Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 30 GIUGNO 2013 (Ez 34:11-16; 1Tm 1:15-16; testo di predicazione: Lc 19:1-10)
SOLA GRATIA
In questa notissima pericope di Luca possiamo riconoscere una delle tante variazioni che il Nuovo Testamento ci offre su un unico tema, un messaggio che è il nucleo, il cuore dell’evangelo: la salvezza per grazia. Ebbene, nella storia di Zaccheo l’annuncio della salvezza per grazia – questo annuncio di una serietà estrema, l’annuncio cruciale, determinante per ciascuno di noi – viene trasmesso in una forma imprevedibile: sotto forma di commedia. Sì, proprio così: di commedia. Sappiamo che questa parola denota un lavoro teatrale divertente per intreccio e per dialogo e, nel significato più antico del termine (quello usato anche da Dante) un’opera letteraria che narra una vicenda a lieto fine; e tutti questi caratteri noi li ritroviamo nel nostro racconto. Un racconto evangelico che, non a caso, affascina i bambini e ha un grande successo quando viene proposto alla scuola domenicale. La scena è Gerico, una città della Giudea il cui nome è familiare al lettore della Bibbia; all’epoca era stata riedificata da Erode il Grande, che l’aveva dotata di un ippodromo e di un anfiteatro. Una città ricca, dunque. E “ricco”, ci informa Luca, è anche il protagonista, Zaccheo; ricco di una ricchezza male acquistata perché gli derivava dalla sua professione di “capo dei pubblicani”, cioè dei collettori di tasse per conto della potenza occupante, i romani. I pubblicani erano odiati e temuti dai loro connazionali, e sapevano bene di esserlo. Potremmo dunque aspettarci di trovarci di fronte a un personaggio da un lato conscio del suo status e del suo potere, e quindi freddo e altero, dall’altro emarginato, e quindi cupo, diffidente, scostante; una figura, in ogni caso, drammatica ben più che comica. Ma Zaccheo è tutt’altro. Non è un notabile che incede tronfio e solenne; è un ometto “piccolo di statura” e curiosissimo, deciso a tutti i costi a dare almeno una sbirciata a questo famoso predicatore itinerante di passaggio per la città. Sembra di vederlo correre affannosamente qua e là come un topolino, allungando il collo per cercare di riuscire a vedere qualcosa tra la folla, e alla fine rischiare di esporsi al ridicolo, nonché alla possibilità di una caduta rovinosa, comportandosi come un ragazzino, arrampicandosi su un albero. Zaccheo è proprio un personaggio da commedia; ed è irresistibilmente simpatico. Simpatico non soltanto per il suo modo di agire così buffo ma così spontaneo, ma perché questo suo impuntarsi a voler vedere Gesù lo presenta come una persona non appagata di sé, del proprio ambiente, della propria vita; lo presenta come un ricco che, tuttavia, sente dentro di sé una povertà sostanziale, sente un vuoto. Il rabbi itinerante ha fama di taumaturgo; e forse, inconsciamente, Zaccheo sente di avere anche lui bisogno di un intervento miracoloso. E l’intervento miracoloso si verifica, nella forma semplicissima di un dialogo. Un dialogo condotto nel segno della spontaneità – della stessa spontaneità che aveva spinto Zaccheo ad arrampicarsi sul sicomoro – e della festa. Perché qui si parla di un invito a casa, un invito a casa che certamente implica un invito a pranzo, e i banchetti hanno sempre qualcosa di festoso. Ma l’invito a casa, in questa circostanza, avviene in una forma davvero singolare: perché non parte dal padrone di casa, parte dall’ospite, dall’invitato che si autoinvita, contravvenendo a tutti i precetti della buona educazione. E non si tratta nemmeno di una richiesta, dell’espressione di un desiderio: “mi piacerebbe fermarmi a casa tua, posso essere tuo ospite?”. No, è un’affermazione perentoria quella di Gesù: sbrigati a scendere da quell’albero, dice a Zaccheo, “perché oggi debbo fermarmi a casa tua”. A Zaccheo non viene lasciata alcuna possibilità di scelta: la visita deve avvenire oggi, non in un altro giorno; e non è rinviabile, perché si tratta di una necessità assoluta: “oggi debbo fermarmi a casa tua”. Preso così alla sprovvista, per giunta pubblicamente stanato dal suo nascondiglio tra i rami dell’albero, Zaccheo potrebbe sentirsi a disagio, imbarazzato, anche offeso. Al contrario: è felice dell’invito di Gesù, e probabilmente è anche gratificato, perché si sente prescelto: proprio lui tra i tanti, proprio lui in mezzo a quella grande folla che gli impediva di vedere. Lui che si sforzava faticosamente di vedere, è stato visto. È, la sua, la gioia di chi sente che sta per accadergli qualcosa di molto importante, qualcosa che darà alla sua vita una svolta, ma una svolta in positivo. La sua vita verrà capovolta e rinnovata, addirittura ri-creata. Il senso di quanto sta avvenendo è già anticipato nella prima parola che gli rivolge Gesù: è il suo nome, “Zaccheo”, che significa “Dio ricorda”. Dio “si ricorda” dell’essere umano e con questo “ricordarsi” di lui gli dà la vita: “si ricorda del suo santo patto, del giuramento che fece ad Abramo nostro padre, di concederci che, liberati dalla mano dei nostri nemici, lo serviamo senza paura, in santità e giustizia, alla sua presenza, tutti i giorni della nostra vita”, canta il quasi omonimo di