Sermone: Predicazione di Domenica delle Palme – Is 50, 4-9

Il Signore, Dio, mi ha dato una lingua pronta, perché io sappia aiutare con la parola chi è stanco, Egli risveglia, ogni mattina, risveglia il mio orecchio, perché io ascolti come ascoltano i discepoli.

La folla identificava Gesù come “colui che viene nel nome del Signore, il re d’Israele”, riconosceva pertanto in lui una figura investita della missione di liberare e governare il popolo di Israele; una missione, dunque, certamente carica di valenze spirituali eppure in primo luogo politica. All’atteso sovrano, che la folla credeva fosse finalmente venuto nella persona di Gesù, spettavano gloria, onori, l’obbedienza del popolo, il dominio su Israele. Si trattava, in altre parole, di un uomo di potere: di un potere concepito secondo criteri umani. Una figura nella quale, indubbiamente, Gesù non poteva riconoscersi. Eppure, Gesù non si sottrae a questo trionfo: anzi, come raccontano le versioni dell’ingresso in Gerusalemme riportate dai vangeli sinottici è Gesù stesso a voler conferire a questo ingresso un carattere pubblico e solenne, è Gesù stesso a  incaricare i suoi discepoli di procurargli a questo scopo una cavalcatura, è Gesù stesso a non sottrarsi all’omaggio della folla. […]  Solo, il suo concetto di regalità era diverso da quello della folla, questo inviato dal Signore non è un re, non è un potente, non è un grande della terra: è un servo, e per giunta un servo sofferente, maltrattato, vittima di ogni sorta di oltraggi. Isaia parla di un servo tutto particolare: il servo del Signore. Sappiamo che gli esegeti hanno molto discusso sull’identità di questo servo del Signore: chi lo ha identificato con l’intero popolo di Israele, chi con un singolo, forse il profeta stesso, o forse una figura messianica; la tradizione cristiana ha riconosciuto in lui la prefigurazione di Cristo. Chiunque sia questo servo del Signore, quello che ci interessa sono le sue caratteristiche. Ricordiamo che nell’antico Israele “servo del Signore” designava il re stesso. Questa qualifica, se ci pensiamo bene, denota una condizione di straordinaria dignità, in quanto – paradossalmente – questo tipo di servitù equivale al massimo grado di libertà. “Servo del Signore” significa, in linguaggio biblico, uomo libero, il più libero che si possa immaginare, in quanto chi è “servo del Signore” non può essere, al tempo stesso, servo degli esseri umani.

La storia umana è impastata di sofferenza; eppure, il servo crede a Dio come al Dio della storia, e sa quindi che la sofferenza non avrà l’ultima parola. Nel frattempo, il servo la sofferenza la assume su di sé senza perdere la speranza, proprio come Giobbe; e con questa sua saldezza, oltre che con la sua “lingua pronta”, è in grado di divenire “luce delle nazioni”, di farsi testimone della potenza creatrice e rinnovatrice di Dio che rianima chi è stanco, chi è sfiduciato. Il servo, sofferente ma non disperato, non sconfitto, ancora in grado di annunciare le cose nuove di Dio, mostra che anche nella tragedia c’è uno spiraglio, che c’è una possibilità aperta anche là dove non è facile riuscire a vederla. E insegna la pazienza, il rispetto del tempo del Signore, che, a differenza del nostro, è spesso un tempo lungo. In questo tempo, però, i persecutori finiranno logorati come un vestito ormai consunto mentre lui, il servo, vedrà la sua apparente sconfitta tramutarsi in vittoria: non la sua vittoria, ma la vittoria del Signore. […]

(Estratto dalla riflessione della pastora Caterina Griffante)