Sermone: Predicazione di Domenica 18 Marzo – Giovanni , 45-48

 

Natanaele gli disse: “Può forse venire qualcosa di buono da Nazaret?” Filippo gli rispose: “Vieni a vedere”.

L’evangelista Giovanni sta raccontando come Gesù raccolse intorno a sé i primi discepoli, e notiamo subito che questo gruppo si forma in un duplice modo: alcuni, Gesù li incontra di persona e rivolge loro un invito formulato con tanta autorevolezza che all’interpellato è impossibile resistere: in questi versetti avviene così per Filippo, mentre il caso più impressionante di “chiamata diretta” ce lo racconta Luca nell’episodio della vocazione di Levi (5: 27-28). Altri discepoli, invece, si avvicinano a Gesù perché sono incuriositi e attratti dalla sua fama, perché hanno sentito parlare di lui da qualcuno in cui hanno fiducia. Nel primo modello di chiamata risalta la potenza di Gesù, una potenza che non è di questo mondo; il secondo modello di chiamata è invece molto più consueto, molto più quotidiano, avviene mediante una sorta di “passaparola” che è un’esperienza familiare a tutti noi. In questi versetti giovannei è appunto con il “passaparola” che entrano a far parte della cerchia di Gesù Andrea, che lo segue per aver ascoltato Giovanni; Simone, che viene condotto a Gesù da suo fratello Andrea; e Natanaele, che viene invitato da Filippo a fare la conoscenza di Gesù. Tra tutti costoro, Natanaele è l’unico al quale Giovanni attribuisce una certa resistenza a questo incontro, uno scarso entusiasmo dettato da scetticismo per un presunto messia proveniente da una località così insignificante come Nazaret. Dinanzi alle obiezioni di Natanaele, Filippo non si dilunga in discorsi, ma propone un’esperienza diretta: “Vieni a vedere”.

Questa esigenza di sperimentare di persona, concretamente, la presenza di Dio è un tema ricorrente nel vangelo di Giovanni. “Da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri”, dice Gesù ai discepoli nel discorso pronunciato durante l’ultima cena (13: 35). “Mostraci il Padre”, lo supplica poco dopo Filippo, e Gesù risponde “Chi ha visto me, ha visto il Padre” (14: 8-9). “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi … io non crederò”, dichiara Tommaso, e Gesù risorto lo invita a fare l’esperimento: “Porgi qua il dito e vedi le mie mani; porgi la mano e mettila nel mio costato” (20: 25-27). Potrebbe sembrare strano questo bisogno di vedere, di toccare, di provare, di gustare anche: sappiamo infatti che la fede di Israele si fonda sulla parola e sull’ascolto, che la dimensione del visibile come manifestazione del divino non è al cuore della tradizione del popolo ebraico ed è sostanzialmente estranea anche alla tradizione del cristianesimo protestante, incentrata sull’ “ascoltare” più che sul “vedere”.

Eppure, Gesù non si dimostra chiuso né scandalizzato dinanzi a questa esigenza così umana, l’esigenza che Dio si manifesti alla sua creatura non solo mediante la Parola ma anche per altre vie, vie più concrete, più tangibili. Certo, c’è il suo rimprovero all’incredulo Tommaso; ma più che di un vero rimprovero si tratta di un confronto tra due diversi livelli di fede, quello più maturo che non ha bisogno di “vedere” e quello più imperfetto, che richiede qualcosa di simile a una “prova”. Un tempo, lo sappiamo, dell’armamentario teologico faceva parte tutto un repertorio di cosiddette “prove dell’esistenza di Dio” basate su argomentazioni razionali: si tratta di “prove” che mai sono riuscite a portare alla fede un non credente e che tanto meno al giorno d’oggi possono ritenersi proponibili ai nostri contemporanei, uomini e donne bisognosi di essere toccati, coinvolti nell’intimo, in ciò che la Bibbia chiama “cuore”. […]

Oggi, a chi cerca Gesù non è più possibile, come era possibile per i primi discepoli, incontrarsi con una persona in carne ed ossa, dotata di una piena fisicità; oggi chi è in ricerca deve rivolgersi a coloro che Gesù ha lasciato come suoi testimoni, a quelli che compongono la sua Chiesa. Devono rivolgersi, quindi, a noi. E noi, che cosa abbiamo da offrire a queste persone in ricerca? Tante cose, moltissime cose, ma in primo luogo dobbiamo rivolgere loro l’invito che Filippo rivolse a Natanaele: “Vieni a vedere”.

