Sermone: UNA DONNA TESTIMONE

11 Maria invece stava all’esterno, vicino al sepolcro, e piangeva. Mentre piangeva, si chinò verso il sepolcro 12 e vide due angeli in bianche vesti, seduti l’uno dalla parte del capo e l’altro dei piedi, dove era stato posto il corpo di Gesù. 13 Ed essi le dissero: «Donna, perché piangi?». Rispose loro: «Hanno portato via il mio Signore e non so dove l’hanno posto». 14 Detto questo, si voltò indietro e vide Gesù, in piedi; ma non sapeva che fosse Gesù. 15 Le disse Gesù: «Donna, perché piangi? Chi cerchi?». Ella, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: «Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove l’hai posto e io andrò a prenderlo». 16 Gesù le disse: «Maria!». Ella si voltò e gli disse in ebraico: «Rabbunì!» – che significa: «Maestro!». 17 Gesù le disse: «Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma va’ dai miei fratelli e di’ loro: «Salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro»». 18 Maria di Màgdala andò ad annunciare ai discepoli: «Ho visto il Signore!» e ciò che le aveva detto.  (Giovanni 20,1-18)

Una premessa: la scrittura cresce con colui che la legge. Non c’è Parola di Dio nella scrittura, ma nella lettura! Chi l’ha scritta, ha raccontato la sua esperienza di Dio. Esperienza di Dio elaborata in forma di testo. Noi non siamo la religione del libro, ma della Parola.

Nel brano appena letto viene narrata una sconvolgente esperienza di Dio, quella che fece Maria di Magdala “il primo giorno della settimana”, la domenica, dopo la morte di Gesù.

Inizia così: “Maria invece era rimasta presso il sepolcro. Perché “invece”? Perché era appena stata raccontata la corsa di Pietro e dell’altro discepolo che Gesù amava (così dice il vangelo di Giovanni) verso il sepolcro, dopo che Maria stessa aveva trovato la pietra, che chiudeva la tomba vuota, rimossa, ed era andato a dirlo ai discepoli. Pietro e l’altro apostolo videro la tomba vuota, i teli ed il sudario, l’altro discepolo si dice persino che “vide e credette”, ma poi se ne tornarono a casa. Lei, invece, Maria, rimane a contemplare il mistero, rimane “fuori vicino al sepolcro a piangere. Non riesce a tornare a casa, non riesce ad andarsene, non riesce a darsi pace. Lei che si era recata di buon mattino al sepolcro, mossa da immensa gratitudine e amore per il suo maestro, per cercare di recuperare il suo corpo senza vita, è ora immersa in lacrime di dolore.

Il suo è il pianto amaro di chi sa cosa significhi perdere l’amore che salva, è il pianto dell’umanità che ha rinchiuso in un sepolcro il suo Dio, è la tristezza profonda per un crimine assurdo, è ancora l’incapacità di comprendere come possa accadere che il Figlio di Dio rimanga definitivamente in un sepolcro. Il pianto di Maria e le sue lacrime sono l’immagine di quel dolore acuto, profondo, duro da far male a chi lo vede delle persone che hanno vissuto da vicino la morte. Non ci si riesce a muovere, o ci si muove e si dicono cose inessenziali, come questo disperato ripetere di Maria di Magdala: “Hanno tolto il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno messo; Signore, se tu l’hai portato via tu, dimmi dove l’hai posto, e io andrò a prenderlo”.

La morte crea un vuoto terribile dentro la vita, dentro la casa, dentro i pensieri. Un vuoto assoluto che questa tomba, svuotata anche del corpo, amplifica. Quella persona amata non c’è più perché è morta, e ora non c’è più neanche il suo corpo. Come quando si ritorna dal funerale di chi ha vissuto con te, di chi hai amato e che ti ha amato: la morte ti ha tolto tutto, anche il corpo, ti ha lasciato il vuoto.

