Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 26 MAGGIO 2013 (Lc 6:27-28; 1 Cor 4:11-13. Testo di predicazione Nm 6: 22-27)

“Ti benedica il Signore e ti protegga”

Come avrete notato, è già la seconda domenica che il lezionario propone come testo di predicazione un passo tratto dal libro dei Numeri, un libro biblico che certo non siamo molto abituati a frequentare. È un libro che tendiamo a considerare arido, quindi tutto sommato trascurabile; a penalizzarlo contribuisce anche il titolo, certo non accattivante, che viene dalla traduzione greca della Bibbia detta “dei Settanta”. Il titolo ebraico del libro è molto diverso: per certi versi ancora più arido, ma anche più suggestivo del titolo greco: be-midhar, “nel deserto”, e deriva dal primo versetto del libro: “Il Signore parlò a Mosè, nel deserto”. Queste ultime due parole sono state trasformate nel titolo del libro. Titolo, dicevo, forse più suggestivo del titolo greco: il deserto, infatti, ha un suo fascino, contiene in sé un mistero; soprattutto, porta a dimenticare tutto ciò che non è essenziale e ispira alla contemplazione, in un silenzio che può essere colmo e denso, anche di visioni. Ed è infatti “nel deserto” che il Signore rivolge la sua parola a Mosè. Gli rivolge la parola ripetutamente, fino a dargli questo ordine, un ordine da rivolgere ad Aronne e ai suoi figli. Questo ordine consiste in una formula di benedizione. Una formula, questa sì, molto familiare a tutti noi, perché spesso la usiamo a chiusura del culto; si è soliti chiamarla “benedizione di Aronne”. Si tratta del rituale della benedizione dei sacerdoti sul popolo, sulla comunità dei credenti. Nel 1979, in una necropoli presso Gerusalenne, vennero scoperte due sottilissime lamine d’argento, risalenti almeno al sec. VII a. C., riportanti questa benedizione che ancora oggi viene usata nella liturgia sinagogale proprio col suo nome, birkat kohanim, la benedizione sacerdotale. L’amore per questa benedizione, dunque, unisce ebrei e cristiani. E questa benedizione è molto amata perché è veramente bella: ha uno stile poetico perfetto, immagini indimenticabili. È divisa, questa benedizione, in tre versetti. Il primo promette la benedizione di Dio ai suoi figli. Questa benedizione “paterna” è un tema ricorrente nella Bibbia ebraica: Dio la rivolge alla prima coppia, la rivolge ad Abramo nel chiamarlo a una missione estremamente impegnativa, e promette che in lui “saranno benedette tutte le famiglie della terra” (Gn 1: 28; 12: 1-3); Giacobbe e Mosè concludono la loro vita terrena benedicendo le nuove generazioni ( Gn 49 e Dt 33). I libri dei grandi profeti si concludono con parole di benedizione. Che cosa significa tutto questo? Significa, in sostanza, che noi possiamo contare sulla presenza di Dio al nostro fianco: Egli ci precede, ci guida. Egli ha già preparato la nostra strada: non ci resta che percorrerla con piena fiducia. Possiamo farlo, perché questa benedizione non è una sorta di influsso astrale che ci arriva in forma anonima e astratta. Essa viene dal Dio vivente. Ce lo ricorda il secondo versetto del nostro testo, in cui Dio esprime la benedizione mediante lo splendore del suo volto. Il volto indica una persona. E questo Volto risplende: è dunque fonte di luce. L’immagine della luce evoca il calore del sole, il rinnovarsi della vita, lo splendore della gioia, ma anche e soprattutto la chiarezza della rivelazione, la salvezza dalle tenebre. Non a caso il vangelo di Giovanni dice che Gesù è “la vera luce che illumina ogni uomo” (Gv 1: 19). Nel terzo versetto la benedizione fa ancora un passo avanti: Dio non si limita a far risplendere il suo volto sui suoi figli, ma offre loro un dono, un dono estremamente prezioso, la pace. Ne abbiamo davvero bisogno, della pace: siamo tormentati dai nostri dolori e dai nostri errori, viviamo in un mondo triste e terribile. Ma Dio ci libera, e in quanto cristiani noi crediamo che questa liberazione ci raggiunge nella persona di Gesù. Non è un caso che il Risorto, quando incontra i suoi discepoli distrutti dal dolore e dallo sconforto, dica “Pace a voi” (Gv 20: 19). Annunciando la pace, Gesù non recita una formula di cortesia, ma vuole dimostrare che in lui si adempiono le Scritture, che riconoscono nel Messia il “principe della pace” (Is 9:5) e che prefigurano i tempi messianici come fondati su un “patto di pace” (Ez 34: 25 e 37: 26). Gesù è morto ed è risorto proprio per realizzare questo patto di pace. “Benedizione” è, dunque, una parola bellissima, ed è anche un concetto bellissimo, forse il più bello che ci sia, non solo nella Bibbia, ma nell’esperienza umana: è una luce che illumina il mondo, una stella nella notte, una grazia preparata per noi. Eppure, in fondo, se ne parla poco, forse per un senso di pudore – si ha spesso un certo pudore a parlare di temi che sentiamo come coinvolgenti, addirittura cruciali per la nostra vita –, ma più probabilmente perché tendiamo a dimenticare con facilità proprio questo aspetto fondamentale della vita e della fede. Questi