Sermone: Predicazione di Domenica 4 Marzo – Efesini 2, 8-10

E’ per grazia che siete stati salvati, mediante la fede; e ciò non viene da voi: è il dono di Dio. Non è in virtuù di opere affinché nessuno se ne vanti; infatti siamo opera sua , essendo stati creati in Cristo Gesù per fare le opere buone, che Dio ha precedentemente preparate affinché le pratichiamo.

Le opere buone! Credo che, tra tutti i punti che differenziano protestanti e cattolici nel modo di vivere e di interpretare la fede cristiana questo delle opere buone sia uno dei più conosciuti. Sì: in genere, in un Paese come il nostro, prevalentemente cattolico almeno come cultura e come tradizione, i protestanti sono “quelli che non credono [in ordine di importanza] nel papa, nella Madonna e nelle opere buone”. Credono solo nella Bibbia: eppure anche la Bibbia parla di “fare opere buone”, per esempio in questo passo della lettera agli Efesini, o anche nel versetto di Matteo che abbiamo ascoltato (Mt 5, 16). Come la mettiamo, allora?

Risposta immediata: consideriamo il contesto di questa affermazione di Paolo sulle opere buone. È un contesto dal quale risalta molto chiaramente quello che è il principio basilare della Riforma, cioè l’inutilità delle opere umane, anche di quelle buone, per acquistare la salvezza: per “essere giustificati”, per usare il termine teologicamente più preciso, che tuttavia ai nostri contemporanei suona di difficile comprensione. Per dirla tutta, è un discorso che anche molti protestanti faticano ad accettare. Non è una cosa che vada da sé, che l’essere umano sia “giustificato”, cioè accettato da Dio e a Lui gradito, solo per fede. Il nostro buonsenso vorrebbe che quanto meno si fosse “giustificati” per fede e per opere, le opere buone che tutti, se vogliamo, possiamo compiere. Anzi, può perfino darsi che, sotto sotto, anche noi protestanti pensiamo che quello che conta per Dio sono proprio le opere – s’intende quelle buone – perché quello che conta davvero nella vita, anche nella vita cristiana, non è ciò che pensiamo, crediamo e diciamo, ma ciò che facciamo, e in questo senso siamo inclini a pensare che in fin dei conti siamo giustificati solo per opere: sono infatti le opere, e non altro, il banco di prova della fede. Questo discorso è più che ragionevole, di una ragionevolezza tutta umana; ma non è il discorso che fa la Scrittura.

La Scrittura infatti ci dice che le nostre opere, per buone che siano, non possono saldare il nostro debito con Dio. Ma come, siamo debitori verso Dio? In che senso lo siamo? Sì, siamo in debito verso di Lui, se crediamo in Lui. Abbiamo nei suoi confronti  il debito dell’obbedienza che il figlio o la figlia hanno nei confronti del Padre; il debito della riconoscenza, che la creatura ha nei confronti del Creatore; il debito della lode, che il prigioniero ha nei confronti di Chi lo ha liberato; il debito dell’amore, che l’amato ha nei confronti di Colui che lo ama; il debito della testimonianza, che ha chi ha scoperto Dio e sé stesso nella storia e nell’opera di Gesù di Nazareth. […]

Per saldarlo non servono né le “buone opere” che possiamo aver compiuto, poche o molte che siano, né alcun altro mezzo. Anche perché noi non abbiamo nessuna idea della ferita che le nostre trasgressioni provocano in Dio (ci pensiamo mai? Dio soffre, è ferito ogni volta che il suo meraviglioso progetto di vita e di amore viene violato, viene vanificato dalle trasgressioni degli esseri umani);  così come non abbiamo nessuna idea del danno che recano alle vittime. Questo avviene anche, forse soprattutto, per esempio, nel caso di colpe che non sono tali per la legge umana ma solo per la legge divina, come ad esempio nutrire rancori o invidie, diffondere maldicenze, o semplicemente non fare il bene che potremmo fare. Sotto questo aspetto, nessuno di noi si salva. Se siamo onesti dinanzi a Dio, non possiamo non riconoscerci in quello che dice l’evangelista Giovanni: “Se diciamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi, e la verità non è in noi” (1 Gv 1: 8).  […]

Quali sono gli impulsi ai quali obbediamo, anche quando compiamo qualcosa di buono? Siamo sicuri di essere sempre generosi, sempre solleciti del bene altrui prima che del nostro, sempre pronti a mettere in secondo piano i nostri interessi, la nostra comodità, il nostro quieto vivere se qualcuno ha bisogno di noi?  E anche quando facciamo del bene, e lo facciamo sinceramente e con dedizione: siamo sicuri della nostra purezza, del nostro totale disinteresse? Siamo sicuri di non strumentalizzare mai, nel fondo del nostro animo, coloro che serviamo, si tratti del nostro prossimo o della nostra Chiesa?  La durezza dei versetti della Genesi ci libera da una doppia illusione. La prima è l’illusione su noi stessi: pensare cioè di essere fondamentalmente buoni così come siamo, indipendentemente da Cristo. La seconda illusione è di poter stabilire che cosa è bene (e inversamente che cosa è male) indipendentemente da Dio e dalla sua parola. Conseguenza di queste due illusioni è l’atteggiamento dal quale Paolo ci mette in guardia: “vantarci” delle nostre opere.

È necessario, a questo punto, evitare che si crei un malinteso. Dio ama le buone opere, le apprezza, le valorizza, le ricompensa in questa vita e in quella futura. Ricordiamo che cosa dice Gesù nel sermone sul monte, parlando dell’elemosina, della preghiera, del digiuno: parla di ricompensa (Mt 6: 4,6,18). Ricompensa, altro non significa se non l’approvazione di Dio sull’opera dell’essere umano. Significa che l’essere umano si trova in sintonia con il progetto di Dio per l’umanità, si trova in armonia con la volontà del Signore. Non c’è ricompensa più alta, né premio più ambito di questo. Perciò, a chi ci domandasse “ma per voi protestanti, le opere non meritano proprio nulla?” noi dovremmo rispondere: “sì che meritano! Meritano la lode più alta che si possa avere su questa terra, quella di Dio!”. Dio dunque si compiace delle nostre buone opere e le premia, cioè le approva. Ma queste buone opere non servono in alcun modo a costituire nemmeno in parte la nostra giustizia davanti a Dio, per il semplice motivo che la nostra giustificazione, essendo ottenuta da Cristo sulla croce, precede le nostre opere buone, che noi compiamo non per essere giustificati, ma perché, per pura grazia, siamo stati giustificati davanti a Dio per l’opera che Gesù ha compiuto per noi e per il mondo. In conclusione: le nostre opere buone sono buone per il nostro prossimo al quale sono destinate; sono buone per Dio, che le gradisce e le premia con la sua approvazione; non sono buone per la nostra salvezza, perché non ne abbiamo bisogno, avendocela Dio già donata in Cristo gratuitamente.

(Estratto dalla riflessione della pastora Caterina Griffante)