“Vieni a vedere”.  È l’invito che anche noi rivolgiamo a chi ci avvicina dimostrandosi interessato, o quanto meno incuriosito, nei confronti di questa realtà così strana e anomala nel contesto religioso e culturale italiano: una Chiesa evangelica. Certamente, se l’interesse di questa persona ci sembra profondo, motivato, noi pastori proponiamo un percorso catechetico da svolgere mediante un ciclo di incontri personali, ma il primo passo resta sempre questo invito: “vieni a vedere”. L’invito può essere naturalmente formulato in altri termini, ma la sostanza resta questa: vieni a “provare”, come dice il salmo, vieni a “gustare”, come dice la lettera di Pietro, vieni a “toccare con mano”, per dirla con Tommaso; vieni, insomma, a renderti conto di persona come il Signore si manifesta nella comunità dei credenti.  Ho avuto ormai varie occasioni di rendermi conto dell’importanza fondamentale di questo “venire a vedere” per la nostra testimonianza cristiana ed evangelica. Come a tanti pastori, anche a me capita di venire chiamata a parlare della nostra fede in qualche scuola, o in qualche gruppo cattolico aperto e disponibile; di solito vengo ascoltata con interesse e mi vengono rivolte varie domande, alle quali rispondo con la massima precisione possibile. Mi rendo sempre conto, però, che queste spiegazioni, per quanto esaurienti, non bastano, e allora rivolgo l’invito: “perché non venite una volta nella chiesa metodista di Padova, a vedere come si presenta un luogo di culto evangelico?”. Anzi, qualche volta la richiesta parte direttamente dai miei interlocutori, dagli insegnanti o dai responsabili del gruppo parrocchiale: “possiamo una volta venire nella tua chiesa?”. E poi vengono davvero, e noto che tutti sono incuriositi e interessati: qualcuno è perplesso, qualche altro è chiaramente a disagio, ma molti sembrano, invece, trovarsi molto bene nel nostro ambiente, quasi “a casa loro”; e c’è poi qualcuno che il giorno dopo me lo conferma, con una telefonata, un biglietto, una e-mail, e magari chiede se può una domenica partecipare al culto.

“Vieni a vedere”. Ma che cosa dovrebbe vedere, questo visitatore curioso? Vedrebbe, certamente, un locale di culto come non se ne vedono molti in Italia, una chiesa che non sembra nemmeno una chiesa, priva com’è di decorazioni, di dipinti, di statue, di tabernacoli, di arredi sacri, una chiesa in cui il punto focale sul quale converge lo sguardo è una grande Bibbia aperta su un leggìo; e spetterebbe a noi, allora, spiegargli perché questa chiesa si presenta così, raccontargli quindi la nostra storia e la nostra fede. Eppure, l’aspetto esteriore della nostra chiesa, sebbene importante per molti motivi, non è l’essenziale di ciò che il nostro visitatore curioso dovrebbe vedere, dovrebbe scoprire, presso di noi. L’essenziale dovrebbe essere, piuttosto, la “casa spirituale” di cui parla Pietro: una casa edificata sì con pietre materiali ma animata da “pietre viventi”, una casa nella quale tutti coloro che la abitano esercitano “un sacerdozio santo”, offrendo “sacrifici spirituali, graditi a Dio per mezzo di Gesù Cristo”.

Insomma, il nostro visitatore dovrebbe essere messo in condizione di “vedere” nella nostra comunità la realizzazione concreta di ciò che intendeva Lutero, allorché diceva che ogni cristiano è partecipe del ministero sacerdotale di Cristo. Dovrebbe vedere una comunità che non soltanto crede a questo principio dottrinale, che è uno dei capisaldi della Riforma, ma vi aderisce con tutta sé stessa e lo mette in pratica quotidianamente. E come lo mette in pratica? Risponde ancora Pietro: lo mette in pratica sbarazzandosi “di ogni cattiveria, di ogni frode, dell’ipocrisia, delle invidie e di ogni maldicenza”. Si può obiettare che il nostro visitatore non può certo aspettarsi di essere stato invitato a “venire a vedere” una comunità perfetta. Certamente no; ma ha tutto il diritto di aspettarsi  una comunità che, nonostante tutte le sue fragilità, è salda nella fede e cerca di comportarsi come si comporta – per usare ancora le parole di Pietro – “chi davvero ha gustato che il Signore è buono”. Vogliamo dirla con parole più semplici? Ricorriamo allora alle parole del discorso di Gesù riportato da Giovanni, al quale accennavo prima: “Da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri”. No, certo, il nostro visitatore non ha diritto di aspettarsi una comunità perfetta; ha tutto il diritto, però, di aspettarsi una comunità di discepoli. Discepoli che facciano davvero vedere, conoscere, gustare, provare “quanto il Signore è buono”.

(Estratto dalla riflessione della pastora Caterina Griffante)