Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 05 MAGGIO 2013 (Sal 1; Gal 2: 20; Gv 16: 25-33 testo di predicazione)

“Fatevi animo …. Io ho vinto il mondo!”

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Questo intensissimo passo del vangelo di Giovanni è incastonato nell’ultimo discorso rivolto da Gesù ai suoi discepoli prima del precipitare degli eventi, prima dell’arresto notturno che lo condurrà al processo, alla tortura e alla morte. Il capitolo che immediatamente segue e quello che immediatamente precede li abbiamo, forse, più impressi nella memoria: perché il cap. 15 è quello in cui Gesù descrive l’intimo legame tra sé e i suoi mediante un’immagine di straordinaria suggestione come quella della vite e dei tralci, mentre il cap. 17 ci tramanda la celebre preghiera sacerdotale, con la supplica al Padre “che siano tutti uno”: una supplica che ripetiamo ormai per tradizione, quasi per abitudine, nelle liturgie ecumeniche, una supplica nella quale Gesù chiede al Padre null’altro se non che la sua Chiesa ritrovi finalmente il suo volto originario, il volto che risponde al progetto di Dio su di lei, un volto non incrinato da fratture e discordie (e quando mai, possiamo domandarci in una sommessa parentesi, questa supplica verrà esaudita? Non occorre nemmeno guardare alle grandi divisioni tra chiese che dovrebbero trattarsi da sorelle; basta guardare nelle nostre rispettive case, basta guardare alle mille divisioni che lacerano le nostre comunità, anche le più piccole…). Il tema dell’amore è, insomma, il tema dominante di questi capitoli giovannei. Si tratta di amore divino e umano in tutte le sue possibili declinazioni: amore del Padre per il Figlio e del Figlio per il Padre; amore del Figlio per i suoi, per coloro che Gesù qui chiama suoi “amici” e che una volta risorto, nell’incontro con Maria di Magdala – ce lo ha ricordato il vangelo di Pasqua – chiamerà suoi “fratelli”; amore del Padre per questi “amici” e “fratelli” del Suo Figlio; amore reciproco che non può non sussistere tra questi amici e fratelli di Gesù. Una rete di legami luminosi, al cui intreccio appartiene anche l’affermazione di Gesù che risuona nel nostro testo: “il Padre stesso vi ama, perché mi avete amato”. E accanto al tema dell’amore eccone un altro, quello della pace, che potremmo definire un prodotto, un frutto dell’amore. Gesù, che già in precedenza aveva assicurato ai suoi “vi lascio pace; vi do la mia pace” (Gv 14: 27), ora ribadisce: “Vi ho detto queste cose, affinché abbiate pace in me”. È davvero necessaria, questa garanzia di una pace “nonostante tutto”, di una pace “a dispetto di tutto”, una pace più forte, più salda, più stabile di qualsiasi forza negativa e distruttrice. C’è bisogno di questa certezza. Ce n’era bisogno, allora, per i discepoli ai quali qui Gesù preannuncia un futuro portatore di “tribolazione”. Si riferiva, in primo luogo, al loro immediato futuro, che li avrebbe costretti a confrontarsi con eventi così traumatici da uccidere in loro ogni fiducia, ogni speranza; e credo che gran parte della “tribolazione” patita dai discepoli sia consistita nella scoperta della loro debolezza, della loro inaffidabilità, della loro pavidità, della loro prontezza a rinnegare e ad abbandonare quel loro Maestro che li chiamava “amici”, della loro incapacità di confortarlo anche soltanto con la loro presenza (pensiamo al sonno che li coglierà nel giardino del Getsemani). “Mi lascerete solo”: preannuncia Gesù a coloro che chiamava “amici”: e lasciarsi soli, tra amici, è qualcosa che ammazza l’amicizia – quando, beninteso, si tratta di semplice amicizia umana. Ecco perché era così necessario, per i discepoli, ricevere in anticipo la rassicurazione che la pace donata da lui è tutt’altra cosa dalla pace che dà il mondo (Gv 14: 27), perché, dice Gesù, è “pace in me”. E una pace in Gesù è appunto una pace “nonostante”: nonostante ogni tradimento, nonostante ogni abbandono, nonostante ogni miseria umana. Perché emana, questa pace, da un amore che non è di questo mondo, da un’amicizia che non è di questo mondo. Per questa stessa ragione, la pace che dà Gesù, la pace in Gesù, è anche una pace “nonostante” qualsiasi sofferenza provocata dagli altri, “nonostante” qualsiasi persecuzione. E ce n’è bisogno, di questa certezza di pace, anche per noi che tentiamo oggi di essere discepoli, cioè amici, fratelli di Gesù. Anche noi, sempre di nuovo, siamo costretti a confrontarci con la nostra costante tendenza ad abbandonare, a lasciar solo, a rinnegare, a tradire quello che pure abbiamo liberamente scelto come il nostro Maestro. Siamo esposti a questo rischio allorché si profila la possibilità che la coerenza con la nostra fede richieda un sia pur minimo prezzo da pagare. “Avere tribolazione nel mondo”, per usare il linguaggio di Giovanni – soffrire in qualche modo, cioè, per la nostra fedeltà al Signore – ma davvero ci è mai capitato, sorelle e fratelli? Non è certo la prima volta che pongo questo interrogativo, a voi e a me stessa; perché credo che noi e le nostre chiese, in questi tempi e in questo nostro Paese, siamo molto poco attrezzati a patire “tribolazione” per la causa di Gesù e del suo Evangelo. Anche quando la “tribolazione” si limita a qualche piccola scomodità, a qualche incrinatura nella nostra tranquilla routine quotidiana. Può accadere per esempio, che la nostra fede cristiana – specie se professata come la professiamo noi, cioè nella sua declinazione protestante – rischi di creare un senso di estraneità, di generare qualche impaccio, qualche diffidenza tra noi e gli altri: tra noi e i colleghi che frequentiamo quotidianamente sul posto di lavoro, tra noi e certi conoscenti appartenenti a qualche “giro” che ci sta particolarmente a cuore, addirittura tra noi e qualcuno dei nostri familiari… E allora, in questi casi, la nostra reazione è spesso molto simile a quella dei discepoli, ed è, in sostanza, quella di fare del nostro meglio per mimetizzarci con l’ambiente che ci circonda. Per seguire – richiamandoci al salmo 1 – una via che forse non sarà proprio la via degli “empi”, ma certo non è la via del Signore. Tutto questo non deve stupirci. Tale è l’animo umano; inutile farci illusioni. È sano realismo, non pessimismo esasperato, quello del Catechismo di Heidelberg, nel quale, alla domanda se sia possibile adempiere perfettamente a ciò che esige da noi la legge divina, l’essere umano risponde, parlando in prima persona: “No, perché sono per natura incline a odiare Dio ed il mio prossimo”. “Odiare” Dio? “Odiare” il prossimo? Ma quando mai, ci verrebbe da dire. Eppure, se teniamo presente che qui “odiare” va inteso come “non amare”, o quanto meno “non amare abbastanza”, allora non possiamo non riconoscere quanto sia profondamente vero, quanto appartenga all’esperienza di ciascuno di noi riconoscere l’esistenza di questa nostra innata inclinazione forse non all’odio, non al male, ma certamente all’egocentrismo, alla ricerca di sicurezza e di comodità e, di conseguenza, alla tiepidezza, alla cautela anche in ciò che richiederebbe invece dedizione appassionata, come la nostra fede. Tutto questo Gesù lo sapeva bene, tanto da adombrarlo in queste parole riportate da Giovanni: “sarete dispersi, ciascuno per conto suo, e mi lascerete solo”. Perché rompere la relazione con lui significa, inevitabilmente, anche rompere la relazione di amicizia e di fraternità che tiene unito il gurppo dei discepoli. Chi lascia solo Gesù non può non ritrovarsi solo a sua volta – ecco perché la solitudine è un malessere, potremmo dire una malattia, così diffusa oggi, anche tra coloro che si dicono cristiani. Perché per essere cristiani non basta “credere” a livello intellettuale. Era questo il “credere” dei discepoli: “Ora sappiamo che sai ogni cosa”, dichiarano, “perciò crediamo che sei proceduto da Dio”. Un “credere” di questo genere non merita altro che l’ironico ribattere di Gesù: “Adesso credete?”. Per il cristiano, Gesù Cristo non è l’oggetto di un insieme di dottrine o di dogmi. È qualcuno che vive, anzi il Vivente per eccellenza: qualcuno che lo ispira, lo anima, lo abita, e gli rende possibile affermare, con l’apostolo Paolo: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me”. Si è cristiani solo quando si è incontrato Cristo e si continua a incontrarlo come qualcuno che ci parla come nessuno ci ha mai parlato, che ci ispira come mai siamo stati capaci di parlare o di amare, che ci fa felici come mai siamo stati, che rende feconda la nostra vita, generosa, allegra, coraggiosa come mai avremmo creduto possibile. Il cristiano non è una persona necessariamente migliore delle altre. È qualcosa di diverso: è uno che è abitato, uno che sa che abita in lui un Altro. Domandiamoci dunque, sorelle e fratelli: siamo abitati o siamo soli? Compiangiamo la nostra solitudine o viviamo con una presenza? Una cosa, tuttavia, deve essere ben chiara: non siamo autorizzati a compiangerci, non a demoralizzarci, per nessun motivo; nemmeno per la nostra inadeguatezza, quella irrimediabile inadeguatezza che connota da sempre i discepoli di Gesù. Questa domenica appartiene ancora al tempo di Pasqua, e il tempo di Pasqua è il tempo privilegiato per ricordare che allorché sono cominciati gli incontri con il Risorto il gruppo dei discepoli ha finito una volta per tutte di essere un gruppo di gente demoralizzata, demotivata, spenta, priva di prospettive e di speranze. Ma prima della risurrezione, prima ancora della morte, Gesù ha lasciato ai suoi discepoli di allora e di tutti i tempi questa parola: “coraggio”. Sapeva quanto ne avevano, quanto ne abbiamo bisogno, di questa parola, “coraggio”: come della parola “pace”. Come non può esserci pace senza amore, così non può esserci pace senza coraggio. “Coraggio” è una parola straordinariamente bella e nobile, indica, secondo me, la qualità più necessaria per stare al mondo seguendo “la via dei giusti”. È una qualità tutt’altro che comune; anzi, al contrario, è rara. Perché è davvero difficile “farsi coraggio”, se con questo intendiamo non il coraggio di quello che può essere un momento eccezionale, eroico, ma l’oscuro coraggio quotidiano, che ci aiuta a evitare la via dell’opportunismo, del conformismo, della ricerca di sicurezza a tutti i costi. È difficile, ma può diventare facile se avremo la certezza che chi vive in noi è Colui che ha vinto il mondo. Amen.

Sermone a cura della nostra Pastora, Caterina Griffante