Sermone: QUANDO SARA’ L’ORA?

Il brano scelto per la predicazione di questa domenica è tratto dall’evangelo secondo Luca, al cap. 12. E’ un testo un po’ particolare, ad una prima lettura, forse anche perché utilizza termini e riferimenti sociali non più così evidenti nel nostro vissuto. Si parla di amministratori, di servi e di padroni, di percosse e di punizioni. Troppo, forse, per le nostre orecchie. Però è anche un brano chiaro nel suo intento, anche se sconcerta un po’.  Proviamo a porci in ascolto della Parola, chiedendo a Dio che ci aiuti a cogliere il messaggio di speranza che contiene, speranza di cui abbiamo tanto bisogno in questo mondo così quotidianamente piatto e senza prospettive di senso.

Leggo dal cap. 12 dell’evangelo di Luca, i versetti dal 39 al 48: “Gesù disse: Sappiate questo, che se il padrone di casa conoscesse a che ora verrà il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Anche voi siate pronti, perché il Figlio dell’uomo verrà nell’ora che non pensate». Pietro disse: «Signore, questa parabola la dici per noi, o anche per tutti?» Il Signore rispose: «Chi è dunque l’amministratore fedele e prudente che il padrone costituirà sui suoi domestici per dar loro a suo tempo la loro porzione di viveri? Beato quel servo che il padrone, al suo arrivo, troverà intento a far così. In verità vi dico che lo costituirà su tutti i suoi beni. Ma se quel servo dice in cuor suo: “Il mio padrone tarda a venire”; e comincia a battere i servi e le serve, a mangiare, bere e ubriacarsi, il padrone di quel servo verrà nel giorno che non se lo aspetta e nell’ora che non sa, e lo punirà severamente, e gli assegnerà la sorte degli infedeli. Quel servo che ha conosciuto la volontà del suo padrone e non ha preparato né fatto nulla per compiere la sua volontà, riceverà molte percosse; ma colui che non l’ha conosciuta e ha fatto cose degne di castigo, ne riceverà poche. A chi molto è stato dato, molto sarà richiesto; e a chi molto è stato affidato, tanto più si richiederà”.

 

Il testo di fronte al quale ci troviamo oggi apre a prospettive a cui non siamo normalmente abituati. Luca lo situa verso la fine di un capitolo nel quale Gesù ha continuato a ripetere “Non abbiate paura”, esortando i suoi discepoli ad avere fiducia nella vicinanza e protezione del Padre, in ogni circostanza, e soprattutto nelle persecuzioni. Ora, alla fine della pericope, la minaccia di botte. E questo ci stupisce. Anche la similitudine iniziale con il ladro disorienta: qui non è sanzionato il comportamento da furfante del ladro, (fra l’altro nel paragone ad agire come un ladro è il Signore stesso), ma la condanna al contrario cade su chi si è lasciato sorprendere dal ladro e non era vigilante.

L’argomento che fa da filo conduttore di questo capitolo, e in cui si inserisce la parabola appena letta, è la venuta del Regno. E questo tema, quello della venuta del Regno, ha sempre due dimensioni: quella futura, legata alla speranza di essere pronti per qualcosa che avverrà nel futuro, che in qualche modo non ha a che fare con quello che noi possiamo fare adesso, ma che si fonda appunto nella speranza in colui che viene senza a volte neppure darci un preavviso; e nello stesso tempo in una dimensione presente e attualissima, come ci ricorda il testo appena letto, che ci invita con forza a riflettere su come il discepolo incaricato si è comportato nell’amministrare quelli di cui egli doveva aveva cura.

E’ la realtà ambivalente dell’uomo di fede, che vive questa realtà del “già e non ancora”, della realtà futura in cui speriamo e della realtà presente in cui fatichiamo a vedere la presenza del Signore. L’amministratore, infatti, decide di tradire la fiducia del suo padrone proprio perché lui oramai è lontano, non vede e non interviene, e proprio questa sua convinzione lo porterà, dice il testo, ad “essere posto fra gli infedeli”, cioè tra coloro che non hanno avuto fede nella sua presenza oggi e nel suo ritorno domani.

La fede, infatti, vive nell’oggi, noi siamo donne e uomini radicati nelle dinamiche, a volte così dolorose, del presente. Ma, ci dice Gesù, la fede non è solo per l’oggi; l’intento dell’insegnamento della Scrittura è quello di invitarci a vivere l’oggi per il domani, a cogliere i segni nascosti ma concreti del prossimo ritorno del Signore Gesù.  La logica del ritardo, del quotidiano sempre ugualmente monotono, ci pone in una condizione di rischio: il rischio di pensare che mai nulla cambia, che le logiche del mondo sono sempre le stesse, quelle che noi tutti conosciamo, fatte di “percosse date ai servi”, agli ultimi della Terra, di “mangiare, bere e ubriacarsi” da parte dei potenti, di pensare che il Signore non tornerà mai. L’evangelo di questa domenica intende invece essere una risposta di fede, di speranza e di servizio, contro la tentazione della “distruzione interiore”, come potrebbe essere tradotto dall’ebraico la “severa punizione” a cui va incontro l’amministratore al v. 46

Non è esattamente un problema di ordine etico, cioè di condotta morale. Si tratta invece dello statuto sostanziale del credente che viene posto in risalto: il cristiano è uno che “aspetta” il suo Signore che è, per definizione, “Colui che viene”, come dice l’ultimo versetto della Bibbia, al cap. 22 dell’Apocalisse: Colui che attesta queste cose, dice: «Sì, vengo presto!» Amen! Vieni, Signore Gesù!

