Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 6 GENNAIO 2013 (EPIFANIA DI NOSTRO SIGNORE) (Is 60:1-6; Mt 2:1-12, Ef 3:1-7)

“Gli stranieri sono eredi con noi, membra con noi di un medesimo corpo e con noi partecipi della promessa fatta in Cristo Gesù mediante il Vangelo”

Luce, luce, luce. Un’inondazione di luce. In questa prima domenica dell’anno che coincide con la festa dell’Epifania, cioè della manifestazione del Signore, la liturgia continua a riversare su di noi la luce del Natale, la luce che è venuta nel mondo con l’Incarnazione: quella luce che durante le feste natalizie noi cerchiamo di simboleggiare alla meglio con i nostri poveri mezzi umani, con le candele, con le lucette dell’albero di Natale. Quella di Dio come luce è metafora universale, poi ripresa ampiamente nel NT, in particolare nel vangelo di Giovanni nel quale ricorre con insistenza la contrapposizione, la lotta tra luce e tenebre; contrapposizione che percorre però tutta la Scrittura, fin dal primo capitolo della Genesi. Parla dunque di luce e di tenebre anche questo passo del cosiddetto Terzo Isaia, un passo di straordinaria potenza evocativa. La luce è presentata qui come strettamente associata a Dio, come manifestazione visiva della Sua gloria – e questo può aiutarci a comprendere perché il lezionario ci proponga questa lettura per questa domenica, la domenica appunto della Manifestazione. Per contro, le “tenebre”, in Isaia come in Giovanni, contraddistinguono tutto ciò che è altro rispetto a Dio: cioè “la terra”, “i popoli”; in altre parole, tutti gli esseri umani, tutti noi esseri umani. Tutti noi siamo, per natura, coperti dalle tenebre, avvolti in una fitta oscurità; ciechi, di conseguenza, e incapaci da soli di trovare la nostra strada. Questo è lo stato originario delle cose; ma questa condizione di partenza appare, in Isaia, ormai completamente superata. Di conflitto tra luce e tenebre, infatti, qui nemmeno si parla, perché la luce ha già vinto al suo primo apparire, al suo primo manifestarsi, espandendosi su tutto ciò che prima era dominio delle tenebre; quindi anche, anzi in primo luogo, sulla città santa, Gerusalemme. Sottratta all’oscurità, messa in grado di guardarsi intorno e di vedere ciò che il Signore ha preparato per lei, Gerusalemme vedere snodarsi davanti ai suoi occhi una visione meravigiosa. Le visioni ricorrono nella letteratura profetica; ma spesso sono visioni che preannunciano duri giudizi e punizioni divine. Qui, nulla di tutto questo. Is 60 e i due capitoli successivi sono dall’inizio alla fine null’altro che un annuncio di salvezza da parte di un Dio che a sua volta non ha più nulla di severo, di terribile, ma è un Dio “evangelizzatore”, portatore di liete notizie per Israele. Ci sarà un cambiamento, una svolta salvifica all’interno della storia di questo popolo. Non solo avverrà il ritorno in patria dei figli di Israele esiliati e dispersi; si svilupperà un movimento infinitamente più ampio, un imponente e spontaneo confluire dei popoli tutti verso Sion. Popoli che porteranno con sé i loro tesori per la glorificazione di Gerusalemme e, attraverso Gerusalemme, del “nome del Signore, suo Dio, del Santo d’Israele” (v. 9). Questa sarà la piena manifestazione della gloria del Signore: un solenne e insieme entusiastico dirigersi dei popoli verso Sion per cooperare, tutti insieme, alla sua gloria e alla sua prosperità, in un grande progetto collettivo nel quale finiranno per perdere ogni significato le tradizionali distinzioni tra figli di Israele e stranieri. Che dire di questa visione – o, meglio, che cosa Dio vuole dire a noi attraverso questa visione? Intanto: cosa dobbiamo pensarne, di questa visione? È utopia, è possibilità, è realtà, è compito che ci viene assegnato? Direi che è un po’ tutte queste cose insieme; certo, non è un semplice sogno privo di contenuto teologico. Anzi, direi che questa visione vuole innanzitutto ribadire un concetto teologico basilare, eppure spesso sottovalutato dai credenti: la salvezza non viene dalla comunità, non viene da noi, non possiamo costruircela con le nostre mani; la salvezza viene da fuori, viene da Dio; Dio stesso salverà il suo popolo – cioè tutti noi – irrompendo su di lui, su di noi come una irresistibile fiumana di luce, dandogli/dandoci in dono quel futuro imprevedibile quanto indicibile che la visione tenta in qualche modo di raffigurare mediante un linguaggio metaforico. Qualcuno potrebbe dire che questa visione è utopia pura; in realtà è l’utopia della fede, l’utopia della speranza, l’utopia che deve coltivare chiunque guardi al futuro con fiducia, e a maggior ragione un cristiano. Credo che questo sguardo di fiducia sia molto adatto a noi in questa prima domenica dell’anno; credo che sia in questo spirito di “fiducia nonostante tutto” che Dio ci chiede anche di celebrare, come è tradizione nelle chiese metodiste all’inizio del nuovo anno, il rinnovamento del patto. Ma ciò che più immediatamente colpisce in questa visione narrata da Isaia è il suo universalismo, che rinuncia a qualsiasi immagine di un Dio “nazionale” e allarga il concetto di “popolo di Dio” a tutti i popoli. È un messaggio pregno di Evangelo; non a caso, secondo il giudizio di molti, Isaia è il più “evangelico” di tutti i profeti. E infatti queste moltitudini di stranieri che riconoscono la gloria del Signore e ne sono attratti al punto di convergere