Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 9 DICEMBRE 2012 (Lc 16:1-9, Os 6:6, Rm 13:8)

IL FATTORE INFEDELE

La parabola del fattore infedele ha sempre creato difficoltà sia agli esegeti, sia ai semplici lettori come noi. Infatti, non possiamo nasconderci che trovare nel Nuovo Testamento una storia di disonestà premiata ci lascia quanto meno sconcertati. Qui Gesù si esprime con parole di approvazione per questo farabutto di un fattore che in primo luogo va in rosso lui e poi è tanto privo di scrupoli da mettere gli altri in obbligo con sé stesso contro gli interessi del suo padrone, nel momento in cui la bufera sta per scoppiargli sulla testa. Lo licenzieranno, questo è certo, ma lui ha la fondata speranza di trovare, in quel momento, degli amici. Un calcolo così è una truffa bella e buona! È questo che non si riesce a capire: come può Gesù lodare e proporre a modello una truffa come questa? Certo, potremmo pensare che questo racconto rappresenti quanto meno una testimonianza convincente del fatto che Gesù era dotato di senso dell’umorismo e indubbiamente in questo c’è del vero; tuttavia, sarebbe riduttivo accettare questa storia come un semplice racconto umoristico. Si tratta, al contrario, di un racconto molto serio, che ci parla dell’ultima, estrema possibilità che ci resta quando il giudizio è incombente, quando veniamo messi alle strette.

Cominciamo con il partire dal presupposto che tutto quello che viene detto qui sia riferito a noi. In tal caso il bilancio della nostra vita, che Gesù pretende da noi, si presenta esattamente come un’incombente resa di conti. Noi siamo nella stessa situazione di questo fattore: abbiamo amministrato in un modo così disastroso che, alla fine, non è più possibile porvi rimedio. Siamo debitori, sempre, quali che ne siano le cause, qualunque sia la nostra situazione, qualunque sia la nostra storia personale. Alcuni di noi possono indebitarsi per negligenza, altri per errori di valutazione, altri per mancanza di adeguate cognizioni, altri ancora per mancanza di coraggio… Non importa come e in che misura: la verità è che siamo tutti nei guai, e che Gesù vuol farci capire che questa è la nostra situazione davanti a Dio. Se si procede secondo i princìpi della giustizia, tutti quanti verremo un giorno smascherati come cattivi amministratori: al massimo potremmo ammetterla, la nostra cattiva amministrazione, ma non potremo certo risanarla.

Così appare la nostra vita, se la consideriamo con gli occhi di Dio. Possiamo credere – speriamolo, almeno! – di aver avuto nel complesso delle buone intenzioni, nel corso della nostra esistenza; di aver cercato, da credenti, di compiere nei limiti delle nostre possibilità ciò che ci sembrava il Signore ci richiedesse. Ma che dire di tutti i momenti in cui ci siamo negati per stanchezza del cuore, per debolezza dello spirito, per poca energia del corpo? Che dire di tutte le occasioni in cui abbiamo avuto troppo poco tempo per le persone che avevano bisogno di noi, in cui abbiamo avuto troppo poca fantasia per portare idee nuove che aiutassero a risolvere situazioni difficili? Non che per questo dobbiamo definirci “cattivi”. Spesso, semplicemente, eravamo stanchi, eravamo oberati da impegni, non ne potevamo più – ma il bisogno c’era, e la nostra inadempienza resta, come un dato di fatto. E poi, pensiamo ai grovigli affettivi e psicologici che ci legano alle altre persone, spesso a persone che ci sono molto vicine, molto care, che amiamo sinceramente, ma alle quali finiamo per far del male senza assolutamente volerlo, o alle quali non riusciamo a offrire aiuto, pur desiderandolo intensamente, in momenti di difficoltà. Che cosa si deve fare, che cosa si può fare, quando ci si sente colpevoli nonostante si siano nutrite le migliori intenzioni, e si è incapaci di riparare in qualche modo il male involontariamente commesso?

Se ciascuno di noi riflette sulla propria vita, sulle proprie esperienze, o sulle esperienze di chi gli è vicino, non faticherà a comprendere che di questi fallimenti la vita è intessuta. Certo, ci viene detto e ripetuto – e noi diciamo e ripetiamo a noi stessi – che possiamo ritenerci responsabili soltanto delle colpe che abbiamo commesso avendone piena consapevolezza. Questa affermazione è vera, ma è al tempo stesso una scappatoia che non risolve niente. Sarà valida davvero per l’uomo che manda a monte il proprio matrimonio e fallisce nella professione, per la donna che non ce la fa con i propri figli, per la figlia che deve aver cura della madre anziana e malata e ne è schiacciata e precipita nella depressione, per il vecchio che è stato relegato in una casa di riposo e deve amaramente rendersi conto che i suoi figli, più che legarli a sé, li ha allontanati? A volte la vita è crudele perché ci costringe a fare i conti con la nostra realtà. Il bilancio della nostra vita rivela ciò che noi siamo, non ciò che noi vorremmo essere o ci illudiamo di essere. Cosa potremo dire, alla fine? Potremo dire che, è vero, abbiamo agito qua e là in modo sbagliato, ma che abbiamo fallito semplicemente perché siamo come siamo? Può, questo, essere addotto a nostra discolpa? O piuttosto non dovremmo dire che saremmo potuti essere completamente diversi se avessimo davvero fiutato l’aria della libertà e avessimo dimenticato la paura che ci ha tante volte bloccati e paralizzati ?