La Pasqua ha a che fare con questo, con la morte vera, con quel vuoto invisibile ed incolmabile, con quel bisogno di ritrovare il corpo, con quel desiderio inesaudibile di rivedere il corpo, persino di toccarlo. Questo è ciò che accade il mattino di Pasqua, che Gesù, che era morto, è stato risuscitato: per forza Maria di Magdala non riesce a capire, a sentire, a vedere. Per forza non riconosce gli angeli e non riconosce nemmeno Gesù: perché la sua vita è rimasta al di qua della risurrezione, al di qua della vita, impastata nella morte, dentro l’ordine del cimitero, dove tutt’al più puoi incontrare due angeli, che molto probabilmente lei scambia per dei giardinieri, degli addetti ai lavori che possono aver spostato il corpo per esigenze professionali.

Ricordiamocelo: nessuno sa effettivamente cosa sia successo con la resurrezione, e questo perché non c’erano testimoni. Questa è la grande differenza tra la Pasqua e la morte di Gesù. La morte di Gesù è stata vista da molte persone, sia discepoli, sia poi il centurione che fa la sua confessione di fede quando vede morire Gesù. Quindi ci sono tanti testimoni. Ma la resurrezione non ha testimoni e questa è la sua forza e la sua debolezza. È la sua forza perché è, appunto, una sfida aperta alla fede, nel senso che noi crediamo ciò che non vediamo. E questo è lo statuto proprio della fede. La fede è proprio questo credere nell’invisibile, nel Dio invisibile, nel Cristo invisibile. In definitiva la cosa che induce a dire che la Pasqua non è un’invenzione dei discepoli è proprio il fatto che nessuno se l’aspettava. Il fatto che loro non ci hanno creduto è il motivo per cui noi ci crediamo. Al venerdì santo non è solo morto Gesù, è anche morta la fede in lui. E quindi dopo il venerdì santo tutti erano pronti a ritornare ai loro mestieri. C’è addirittura una parola molto significativa dell’apostolo Pietro che in sostanza dice: io torno a pescare. Ma la Pasqua ha questa caratteristica: di smentire la realtà, che vorrebbe tutto finito, un capitolo chiuso. E invece no, Dio lo riapre. Naturalmente i testi balbettano, ma anche questo è un segno positivo per la fede, perché dimostra che la Pasqua è la sorpresa assoluta, ciò che nessuno immaginava. La resurrezione è il messaggio meno credibile, questo è il punto. Eppure è questo messaggio meno credibile di qualunque altro che ha fondato, o meglio, rifondato la fede che era morta, ha risuscitato la fede. A Pasqua non risuscita solo Gesù, risuscita anche la fede in Gesù. Non è la fede dei discepoli che ha resuscitato Gesù, ma è Gesù risorto che ha resuscitato la fede dei discepoli. È ai piedi del risorto che nasce la fede cristiana.

Il brano termina con questa affermazione: “Maria andò ad annunciare ai discepoli “Ho visto il Signore!” e ciò che le aveva detto”. Forse non ci rendiamo conto di questa incredibile novità: Gesù affida il suo annuncio di vittoria e di grazia ad una donna. Gesù comincia questa nuova storia, che nasce dalla sua Resurrezione, da una donna. Non comincia più come aveva cominciato all’inizio del suo ministero, scegliendo dodici uomini: Pietro, Giacomo, Giovanni, Andrea, Filippo e tutti gli altri. A nessuno di questi Gesù appare per primi. A nessuno di loro Gesù affida la più grande e bella notizia mai udita in questo mondo, la notizia che per una volta la morte è stata vinta, che per una volta la morte non ha avuto l’ultima parola. Questa notizia che sta al cuore della fede cristiana ed è la ragione incrollabile della nostra speranza, Gesù non l’ha affidata ai grandi apostoli uomini, uno dei quali l’ha tradito, l’altro l’ha rinnegato tre volte e tutti, senza eccezione, l’hanno abbandonato, non a loro Gesù ha affidato il messaggio più grande, quello decisivo, la parola-chiave della fede e della storia: “Risurrezione!”, quella che più e meglio di ogni altra ci porta vicino al mistero di Dio.