La fede cristiana ha questa paradossale caratteristica: è una fede nell’“Assente”, nel “non-visibile”, eppure nel totalmente “Presente”, del tutto “visibile” sotto i “segni” della Parola e del prossimo che vive al nostro fianco.

Il messaggio centrale del nostro brano è una bella notizia, un evangelo. Gesù ci chiama infatti ad una beatitudine: “Beato quel servo che il padrone, al suo arrivo, troverà intento a far così”. Così come? Distribuendo a ciascuno, dice il testo, la sua porzione di cibo. Gesù ci chiama molto concretamente ad assumere le nostre responsabilità verso i nostri fratelli. Cosa vuol dire, in fondo, responsabilità? Nella Bibbia vuol dire principalmente “rispondere” (come infatti richiama l’etimologia della parola) alla chiamata di Dio, a Dio che ci cerca e ci costituisce suoi amministratori. Responsabile di che cosa? Si può rispondere in tanti modi a questa domanda; io ho risposto così: responsabile di Dio in mezzo agli uomini, e responsabile del nostro prossimo davanti a Dio. Cioè la responsabilità ha questa doppia valenza; responsabile di Dio, cioè testimone di Dio tra gli uomini, questa è la mia responsabilità, la responsabilità della testimonianza di Dio tra gli uomini, e di pari passo la responsabilità del prossimo davanti a Dio. Cioè nella Bibbia nessuno è solo responsabile di sé stesso, certo anche, ma non solo.  Ricordiamo tutti la famosa domanda di Dio a Caino: “Dov’è tuo fratello Abele?” e ricordiamo la risposta: “Sono forse io il guardiano – sono forse io il responsabile di mio fratello?” Si – dice il testo – sono responsabile di mio fratello, devo rispondere del mio prossimo.

Amministrare in modo “saggio e fedele”, rispondere alla chiamata di Dio è quindi dare da mangiare a tutti a tempo debito, cercare la giusta condivisione di ciò che ci è affidato. Ed essere vigilanti, essere fedeli e prudenti, significa accorgersi del bisogno del fratello ora, condividendo i beni di cui tutti siamo destinatari. La vigilanza ci obbliga a guardare al futuro, ma soprattutto all’oggi. Aspettare il Signore significa prendersi cura di ciò che ci è stato donato e affidato. I fratelli, la Terra, la pace. Il non avere a cuore tutto questo ci stabilisce come usurpatori e non vigilanti.

L’amministratore che si disinteressa di quante e quanti gli sono stati affidati, è considerato da Dio, come dicevo, come qualcuno che non crede. Credere non è tanto un atteggiamento mentale, una confessione puramente verbale, è invece molto concreto. Non «chi non dice», ma «chi non fa» non crede. Non crede nella possibilità e nella realtà di un Regno di equità, che Dio verrà sì ad instaurare ma che, prima ancora, chiede a noi di preparare attraverso la pratica della giustizia e della solidarietà.

Perché è così importante aspettare il Signore, al punto che Gesù proclama “beati” coloro che lo aspettano? E perché al contrario è così grave non aspettarlo, al punto che Gesù riserva a chi non lo aspetta “la sorte degli infedeli”?

È importante aspettare il Signore che è presente perché così si rende testimonianza che egli non è in nostro possesso, che Dio è con noi, ma noi non possiamo requisirlo, ma soltanto invocarlo. E non possiamo comandarlo, non abbiamo potere su di lui,  ma solo aspettarlo. La nostra attesa di Dio corrisponde alla libertà di Dio verso di noi.

Per questo è difficile attenderlo, perché significa dipendere totalmente da lui e riconoscere che siamo a mani vuote e tese. Il teologo Paul Tillich una volta ha detto: “Penso che buona parte della rivolta contro il cristianesimo, è dovuta alla pretesa esplicita o sottintesa dei cristiani di possedere Dio, e perciò anche alla perdita di questo elemento dell’attesa, così decisivo per i profeti e gli apostoli”.

Infine: la parabola dell’amministratore fedele e prudente narrata da Gesù viene provocata dalla domanda di Pietro che chiede se le cose dette fino a quel momento da Gesù siano da riferirsi a loro, o valgano anche per tutti. Tramite l’intervento di Pietro, l’evangelista Luca sembra quindi voler cercare di precisare chi siano i destinatari dell’insegnamento di Gesù, e quindi chi debbano essere identificati come i responsabili della comunità. La primitiva comunità post-pasquale, ci dicono gli esegeti, visto il prolungarsi dell’attesa del ritorno di Gesù, cercava infatti nelle parole del Maestro una indicazione che desse i criteri per individuare i soggetti in grado di essere gli “amministratori” della stessa.