Gesù vuole far sì che ciascuno dei suoi ascoltatori arrivi a domandarsi: io, sono davvero senza colpa? Vuole che comincino a capire che, se uno li chiamasse a rendere conto secondo il criterio del dovere e dell’ordine, sarebbero tutti lì in coda, con i loro cento bat di olio e i loro cento kor di grano, e non sarebbero in grado di pagare il loro debito senza andare in rovina. Il problema che Gesù pone in questa parabola è: che cosa fare quando tutto ciò comincia a rendersi chiaro? Quando, da quei cattivi amministratori che siamo, abbiamo fatto bancarotta dilapidando tutto quanto ci era stato affidato; quando dobbiamo riconoscere di essere senza vie di uscita, di non sapere proprio come cavarcela: che fare, allora? Ecco che la parabola di Gesù ci suggerisce una via d’uscita che è davvero l’ultima: l’ultimo piccolo pertugio dal quale abbiamo ancora una possibilità di svignarcela. Gesù con questa parabola vuole invitarci ad essere concreti e a farci furbi, a renderci conto di quello che è il nostro interesse, il nostro unico interesse vitale in cielo e sulla terra. E questo interesse ci richiede di dire a noi stessi: “Adesso il criterio della giustizia non mi interessa più, perchè mi uccide; l’unica cosa che ora posso fare è vedere di che cosa hanno bisogno le persone che ho davanti. Le faccio venire, tremanti di paura – come ero anch’io fino a poco fa – e sto a sentire a quanto ammonta il loro debito e che cosa non possono rimborsare. Cento bat (2.200 litri) di olio, cento kor (22.000 litri) di frumento – nessuno può vivere con un debito così. Ecco allora che cosa faccio adesso: dimezzo il loro debito, divido per due o per tre, diminuisco il dovuto fino al punto in cui queste persone possono ricominciare a vivere”. Per sottrarsi al criterio della giustizia c’è un’unica via di uscita: quella della generosità, del perdono, di una vita misurata sul criterio del bisogno di chi mi sta davanti, non sul pareggio fra il dare e l’avere.

Per riprendere l’immagine centrale della parabola: Gesù vuole che ciascuno di noi si renda conto di avere bisogno, semplicemente per vivere, di un amministratore come quello che viene descritto qui. Uno che decurta i debiti del cinquanta per cento, del venti per cento, proprio come esige il bisogno e non la giustizia. E se per caso arriva qualcuno che vuole mettere le cose a posto e chiarire una volta per tutte, con l’indice alzato, che cosa è il diritto e che cosa è l’ordine, che cosa è buono e che cosa è cattivo, che cosa si deve e che cosa non si deve, allora – vuol dirci Gesù – ciò significa che uno così non ha ancora capito di essere, lui stesso, nei guai fino al collo. Un tipo così è uno che non ha ancora fatto il suo bilancio, non ha capito in che situazione si trova. È facile parlare di giustizia finché non si arriva a comprendere, anzi a sperimentare, quanto siano fragili gli esseri umani e quanto siamo fragili noi stessi.

Se arriveremo a comprendere che cosa Gesù intende davvero dire con questa parabola, avremo un meraviglioso commentario alla richiesta che lo stesso Gesù ci ha insegnato a rivolgere al Padre: “rimetti a noi i nostri debiti”: perché la verità è che non ci resta altro che questo, non ci resta altra possibilità che questa preghiera. Ma per poter rivolgere questa richiesta al Signore, anche noi dovremo avere rimessi i debiti ai nostri debitori: e questo significa che non saremo stati lì a guardare che cosa doveva esserci sulla bilancia della giustizia, ma che avremo guardato, invece, negli occhi e nel cuore degli altri e avremo visto di che cosa avevano bisogno. Quando abbiamo a che fare con Dio non possiamo cavarcela con la giustizia: l’unico mezzo per cavarcela è la bontà. Ce lo ricorda anche il profeta Osea, in un versetto ripetutamente citato da Gesù (Mt 9: 13; 12: 7). Certo, questa parola, “bontà”, è ambigua, a tanti di noi può dare fastidio, far pensare a qualcosa di dolciastro e anche a qualcosa che ha a che fare con doveri poco gradevoli: fa pensare, per esempio, al “sacrificio”. Ma Gesù vuole dirci tutt’altra cosa, qualcosa di molto pragmatico. Vuole dirci: “Fate una cosa utile per voi stessi: dovrebbe essere il vostro interesse, dovreste imparare a essere buoni proprio per motivi egoistici, perché nessuno può rimborsare il credito vantato dall’altro”.

Effettivamente, è una logica temeraria; anzi, a dirla tutta, è un imbroglio ardito e sfacciato, che mette fuori gioco le regole della morale, ma che costituisce al tempo stesso l’unica via di salvezza. Una via che ci insegna quale deve essere il nostro punto di partenza per trovare veramente Dio, quel Dio che abbiamo sempre sulle labbra: partire da ciò di cui abbiamo bisogno noi, e da ciò di cui hanno bisogno gli altri. Solo questa via ci porterà a scoprire Dio, e quindi a scoprire quell’amore nel quale, come ricorda Paolo ai Romani, consiste l’unico nostro debito con gli altri e, al tempo stesso, il pieno adempimento della Legge.

(Sermone a cura della nostra Pastora, Caterina Griffante)