Sermone: SPERARE L’IMPOSSIBILE

Romani 8:18-25

Infatti io ritengo che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria che dev’essere manifestata a nostro riguardo. Poiché la creazione aspetta con impazienza la manifestazione dei figli di Dio; perché la creazione è stata sottoposta alla vanità, non di sua propria volontà, ma a motivo di colui che ve l’ha sottoposta, nella speranza che anche la creazione stessa sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella gloriosa libertà dei figli di Dio. Sappiamo infatti che fino a ora tutta la creazione geme ed è in travaglio; non solo essa, ma anche noi, che abbiamo le primizie dello Spirito, gemiamo dentro di noi, aspettando l’adozione, la redenzione del nostro corpo. Poiché siamo stati salvati in speranza. Or la speranza di ciò che si vede, non è speranza; difatti, quello che uno vede, perché lo spererebbe ancora? Ma se speriamo ciò che non vediamo, l’aspettiamo con pazienza.

Il passo di Paolo che abbiamo letto stamattina è di una rara potenza perché affronta il cuore stesso della nostra fede, del nostro travagliato rapporto con Dio, perché ci accompagna dalla disperazione provocata dalla nostra sofferenza fino alla speranza della nostra redenzione. Paolo afferma che

“siamo stati salvati in speranza. Or la speranza di ciò che si vede, non è speranza; difatti, quello che uno vede, perché lo spererebbe ancora? Ma se speriamo ciò che non vediamo, l’aspettiamo con pazienza.”

Ma come si può giungere alla speranza, se si è totalmente circondati dalla disperazione? Non ho bisogno, credo, di insistere a lungo sulle sofferenze che viviamo e che ci fanno sentire vicinissimi all’apostolo. Anzi, potremmo arrivare a pensare che oggi più di allora la vita ci appare tremenda e angosciosa: in questi secoli abbiamo infatti ucciso e massacrato uomini, donne, bambini e talvolta siamo arrivati a sterminare intere popolazioni, abbiamo assistito in silenzio alla tratta degli schiavi africani, alla shoa, all’annientamento dei nativi americani; ma abbiamo anche sfruttato e depredato l’ambiente che ci circonda. Mai come ora ci pare di poter affermare che tutta la creazione geme. Tutta la creazione: gli animali in via di estinzione, spesso cacciati per puro divertimento, o quelli allevati in condizioni tremende, costretti a vivere tutta la vita all’interno di gabbie nelle quali è loro impedito qualsiasi movimento, ma anche gli ambienti naturali, distrutti e soppiantati da un ecosistema che ci toglie la vita. Non voglio fare un sermone ambientalista. Non è questo il momento, né, forse, la sede giusta, ma volevo solo rendervi presente lo sfacelo in cui abbiamo gettato, talvolta per buone ragioni, spesso solo per speculare ed arricchirci, la Creazione. L’intera Creazione. Se stessi facendo una conferenza, soppeserei i pro e i contro, valuterei l’impatto delle nostre scelte, a volte portatrici di progresso e talaltra scellerate. Ma quello che oggi voglio sottolineare è solo che non facciamo alcuna fatica a comprendere questa affermazione di Paolo:

“La creazione aspetta con impazienza la manifestazione dei figli di Dio; perché la creazione è stata sottoposta alla vanità, non di sua propria volontà, ma a motivo di colui che ve l’ha sottoposta”

La creazione aspetta con impazienza: la creazione violata e ormai lontana dalla propria vocazione, aspetta con impazienza. La creatura umana ha costretto, dice Paolo, tutta la creazione ad essere inutile, ad essere vana, a perdere la propria vocazione e la propria identità. Ma la creazione aspetta perché, ed è questo un passo profondo e sul quale non meditiamo forse abbastanza, la redenzione non può che essere totale e riguardare l’intera creazione. Non si tratterà, dice Paolo, di un evento spirituale, un pochino astratto, a cui approdare attraverso l’ascesi, ma sarà qualcosa che ci coinvolgerà nella nostra totalità, nella nostra integrità di creature, uomini e donne, ma anche piante, animali, acque e montagne. L’aver trasformato la salvezza in qualcosa di astratto, ci permette di vivere come se essa non esistesse, di relegarla alle nostre preghiere domenicali, come se fosse cosa che in fondo non ci riguarda. Ma Paolo non pensa questo e ci ammonisce affermando che la redenzione, per essere tale, non può che riguardare tutta la creazione voluta da Dio.

Ma l’apostolo afferma che

“le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria che dev’essere manifestata a nostro riguardo.”

Le nostre sofferenze, le nostre tragedie, non sono paragonabili alla gloria. Cosa significa? Non si tratta di una facile scappatoia, una specie di consolazione per l’umanità avvolta nel dolore, perché, e Paolo lo sa bene, anche noi, che pur abbiamo le “primizie dello Spirito”, che pur siamo i destinatari della rivelazione, che pur abbiamo incontrato Gesù, anche noi continuiamo a gemere e soffrire e non c’è scappatoia consolatoria che tenga.

Dentro di noi non c’è realmente una possibilità di redenzione perché dietro e dentro ad ogni nostro dolore, anche il più piccolo e banale, c’è, bruciante, il tema della nostra finitezza, della nostra limitatezza che sembra distruggere la speranza. Certo possiamo sperare di trovare lavoro, una casa più bella, un buon marito, dei figli di cui andare orgogliosi, ma non possiamo cancellare la nostra finitezza. E non è pensando all’armonia dell’universo che riusciamo a sfuggire a questa angoscia di fondo, a questa consapevolezza, dalla quale non possiamo sottrarci perché anche l’eternità, vista con i nostri occhi, è limitata, è delimitata.

Possiamo immaginare un tempo lungo, lunghissimo, così lungo da non riuscire a vederne la fine, ma non possiamo capire, realmente, cosa sia l’eternità. Possiamo quindi immagine un’armonia che ci rassereni, ma sarà pur sempre e solo il contrario della disarmonia nella quale siamo immersi.

E Paolo risponde proprio a questo: non è guardando noi stessi che possiamo trovare una soluzione, non è prolungando artificialmente la nostra vita, non è annebbiandoci con l’alcool o con la musica new-age, non è ammazzandoci di lavoro, che possiamo incontrare la speranza, ma solo rivolgendoci al “completamente altro”. Le sofferenze del tempo presente non sono paragonabili, perché sono le nostre sofferenze, il nostro confine.

Per trovare la Consolazione dobbiamo prima di tutto accogliere la realtà che noi non possiamo dare consolazione, non possiamo essere consolazione, perché la consolazione in realtà non ci appartiene, è totalmente altro, o come dice Paolo

“la speranza di ciò che si vede, non è speranza; difatti, quello che uno vede, perché lo spererebbe ancora?”

La consolazione dunque arriva proprio quando ci lasciamo andare, quando accogliamo nel nostro cuore e nella nostra vita il totalmente Altro, colui che solo può accogliere la nostra disperazione e trasformarla in speranza. Amen!

Erica Sfredda