verso Gerusalemme, per onorare il Signore onorando Gerusalemme e offrendole i loro tesori, richiamano irresistibilmente alla mente i protagonisti di un altro episodio evangelico, indissolubilmente legato nella tradizione liturgica delle chiese cristiane alla festa dell’Epifania: l’episodio dell’adorazione dei magi. Anche questi sapienti lasciano il loro paese e intraprendono un lungo viaggio per onorare il Dio di Israele nella persona di quel bambino insignificante nel quale tuttavia essi sanno riconoscere “il re dei Giudei”. Anche loro offrono i loro tesori, tra i quali quell’“oro” e quell’“incenso” che Isaia annovera tra i doni offerti a Gerusalemme. Anche nella storia dei magi c’è una luce, la luce della stella che li guida. Ma, soprattutto, anche questi ragguardevoli personaggi venuti da imprecisate terre orientali sono stranieri, non fanno parte del popolo di Israele. Isaia e Matteo ci trasmettono così un unico messaggio, un messaggio che è veramente un “evangelo”, un lieto annuncio, e che trova la sua formulazione più esplicita nel passo della lettera agli Efesini che, molto giustamente, il lezionario ci propone accanto alle altre due letture, a formare quello che potremo chiamare un “trittico della Manifestazione del Signore”: “è stato rivelato”, dice Paolo, “che gli stranieri sono eredi con noi, membra con noi di un medesimo corpo e con noi partecipi della promessa fatta in Cristo Gesù mediante il vangelo”. Sorelle e fratelli: se il profeta propone queste visioni alla comunità di Israele non è per farla sognare ad occhi aperti, è per mobilitarla. Il terzo Isaia è il profeta di un nuovo inizio: nuovo inizio in senso storico, ma anche in un senso più ampio, più grande, più definitivo, e vuole che Israele capisca di essere chiamata a suscitare una novità sulla base di questa visione che il profeta le prospetta. Ma questa chiamata è rivolta anche a noi. E quali sono queste novità che siamo chiamati a suscitare? Direi che sono essenzialmente due. La prima: la nostra fede non riguarda una terra (la nostra terra), riguarda il mondo intero. Ricordiamoci che fin dall’inizio i cristiani si sono sentiti stranieri in ogni terra, e hanno sentito ogni terra come la loro patria. Ecco perché uno dei più grandi peccati dei quali i cristiani si sono macchiati nella storia è stato il nazionalismo, peggio ancora se associato alla fede. Una fede intrisa di qualsiasi forma di nazionalismo contrasta radicalmente con il messaggio evangelico. Seconda novità: l’essere cristiani ci porta a trascendere tutti i legami “naturali” di qualunque tipo: legami di sangue, di lingua, di cultura, di appartenenza etnica… E nemmeno la famiglia, nel cristianesimo, ha l’ultima parola: ricordiamo che i discepoli sono stati strappati alle loro famiglie. Vorrei però cercare di approfondire meglio, insieme a voi, questa immagine dello straniero condotto dalla luce divina ad avvicinarsi a Israele – o a quel “nuovo Israele” che è la comunità dei credenti in Cristo. Certo, ai nostri giorni l’immagine dello straniero che si avvicina alle nostre chiese è ormai familiare. Molte delle nostre chiese sono diventate multietniche, multiculturali; l’immigrazione, soprattutto dai Paesi extraeuropei, ha dato alle nostre comunità un nuovo volto, creando situazioni ricche di potenzialità e al tempo stesso di problemi. Penso, tuttavia, che non siano solo le sorelle e i fratelli di altra nazionalità coloro che possiamo identificare con gli “stranieri” di cui parlano Isaia, Matteo e Paolo. Ho in mente degli “stranieri” che si possono considerare molto più “stranieri” dei nuovi membri di chiesa provenienti da Paesi lontani. Questi, infatti, pur diversissimi da noi sotto molteplici aspetti hanno in comune con noi un elemento fondamentale: la fede in Cristo. Io credo, invece, che dalle letture bibliche di oggi noi siamo chiamati soprattutto a tenere “le nostre porte sempre aperte” (per dirla con Isaia) a quelle tante persone che sono “straniere” alla fede eppure in stato di continua, inquieta ricerca, proprio come i magi. Affinché dalle nostre porte aperte possa filtrare per loro qualche raggio di quella luce divina che guiderà i popoli a Gerusalemme, che guidò i magi a Betlemme; e anche, sì, affinché attraverso queste porte aperte noi possiamo ricevere i tanti doni che gli “stranieri” (tutti!) hanno da offrirci; doni che dobbiamo saper riconoscere, perché possono contribuire all’edificazione della nostra comunità: “i figli dello straniero ricostruiranno le tue mura”, dice Isaia. Questa collaborazione degli stranieri al benessere della città santa non lascia nulla com’era prima: né le mura di Gerusalemme, né gli stranieri stessi, che hanno imparato a identificarsi con le sorti di Gerusalemme. Così pure credo, anzi ne sono certa, che dopo il loro avventuroso viaggio a Betlemme i magi non siano più stati gli stessi di prima. Credo, in altre parole, che non esista Manifestazione senza trasformazione. Ecco, allora, la mia piccola, modestissima eppure audace “visione”: che chiunque, di qualunque provenienza, entri in contatto con questa nostra comunità ne risulti in qualche modo, sia pure impercettibilmente, trasformato. Forse è questo il compito che Dio ci assegna. Certo è comunque che, se così avverrà, allora davvero la luce dell’Epifania risplenderà su di noi per l’intero anno.

 (Sermone a cura della nostra Pastora, Caterina Griffante)