Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 7 APRILE 2013 (Is 41: 8-10, 14 Lc 24: 45-48, At 1: 1-3, 8 testo di predicazione)

Sarete miei testimoni

Lo abbiamo visto domenica scorsa, domenica di Pasqua: “Pasqua” in senso cristiano significa “fare esperienza personale di Gesù come Risorto”. Un’esperienza che consiste sempre, sebbene in forme sempre nuove e varie, in un incontro e in un dialogo. Ogni esperienza di fede cristiana è basata sull’ “aver incontrato Gesù”. A confermare la realtà di questo evento fondante, costitutivo della nostra fede, che è la risurrezione, ci sono proprio queste molteplici esperienze delle quali ci è stata tramandata testimonianza. “Voi siete testimoni di queste cose”, è la parola che il Risorto rivolge ai suoi, così come viene registrata alla fine del vangelo di Luca. E sappiamo che questa testimonianza è continuata, ininterrotta, da allora fino ai giorni nostri. Una catena di incontri con il Risorto, incontri che sono avvenuti e avvengono secondo le modalità più svariate: può trattarsi di rivelazioni fulminee, traumatiche, che ti piombano tra capo e collo e ribaltano completamente le tue convinzioni, le tue abitudini, la tua scala di valori, ti sovvertono l’esistenza, come avvenne a colui che sarebbe diventato l’apostolo Paolo; può trattarsi invece di inviti insistenti ma sussurrati, di quel “bussare alla porta” tenace ma discreto di cui parla l’Apocalisse (3: 20), e in questo caso bisogna che il nostro animo sia attento e pronto a coglierli, questi segnali. Segnali di che cosa? Della volontà del Risorto di continuare a stare con noi, a camminare con noi. È una volontà ostinata, questa del Risorto; una volontà di stare con noi nonostante tutto, nonostante ciò che noi siamo: “vermiciattoli”, “povere larve”, per dirla con Isaia. Ma il nostro Dio è un Dio che, in Gesù, ha manifestato la sua determinazione a essere Dio-con-noi, a non abbandonarci mai. “Tu, non temere, perché io sono con te”, dice il Signore al suo popolo, Israele. Il Risorto è il Dio che è con noi per sempre, il Dio che non dobbiamo mai piangere credendolo lontano, credendolo assente, credendolo addirittura morto. “Perché piangi?” hanno domandato dapprima gli angeli, poi il Risorto a Maria di Magdala. Come a sottintendere: “che motivo hai di piangere? Non c’è motivo di piangere”. Nel giorno di Pasqua ha avuto inizio un tempo nuovo, un tempo nel quale non c’è più posto per le lacrime. Certo, le lacrime per noi, per tutti, ci saranno ancora, fino alla fine dei tempi; ma il cristiano sa che queste lacrime sono ormai solo una realtà penultima, perché la realtà ultima è un’altra: è la certezza che, al di là di tutte le lacrime che potremo versare, Dio sarà sempre vicino a noi nella persona del suo Figlio, e che questo Figlio è qualcuno che desidera incontrarci, e farsi incontrare da noi. E ogni incontro con il Risorto implica un mandato missionario. In Giovanni, Maria di Magdala viene incaricata di evangelizzare gli altri discepoli (“… va’ dai miei fratelli, e di’ loro…”, Gv 20: 17). In questi versetti iniziali del libro degli Atti, leggiamo che Gesù “si presentò vivente” ai discepoli, “facendosi vedere da loro”, “parlando delle cose relative al regno di Dio”, per spalancare loro, infine, gli orizzonti di una vocazione missionaria che li porterà “fino all’estremità della terra”. “Mandato missionario”: un’espressione altisonante, che un po’ forse intimidisce, un po’ forse, addirittura, infastidisce, in quanto sembra riferirsi ad ambiti di esperienza che non sono di tutti, che sembrano, anzi, riservati a una stretta e selezionata minoranza all’interno delle nostre chiese. A evangelizzare sono deputati i pastori, i predicatori locali; alcuni di questi “specialisti” potranno forse spingersi in qualche particolare occasione “fino all’estremità della terra” o giù di lì, ma il loro raggio d’azione, per lo più, è geograficamente molto limitato: vada per Gerusalemme, mettiamoci pure la Giudea e Samaria (potremmo tradurre, nel nostro caso: Padova, Venezia, qualche puntata fino a Udine a est, fino a Vicenza a ovest…), ma poi…? Poi? Non spetta a noi dirlo. Non spetta a noi valutare fino a dove possa espandersi una testimonianza. Pensiamo, sorelle e fratelli, alle nostre esperienze più personali di incontro con il Risorto. Nessuna di queste esperienze – credo di poterlo affermare senza timore di essere contraddetta – si è generata dal nulla. L’incontro non nasce mai dal nulla. Nessuno si dà la propria fede da sé. In altre parole: nessuno di noi scrive il primo capitolo. C’è un primo libro, quello che Dio ha scritto per noi in Gesù Cristo, e noi siamo il secondo. Teofilo (nome che significa “amico di Dio”, che forse designa un personaggio reale e forse, invece, è un nome fittizio, che simboleggia tutti coloro che hanno amore per Dio), Teofilo, dicevo, riceve la testimonianza della fede da Luca. Ciascuno di noi è un Teofilo che necessita di un suo Luca per arrivare alla fede, e ciascuno di noi può essere Luca per un altro Teofilo. Direi che anche l’incontro più “immediato”, quello cioè senza alcuna mediazione apparente, tra noi e il Signore, ha sempre alle spalle un altro incontro in cui la mediazione è stata decisiva. E non è detto che debba sempre