggia con Gerusalemme. Quando è che Dio festeggia? Quando la terra festeggia, quando la terra diventa un’unica grande città della gioia. Allora la gioia di Dio è il riflesso della gioia del mondo. Si delinea così il secondo compito verso il quale il profeta spinge la comunità di Israele, e noi con lei: suscitare una novità sulla base di questa visione che il profeta le mette dinanzi agli occhi. Isaia ci spinge a mobilitarci come credenti, come comunità umana, ad andare incontro ai nuovi cieli e alla nuova terra. Questo non significa che spetti a noi realizzare questa novità di vita. A noi spetta bussare alla porta dello sposo, cioè lasciarci coinvolgere nel progetto di Dio. E questo potremo farlo solo se la nostra attesa sarà un’attesa saldamente fondata sulla fede. Allora, sì, qualche frammento di questo “nuovo” anche noi potremo contribuire a costruirlo che ci dia il segno che questo “nuovo” non è un sogno, ma è una realtà del futuro che diventa presente. Un futuro nel quale, dice Isaia, “il lupo e l’agnello pascoleranno insieme”. Un futuro per definire il quale non saprei trovare termine migliore di “ecumenico”. È vero: l’aggettivo rimanda a un vocabolo, “ecumenismo”, che in molti di noi suscita ormai un senso di noia, di inutilità, talvolta quasi di fastidio. È triste riconoscerlo, eppure è così. Da decenni le varie confessioni cristiane si cimentano in questo sforzo, in questa tensione – non verso l’unità, questo lo sappiamo tutti molto bene, bensì verso un traguardo più modesto eppure meraviglioso, quello della “diversità riconciliata”. Ma nemmeno questo obiettivo siamo riusciti a raggiungere. Che cosa dobbiamo fare, rassegnarci? “Rassegnazione” è vocabolo che non appartiene al lessico dell’Evangelo; non ha nulla a che fare né con l’attesa, né con la speranza. Perché non provare piuttosto, a vivere in una prospettiva ecumenica a 360 gradi che si estenda ben oltre le nostre spesso misere realtà confessionali per generare una “riconciliazione delle diversità” estesa non solo a ogni realtà umana, ma al creato intero? Proviamoci tutti quanti, diversi come siamo: lupi e agnelli, leoni e buoi, senza escludere nemmeno i serpenti. Questo significherebbe davvero vivere il tempo dell’attesa costruendo in vista dell’eternità, un’eternità di benedizione. Amen.

(Sermone a cura di Caterina Griffante, Pastora della nostra comunità)