Zaccheo, Zaccaria (Lc 1: 72-75). Questo ricordo, questa memoria costante di Dio nei confronti di ciascuna delle sue creature, nel caso di Zaccheo si manifesta innanzitutto nello sguardo che Gesù rivolge al pubblicano, e poi nella sua strana e un po’ scandalosa decisione, commentata dalla folla con un mormorio indispettito e probabilmente un po’ invidioso. Perché non solo Zaccheo ha visto Gesù, non solo Gesù ha visto Zaccheo, ma anche la folla ha visto. Che cosa ha visto la folla? Che Gesù “è andato ad alloggiare in casa di un peccatore”. Verissimo. Tanto vera, questa affermazione, che è lo stesso Zaccheo a confermarla implicitamente, con la sua promessa di restituire il quadruplo di ciò che ha frodato. Un’altra conferma viene dallo stesso Gesù, quando afferma di essere venuto “per cercare e salvare ciò che era perduto”. Che Zaccheo sia un peccatore è, dunque, fuori discussione. Ma anche qui sentiamo la cadenza lieve della commedia. Il dramma è completamente assente da questa scena. Zaccheo prende coscienza della sua condizione di peccatore, eppure non se ne sente sopraffatto, non è spinto alla disperazione; tutt’altro. Perché il momento in cui se ne rende conto è lo stesso momento in cui sa che il peccato gli è stato perdonato. Se, dunque, la folla mormora “è andato ad alloggiare in casa di un peccatore” sottintendendo “che vergogna!”, Zaccheo si ripete la stessa frase sottintendendo “che meraviglia!”, e Gesù la sottoscrive dichiarando “questo è il mio mestiere, di venire a cercare e salvare i peccatori”. Il mestiere di Gesù, come ribadisce anche il v. 15 di 1 Tm (“Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori”); il mestiere di Gesù che è lo stesso mestiere del Padre suo, come ci ricorda, tra tanti, il passo di Ezechiele che mostra il Signore come Pastore di Israele, alla ricerca della pecora perduta. Come il Padre suo, e al contrario della folla, Gesù i peccatori li cerca per salvarli, non per giudicarli. Non giudica nemmeno Zaccheo. A Gesù non interessa il peccato di Zaccheo, gli interessa l’azione di grazia operata dal Padre per mezzo suo: “oggi la salvezza è entrata in questa casa”. Ecco perché tanta urgenza: era in gioco la salvezza di Zaccheo. E il fatto che Zaccheo sia stato fatto oggetto di grazia, abbia ricevuto il dono della salvezza, lo si comprende anche dall’altro dono che Zaccheo contemporaneamente riceve da Gesù: quello di una ritrovata identità. Le parole che rivolge a Gesù sono infatti le parole gioiose di una persona che ha trovato, o ritrovato, la libertà – da che cosa? Dal peccato, certamente; ma da un peccato che si esprimeva sotto forma di ruolo obbligato, di maschera oppressiva (il ruolo, la maschera del collaborazionista, del profittatore, del disonesto) che nascondevano e soffocavano la vera identità del peccatore, l’identità di “figlio d’Abraamo”. È notevole che questa stessa espressione venga usata da Gesù in un altro straordinario episodio riportato da Luca, quello della guarigione della donna che da ben diciotto anni “era tutta curva e assolutamente incapace di raddrizzarsi”. Anche in questo caso, Gesù rivendica vigorosamente il diritto della donna a riacquistare non solo la salute fisica, ma la propria identità: “E questa, che è figlia di Abraamo … non doveva essere sciolta da questo legame in giorno di sabato?” (Lc 13: 11, 16). Anche su Zaccheo gravava un peso che ne deformava non i lineamenti esterni, ma la fisionomia interiore. Anche Zaccheo, dunque, è stato oggetto di una guarigione; anche Zaccheo, sia pure metaforicamente, è stato fatto rialzare. E anche nel suo caso, come in quello della donna rattrappita, la guarigione coincide con il recupero di un’identità che è tutt’uno con il recupero della dignità, quella dignità che deriva dall’appartenenza alla nobilissima stirpe dei “figli di Abraamo”. È proprio una splendida commedia, la storia di Zaccheo. Non solo perché ha un lieto, lietissimo fine. Ma anche – e soprattutto – perché mostra con quale finissimo umorismo agisca Gesù. L’effetto umoristico, lo sappiamo, si ottiene giocando con ciò che è incongruo, spiazzante; ed è proprio così che si comporta Gesù. Non dovrebbe andare a casa di un peccatore, e ci va. E colui che era perduto si ritrova invece salvo, trasformato per giunta in un uomo generoso e disponibile. Sorelle e fratelli, forse la dottrina della salvezza per grazia potremmo tradurla così: renderci disponibile all’umorismo di Dio. Al suo coglierci di sorpresa, venendoci a trovare quando non ce lo aspettiamo. Al suo fare, di noi perduti, dei salvati, rivestiti della dignità di figli di Dio. Da parte nostra, basta che lo vogliamo cercare – anche se non riusciamo a vederlo, Lui riesce sempre a vedere noi. Basta cercarlo senza stancarci, e accoglierlo quando ci dice “oggi debbo fermarmi a casa tua”. Perché a ciascuno di noi lo dice, o lo dirà; e quello è il momento propizio, l’attimo da cogliere, il kairòs, e non c’è alternativa: o afferrarlo subito, o perderlo per sempre. E se lo accoglieremo, anche per noi la sua visita sarà occasione non di un giudizio, ma di un evangelo, del lieto annuncio che “oggi la salvezza è entrata in questa casa”. Amen
Sermone a cura della nostra Pastora, Caterina Griffante