Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 20 APRILE 2013 (Gv 3:19; Ap 21:1-2, 22-26; Gn 1:1-5 testo di predicazione)

IN PRINCIPIO

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 Quello che il lezionario ci propone oggi. è un testo vertiginoso, un testo che ci fa affacciare su un abisso: è il bereshit, il racconto di come tutto ebbe inizio. Come avvenne l’inizio? Con la creazione del cielo e della terra, ci dice il primo versetto; ma in realtà il vero inizio ha origine con l’affermazione della volontà di Dio di mettere ordine nel caos, di dare un’armonia, un senso, uno scopo a ciò che nel primo momento della creazione si presentava come massa informe e vuota, come voragine tenebrosa, come qualcosa, di inerte, oscuro, confuso, qualcosa che certamente non presentava nulla di amabile, nulla di gioioso e quindi che ben difficilmente si sarebbe potuto definire “creatura di Dio”. Questi “cieli” e questa “terra” non erano tali da rallegrare il cuore di Dio: al punto che sarei quasi tentata di leggere un’inquietudine, un’insoddisfazione in quell’aleggiare dello Spirito di Dio “sulla superficie delle acque”. Come se Dio fosse un bravo artigiano che si aggira nel suo laboratorio non appagato da quanto ha fin allora prodotto. Ed ecco, allora, venire al mondo la vera prima creatura di Dio: la luce. Si tratta di una creatura uscita dalla voce di Dio, prodotta dal dabar, la Parola di Dio che, come sappiamo, nel linguaggio biblico è parola-azione, parola produttrice di effetti concreti, parola creatrice; e qui la vediamo appunto come la Parola creatrice per eccellenza, la Parola che viene pronunciata “nel principio” e dalla quale scaturisce l’intera attività creatrice di Dio. A cominciare, appunto, dalla luce.

Questa prima creatura, la luce, è una luce primordiale, perché creata prima del sole, della luna e delle stelle che scandiscono il tempo e le stagioni; ma il suo compito essenziale è quello di mettere ordine nel caos contrastando la notte, bucando l’assoluto di quelle tenebre che “coprivano la faccia dell’abisso”. Le tenebre sono negatività totale, e si prestano a scopi negativi come nascondere l’esistente, o confondere i contorni della realtà rendendola indecifrabile. La luce, invece, Dio vide che “era buona”, “buona” e anche “bella”, perché questo è il duplice significato dell’aggettivo ebraico tov; mentre le tenebre non sono né buone né belle. La luce è qualcosa di cui Dio può compiacersi, appunto come l’artista che è riuscito a dar forma a un’opera esattamente come l’aveva ideata. E, come la luce, tov appariranno via via agli occhi di Dio tutte le sue successive creature: il cielo, la terra, i mari, la vegetazione, il sole, la luna, le stelle, gli animali dell’acqua, dell’aria e della terra. Addirittura “molto tov” apparirà a Dio l’assetto finale da lui dato alla terra, una terra affidata all’ultima in ordine di tempo delle creature, l’essere umano. Dio contempla la propria creazione, e quello che vede gli dà un’immensa gioia: “vide tutto quello che aveva fatto: ecco, era molto buono” (Gn 1: 31a). Sembra quasi di vederlo ridere e battere le mani, e prepararsi a giocare tra le onde con il Leviatano, il mostro marino che – come dice il salmo 104 – Dio ha creato non per qualche scopo utilitaristico, ma proprio “perché si diverta” nel mare (Sal 104: 26).

Ma le tenebre non sono sconfitte con la creazione della luce. Sono soltanto “separate” dalla luce. La luce è cosa buona, ma il suo rincorrersi e avvicendarsi con la notte, segnando l’inizio del tempo (“Fu sera, poi fu mattina: primo giorno”) segna anche l’inizio del difficile rapporto di Dio con il suo creato. Certo, al caos primordiale è subentrato l’ordine, e un alternarsi ordinato è appunto quello tra giorno e notte, tra luce e tenebre; ma questo alternarsi conserva sempre qualcosa della competizione, della lotta. La luce è ben lontana dall’aver vinto; al contrario, spesso appare sempre più debole, più fioca, incapace di affermarsi, mentre altrettanto spesso le tenebre appaiono sempre più vicine e più agguerrite, minacciosamente pronte a ingoiare la creazione e a riportarla al caos dal quale Dio l’ha fatta emergere – starei per dire, l’ha fatta faticosamente e amorosamente emergere, questa creazione, con quei suoi sei giorni di lavoro che parlano di cura delicata e meticolosa, di infinita attenzione, di rispetto, anche, per quella molteplicità e varietà di vite con le quali ha voluto animare il mondo perché sia più buono e più bello, più vario e più ricco.

Eppure l’essere umano, questo coronamento della creazione, fatica a entrare in sintonia con tanta bellezza, tanta bontà, tanta ricchezza; fatica a riconoscersi parte di questo meraviglioso creato sul quale splende la luce di Dio – luce che significa amore, grazia, libertà. Lo riconosce amaramente Gesù, nel vangelo di Giovanni, allorché afferma: “la luce è venuta nel mondo e gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce”. “Gli uomini hanno preferito”. Si è trattato dunque di una libera scelta. Al male si potrebbe resistere, se si volesse. È una volontà precisa, non una legge ineluttabile, che inclina l’umanità al male. Gli esseri umani avrebbero potuto una volta, se avessero voluto, accogliere la luce che “splende nelle tenebre”, “la vera luce che illumina ogni uomo” (Gv 1: 5, 9a). Ma “hanno preferito” le tenebre, “hanno preferito” non accogliere la luce. E si sono orientati verso questa scelta fin dall’inizio della storia umana. È la scelta che noi siamo soliti indicare, in mancanza di meglio, con la formula “peccato originale”.