Affidando questa parola ad una donna Gesù va completamente contro corrente, perché allora le donne non erano accettate come testimoni nei tribunali; la loro parola non valeva niente. Gesù distrugge questa discriminazione affidando proprio a una donna la testimonianza più importante di tutte. E qual è questa testimonianza? Che colui che era scomparso, appare; colui che sembrava assente, è presente.

È presente, ma ricordiamocelo, non è riconosciuto. Questo è il destino di Dio nel mondo: essere presente e non essere riconosciuto. Si parla tanto della assenza di Dio: ma Dio non è assente, è presente, ma non è riconosciuto. Come succede qui a Gesù: “Maria vide Gesù in piedi, ma non sapeva che era Gesù” (20,14). Lo vede, ma non lo riconosce. Perché non lo riconosce? Certamente perché il corpo risorto di Gesù è diverso da quello che aveva durante la sua vita, è un corpo nuovo, e il fatto che Maria non lo riconosca esprime appunto la diversità e novità del corpo risorto rispetto a quello di prima.

Ma il tema di vedere e non riconoscere è molto ampio e concerne il nostro modo di guardare tutta la realtà che ci circonda. Ad esempio: vedere il cielo e la terra e non riconoscere la mano di Dio; vedere la creatura e non riconoscere il Creatore; vedere la vita e non riconoscere “la Fonte della vita” (Salmo 36,9); vedere l’altro e non riconoscere il prossimo; vedere il prossimo, e non riconoscere il fratello; vedere un malato, un carcerato, un profugo, un affamato e non riconoscere quello che Gesù chiama uno dei suoi “minimi fratelli” (Matteo 25,40). Che cosa vuol dire “riconoscere”? Vuol dire vedere quel che non si vede, vedere oltre le apparenze, vedere quel che è nascosto agli occhi del corpo, ma è evidente agli occhi del cuore; in una parola vedere l’invisibile. Come dice l’apostolo Paolo: “Noi abbiamo lo sguardo intento non alle cose che si vedono, ma a quelle che non si vedono; perché le cose che si vedono sono solo per un tempo, ma quelle che non si vedono sono eterne” (II Corinzi 4,18).

Maria non riconosce subito Gesù, ma poi lo riconosce. Quando? Quando Gesù le parla. Finché Dio resta muto, è un enigma, una grande domanda senza risposta, uno sconosciuto. Dio lo si conosce e riconosce nella sua Parola. Quando Gesù parla, allora Maria lo riconosce. E che cosa le dice Gesù? Non le dice, come potremmo aspettarci: “Io sono Gesù, non sono il giardiniere”, no, le dice: “Tu sei Maria; ti conosco e ti riconosco”. E Maria risponde: “Rabbunì!” che vuol dire Maestro! C’è dunque qui un doppio riconoscimento: Maria riconosce Gesù nel momento in cui Gesù riconosce Maria!

Ora c’è una ragione per non piangere, una sola, ma c’è: Gesù è risorto, la morte è stata vinta, l’ultima parola ce l’ha la vita e non la morte, la libertà e non l’oppressione, la giustizia e non l’ingiustizia, il bene e non il male, la gioia e non il dolore. Si, c’è una ragione per non piangere, una sola, ma c’è: è quella che celebriamo in questo culto e che vogliamo gelosamente custodire nel nostro cuore, per non dimenticarla nel giorno delle lacrime. Gesù si trova già aldilà del confine della morte, nel mondo nuovo di Dio, ma non dimentica il nostro nome e ci chiama: “Maria!” “Salvatore” “Francesco” “Mary”. Mettiamo il nostro nome al posto di quello di Maria, scriviamolo nella nostra Bibbia. Gesù risorto, dall’altro versante della realtà, ci chiama per nome a entrare nella comunità della risurrezione, dove si sa che l’ultima parola ce l’ha Lui, e non la morte, Lui, il primo e l’ultimo, il vivente nei secoli dei secoli.  AMEN

Fabio Barzon