versetti smentiscono dunque l’“aridità” spesso imputata al libro dei Numeri, proprio perché ci invitano a riflettere, a interrogarci su che cos’è, cosa significa, come va vissuta la benedizione del Signore che qui viene annunciata ai figli di Israele, e quindi anche a noi, per un tramite umano, la persona di Aronne, colui che nel nostro uso corrente “dà il nome” a questa benedizione. Ecco, direi che il primo spunto che qui possiamo cogliere è questo: parliamo di “benedizione di Aronne”, ma né Aronne né nessun altro essere umano può “benedire” in senso stretto. Perché questo può farlo solo Dio. Dio solo è la fonte di ogni benedizione; è lui, anzi, la benedizione per eccellenza. Osserviamo che “benedire” significa, alla lettera, “dire bene”: e l’unico che può “dire bene” in assoluto è Dio, e Lui soltanto. Dio infatti “dice bene” di noi quando dice che siamo giusti benché peccatori, perdonati benché colpevoli. Dio benedice, cioè (a differenza di noi) dice bene, perché (a differenza di noi) pensa bene: “Io so i pensieri che medito per voi, dice l’Eterno, pensieri di pace e non di male, per darvi un avvenire e una speranza” (Ger 29: 11). Dio dice quello che pensa e fa quello che dice. Egli benedice, cioè dice bene, perché pensa bene e fa bene. Nessuno dunque, se non Dio solo, può conferire la benedizione, perché la benedizione appartiene a Dio solo, è lui l’unico titolare di ogni benedizione. Noi possiamo solo invocare la benedizione di Dio, non la possiamo dare, se non nel nome suo, che è l’unico che può e vuole effettivamente darla. Nessuno di noi potrà quindi “benedire”; potrà invece (appunto come Aronne) farsi portatore e trasmettitore, presso i suoi fratelli e le sue sorelle, di questo evangelo, di questo lieto annuncio: la benedizione è l’azione costante, l’occupazione quotidiana di Dio – ed è, in fondo, la nostra unica speranza. Comunicare agli altri questa benedizione, però, non è soltanto una facoltà che ci viene data; è un nostro preciso compito, è la vocazione che viene rivolta a ciascuno di noi. Qui è rivolta ad Aronne, tanto che si parla di “benedizione sacerdotale”; ma se guardiamo alla Bibbia nel suo insieme, vediamo che la benedizione di Dio circola liberamente all’interno del popolo di Dio e diventa in qualche modo patrimonio comune. La seconda considerazione, dunque, può essere questa: la benedizione di Dio non è più monopolio di qualcuno (a esempio di un clero o di un’autorità di qualunque tipo), ma diventa una parola di grazia e favore divino che gli uomini e le donne, nel nome di Dio, si scambiano a vicenda. Chi dunque può pronunciare la benedizione? Chiunque, purché sappia quello che fa e creda nel Dio che benedice, il Dio d’Israele e di Gesù. E mi sembra bellissimo il fatto che questa benedizione travalica i confini della chiesa, perché nei passi neotestamentari che abbiamo ascoltato Gesù dice ai discepoli: “Benedite quelli che vi maledicono”, e l’apostolo Paolo dice dei cristiani: “Ingiuriati, benediciamo”. Cioè: la benedizione è più forte della maledizione, lo spirito e la parola di Gesù trasformano in benedizione la maledizione. Tre brevissime osservazioni, infine, sulla pace, la pace nella quale si manifesta la pienezza della benedizione di Dio. La prima: questa pace non equivale a “quieto vivere”. In una lettera del 1944, Dietrich Bonhoeffer parla della benedizione come del ponte che collega Dio alla felicità umana; egli però ricorda anche che essere benedetti non significa essere esentati dalla prova e dalla sofferenza. Si pensi alla sorte di due “benedetti” come Giobbe, e come Gesù stesso. Nella Bibbia dunque non c’è contrapposizione assoluta tra benedizione e croce, né nella Bibbia ebraica né nel Nuovo Testamento. La differenza tra loro, dice Bonhoeffer, “sta solo nel fatto che nell’Antico Testamento la benedizione racchiude in sé anche la croce, nel Nuovo la croce racchiude in sé anche la benedizione”. Seconda considerazione, strettamente collegata alla precedente: questa pace è per noi un dono ma anche un compito, come ha ricordato Gesù dichiarando “beati” “quelli che si adoperano per la pace” (Mt 5: 9). Ne consegue la terza considerazione: “pace” non significa “adagiarsi”, accettare – e benedire – il mondo così com’è, adeguarci a un mondo fatto di competizione e di egoismo, di durezza e di vanità, di falsità e – dovunque – di ingiustizia. Con la “benedizione di Aronne”, Dio vuol dirci tutt’altra cosa. Vuole dirci che ci benedice affinché noi diventiamo testimonianza vivente della sua benedizione, perché, appunto, ci “adoperiamo”: e questo talvolta può richiederci di diventare persone scomode, persone che alzano la voce, che prendono posizione contro l’ingiustizia, dovunque essa si manifesti; perché senza giustizia – lo sappiamo – non può darsi vera pace. Persone scomode, che si adoperano per una pace scomoda. Ma solo così potremo diffondere la benedizione del Signore, divenendo a nostra volta una piccola benedizione su questa terra. Amen.

Sermone a cura della nostra Pastora, Caterina Griffante