Se solo ci guardiamo intorno, non avremo difficoltà a riconoscere quanto sia vero che gli esseri umani preferiscono le tenebre. Nel mondo, è il male che sembra aver ottenuto una vittoria schiacciante, che sembra prevalere intorno a noi e dentro di noi, nel nostro cuore invidioso, avido e ostile, nelle nostre relazioni opache quando non violente, nei fallimenti in cui anneghiamo la giustizia e la pacificazione, la fratellanza e la liberazione. Ma perché questo? Perché, da sempre, gli esseri umani “hanno preferito” – e continuano a preferire – le tenebre invece che la luce? Gesù dice a Nicodemo: “gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvage”. Può darsi che con queste parole Gesù voglia indicare nelle “opere malvage” la causa, l’ostacolo che induce gli esseri umani a preferire le tenebre: un radicato abito mentale, l’assuefazione alle “opere malvage”, impedisce loro di scegliere la luce. Come pure può darsi che Gesù intenda dire: gli esseri umani preferiscono le tenebre perché queste si addicono ai loro obiettivi malvagi, perché lì, nelle tenebre, è facile per loro occultare l’incapacità di comprendere, le pigrizie del cuore, il desiderio di non cambiare. La luce fa paura perché smaschera la realtà, scopre i contorni delle cose, e anche le luci e le ombre dell’animo umano, dove le ombre – lo sappiamo bene – sono sempre più delle luci.

Il significato dell’osservazione di Gesù, comunque, è evidente: la fede nella luce richiede un gesto solo, ma quello costa la fatica di credere che vi sia speranza e che vi sarà salvezza. E a questa fatica, quale che ne sia la ragione, gli esseri umani sono da sempre refrattari. E questa refrattarietà è tutt’uno con il giudizio. Non è che gli esseri umani divengano oggetto di giudizio perché hanno preferito le tenebre alla luce; no, è il fatto in sé di preferire le tenebre alla luce che costituisce il giudizio. Gesù lo afferma esplicitamente: “il giudizio è questo”. La scelta di affidarsi alle tenebre piuttosto che alla luce giudica l’essere umano: il che vuol dire, lo rivela per ciò che veramente è. In questa prospettiva, tutti noi, nessuno escluso, siamo oggetto di un giudizio al quale non possiamo sfuggire. Perché tutti siamo orientati verso le tenebre piuttosto che verso la luce. Questo non vuol dire che siamo sempre e in ogni caso “malvagi”. Può significare, più semplicemente, che il nostro sguardo è offuscato, che siamo incapaci di discernere, cioè di distinguere, di separare: di separare la luce dalle tenebre, cioè di riprodurre l’atto compiuto da Dio quando “nel principio […] separò la luce dalle tenebre”. Per noi, non sempre le distinzioni sono così chiare, non sempre i confini fra i due ambiti opposti sono così netti. Tante volte ci capita di scambiare le tenebre per luce, e la luce per tenebre. Anche questa mancanza di una nitida visuale fa parte della condizione umana.

Ma allora, se questa è la condizione umana, che cosa possiamo fare – che cosa pretende Dio da noi, poveri esseri umani? In fin dei conti, non è la Scrittura stessa, là dove l’autore dell’Apocalisse tenta di descrivere la sua visione della nuova Gerusalemme, a rivelarci che solo alla fine dei tempi potrà realizzarsi quella condizione ideale in cui “la notte non vi sarà più”, e nemmeno ci sarà più bisogno delle “due grandi luci” create da Dio “nel principio”, il sole e la luna, perché ci sarà un’unica luce, quella emanata dall’Agnello? Ciò significa che fino a quel momento non cesserà la lotta tra tenebre e luce, e che in questa lotta l’essere umano continuerà a schierarsi dalla parte sbagliata: perché questo comporta la sua natura, una natura, per usare ancora una volta il linguaggio tradizionale, rovinosamente “decaduta”. Dunque, in questo tempo intermedio, davvero noi esseri umani non possiamo far nulla per sfuggire al giudizio, per liberarci da questa congenita attrazione verso le tenebre?

Qualcosa, credo, possiamo fare. Possiamo esercitarci, innanzitutto, ad affinare la nostra capacità di discernimento cercando di sottrarci a ciò che è opinione corrente, cercando di problematizzare ciò che appare ovvio. Possiamo provare a “separare la luce dalle tenebre” chiudendo gli occhi alle tante luci che sfolgorano invitanti tutto intorno a noi, e che altro non sono che tenebre travestite da luci. E possiamo tentare di creare dentro di noi il silenzio, per fare spazio all’unica Parola degna di questo nome, quella di Gesù. Allora, forse, questa Parola non andrà a vuoto. Il vangelo di Giovanni non ci riferisce che cosa sia avvenuto nell’animo di Nicodemo dopo il suo colloquio con Gesù; ma noi lo ritroveremo, Nicodemo, durante la festa delle Capanne, a cercare di difendere Gesù dai suoi accusatori (Gv 7: 50-51) e poi, ancora, dopo la crocifissione, a prendersi cura del corpo di Gesù (Gv 19: 39-42). Lo troviamo insomma, Nicodemo, dalla parte giusta. Una scintilla della vera luce lo aveva toccato, e gli stava insegnando a separare la luce dalle tenebre. Era la “nuova nascita” di cui gli aveva parlato Gesù. Una “nuova nascita” possibile anche per noi se saremo, come Nicodemo, desiderosi della luce e pronti a ricevere a quella Parola che crea la luce. Amen.

Sermone a cura della nostra Pastora, Caterina Griffante