La risposta di Gesù è una non-risposta. Difatti a questo interrogativo Gesù risponde ponendo a sua volta una domanda. “Chi è dunque …?”. La sua domanda retorica poneva certamente Pietro e gli altri discepoli a cercare di capire se potessero essere come quell’amministratore fedele e prudente”.  Ma in realtà Gesù non parla di una persona o gruppo di persone particolari che rivestano una funzione speciale. Questo è chiaro dalle sue parole che seguono: “Beato quel servo che il padrone, al suo arrivo, troverà intento a far così”. Poteva essere uno qualsiasi degli schiavi. L’unico requisito per essere dichiarato beato era di rimanere fedele. Non esiste quindi uno schiavo particolare o una classe particolare che è fedele e uno schiavo o classe particolare che è infedele. Ciascuno, ogni discepolo-schiavo, ha possibilità delle due condizioni. “Chi è dunque . . . ?”.

Gesù utilizza quindi un quesito che gli viene posto, come accade spesso nella narrazione evangelica, per sottolineare il criterio ultimo a cui l’uomo deve fare riferimento; nel caso specifico, ciò che “fa la differenza” non sono determinate persone poste in ruoli particolari, ma i criteri di verità, che Gesù rivela, come la disposizione del cuore (la fedeltà e la vigilanza) e la concretezza dei comportamenti (il farsi carico di quanti, non avendo ricevuto altrettanto, ci sono stati affidati).

Mi sembra questa bellissima intuizione di Gesù uno dei tratti caratteristici che le varie Chiese Protestanti hanno cercato di realizzare, pur con mille limiti, Difatti nella nostra Chiesa non vi sono ruoli ministeriali sacri, nessuno è chiamato a ruoli di amministrazione per elezione divina, ma ogni membro della comunità – secondo il criterio del sacerdozio universale dei fedeli – è chiamato, con i propri doni e i propri limiti, ad essere responsabile della propria sorella e del proprio fratello di fede. Nelle nostre chiese tutti i credenti sono eguali fra loro e nessuno nella chiesa è chiamato «maestro», o «padre», o «guida», perché uno solo è il maestro (come dice l’evangelo di Matteo). Non abbiamo «sacerdoti», nel senso di un ministero speciale e riservato ad alcuni appositamente ordinati a tal fine, e che abbiano in qualche modo il monopolio del rapporto con Dio, la celebrazione dei sacramenti, il governo della chiesa. Ministro vuol dire etimologicamente «servitore», e questo perché Gesù «è colui che serve», «è venuto per servire». Vi sono doni e servizi suscitati dallo Spirito che danno vita, senza dubbio, a delle diversità anche nelle nostre Chiese, ma sono diversità che devono servire a porre in essere le più svariate azioni della comunità, senza creare in essa delle gerarchie di dignità o di potere.

La riforma, di cui ricordiamo i 500 anni, ci ha lasciato in eredità questa intuizione, ribaltando una posizione, una convinzione teologica e una prassi ecclesiale più che millenaria (e, detto per inciso, è quella dalla quale le altre due Chiese cristiane, la Cattolica e la Ortodossa, dipendono): cioè la fine della differenza di natura tra uno “stato ecclesiastico o clericale” proprio dei cristiani che hanno ricevuto l’ordinazione, e lo “stato laicale” proprio dei cristiani non ordinati, cioè dei cosiddetti “semplici laici”. Scrive Lutero nella “La libertà del cristiano”: “Tutti appartengono allo stato ecclesiastico, e tra di loro non c’è alcuna distinzione se non unicamente quella della funzione; siamo tutti cristiani dello stesso tipo”.

La ragione teologica per la quale tutti i cristiani appartengono allo stato ecclesiastico, cioè sono tutti sacerdoti, è il battesimo, che è lo stesso per tutti ed è una vera ordinazione sacerdotale. Il “semplice laico” diventa così il personaggio principale della Chiesa, corresponsabile con i ministri della Chiesa, della sua predicazione, del suo insegnamento, della sua gestione. In questo modo la Riforma ha dato un contributo di prim’ordine alla emancipazione del laicato cristiano, alla sua crescita, all’avvento del cristiano adulto, maggiorenne, libero nella sua coscienza, responsabile delle sue scelte.

Gesù ci ricorda però che: “A chi molto è stato dato, molto sarà richiesto; e a chi molto è stato affidato, tanto più si richiederà”. La libertà che come cristiani rivendichiamo di fronte al mondo, e la nostra acquisita consapevolezza di persone adulte nella fede, non deve farci dimenticare che noi siamo liberi perché liberati da Cristo dal nostro peccato, e questo per poter essere oggi utili strumenti nelle mani di Dio.

AMEN

Fabio Barzon