trattarsi di un “addetto ai lavori”: del pastore, del monitore della scuola domenicale, che un giorno ci hanno spiegato qualcosa in un modo che ci ha coinvolti, ci ha interpellati. Può trattarsi anche di testimonianze quasi inconsapevoli: quella, per esempio, della nonna che ha scelto a guida e orientamento della sua vita un determinato versetto della Bibbia, e quel versetto lo ha fatto incorniciare, lo ha appeso a una parete dove noi fin da bambini abbiamo avuto occasione di vederlo, e abbiamo cominciato a far domande, e a farci domande. O, ancora, la testimonianza di chi, senza parlarci mai di cose di fede, si è comportato con noi in modo tale da farci sentire che aveva incontrato il Signore risorto e vivente, un Signore pieno di interesse per noi e al quale, dunque, vale la pena che anche noi ci interessiamo. Gli esempi si potrebbero moltiplicare: esempi di testimonianze che partono da lontano e che possono davvero trasmettersi, di Teofilo in Teofilo, “fino all’estremità della terra”. Dunque, un punto deve essere chiaro: l’“essere testimoni” di cui si parla in questo passo degli Atti non equivale a proclamare ad alta voce e in modo pubblico le proprie convinzioni, precisando che cosa è giusto e che cosa è sbagliato, che cosa bisogna credere e che cosa non bisogna credere. Guardiamo a come si comporta Gesù: raramente indica soluzioni ai problemi dei suoi interlocutori, quasi sempre sposta l’ottica, chiama a una conversione dello sguardo e del cuore. Non siamo chiamati – e inviati – a testimoniare una soluzione, un’ideologia, starei per dire un prodotto a scapito di un altro. Siamo chiamati – e inviati – a testimoniare che ciò che è accaduto a noi – dal momento che Dio è grande – non può non accadere anche a te. Dio ha benedetto la nostra vita, l’ha fatta fiorire e – che tu ci creda o no, che tu ci speri o no, che tu lo sappia o no –, poiché Dio è buono e grande, ciò che è accaduto a me, non si vede perché non dovrebbe accadere anche a te. Essere testimoni significa rimanere lì a far fiducia sulla possibilità di fioritura della vita di un altro, soprattutto quando lui stesso non ci crede più. Non è una faccenda da poco. Eppure, le cose stanno proprio così. Ce lo indica anche quell’espressione molto particolare di Luca che dice come Gesù “dopo che ebbe sofferto, si presentò vivente con molte prove”. Un’espressione che a me sembra bellissima. Qui la parola chiave è “vivente” e la questione è ovviamente la vita, ma è interessante in che senso è intesa questa espressione. Non si dice “vivente dopo la morte”, ma “vivente dopo che ebbe sofferto”. Luca sta dicendo che è possibile essere “vivente dopo aver sofferto”: è possibile, perché tale si mostra il Risorto dai morti prima di ascendere al cielo. Gesù, dunque, ha sofferto, è morto ed è risorto. Appare agli apostoli, e di che cosa parla loro? Del regno di Dio. Non parla di sé, di quanto ha sofferto, della propria morte, e nemmeno della risurrezione. Parla, in sostanza, della nuova creazione, del nuovo mondo che da questo momento inizia. Quello che Luca ci vuol dire è: c’è molto da fare, per i discepoli di Gesù, e si tratta di un “fare” che deve corrispondere alla vita così com’è, al mondo come dovrebbe essere secondo il regno di Dio. Gesù non parla di sé, non focalizza l’attenzione su ciò che è successo. Invita a guardare oltre. Tutto questo ci invita a riflettere sul fatto che se uno ha incontrato il Signore non è detto che si mostri molto più pio o religioso di prima. Può accadere, ma non è l’elemento decisivo. Chi ha incontrato il Signore, piuttosto, è qualcuno che riesce a essere e a mostrarsi “vivente” anche “dopo che ebbe sofferto”, o addirittura vivente dentro il proprio soffrire, durante il proprio soffrire: perché è qualcuno che ha lo sguardo fisso oltre a sé stesso, ha lo sguardo fisso al regno di Dio. E tutto questo ci suggerisce anche di considerare sotto una diversa angolatura la questione della testimonianza “fino all’estremità della terra”. Questo riferimento geografico può alludere, in realtà, a un viaggio molto più difficile e al tempo stesso semplice: la testimonianza deve raggiungere la totalità di ogni vita, nella sua effettiva lunghezza, nella sua maestosa larghezza e nella sua sconfinata profondità, confidando che può avere ogni fioritura possibile. Sì, i confini della terra stanno a indicare la necessità di testimoniare – riprendo quanto accennavo prima – la fiducia che Dio farà fiorire qualsiasi pezzo di qualsiasi vita. Quando? Non spetta a noi conoscere i tempi. Spetta a noi, piuttosto, esercitare la forza che ci è data da Dio per tenere duro, per tenere i piedi piantati nella vita in cui siamo, continuando a rispondere a quella che è la nostra vocazione terrena: lavorare, mangiare, parlare, aver cura, ascoltare, ospitare, visitare… Saldi, senza arretrare, cercando di manifestare nella nostra vita la felicità, la fioritura, la benedizione e la misericordia che sono i segni del regno di Dio. E cercando di testimoniare a tutti coloro che incontriamo che, se per noi questo è possibile, se abbiamo la forza di non arretrare e di benedire, questo accadrà a chiunque, perché Dio non fa distinzione di persone. Amen

Sermone a cura della nostra Pastora, Caterina Griffante