Sermone: Predicazione di Domenica 19 Febbraio – 1 Pietro 3, 15

FESTA del 17 FEBBRAIO

Glorificate il Cristo come Signore nei vostri cuori. siate sempre pronti a rendere conto della speranza che è in voi a tutti quelli che vi chiedono spiegazioni.

In tutte le chiese valdesi e metodiste si è celebrata questa settimana come settimana delle liberazioni del Signore. La nostra Chiesa si ricorda della sua storia e delle vicende aspre e difficili attraverso le quali è passata. Si ricorda anche che, sempre, nella sua vita secolare, la sola ragione della sua sopravvivenza è stata nella misericordia di Dio e non nell’abbondanza o mancanza delle sue virtù e dei suoi meriti. Quindi si ricorda di come la storia di tutte le Chiese cristiane, è una riprova della carità di Dio perché, lungo il passare delle generazioni terrene, c’è sempre stata la consapevolezza di una mano che guida, anche quando intorno non è che tenebre e incertezza. Concludendo questa settimana, noi ci raccogliamo alcuni istanti intorno alla parola apostolica, che da un lato ci domanda di vivere nel timore di Gesù Cristo e dall’altra ci esorta a rispondere della speranza che è in noi.I tempi di ricordi sono, per una Chiesa come la nostra, anche dei tempi di umiliazione. Umiliazione, perché la relativa prosperità e libertà di cui godiamo non sono e non sono state per noi delle ragioni di rinnovato fervore. Umiliazione perché poco alla volta ci siamo abituati ai benefici di Dio come se ne avessimo diritto, come se fosse naturale e logico avere una vita relativamente tranquilla. […]

Non spacciamo per cristianesimo un molle, fiacco ed abitudinario modo di vivere, nel quale la fede appare solo come un elemento coreografico e tradizionale. Né Dio né gli uomini sanno che farsene dell’iniquità mescolata alle solenni assemblee. Ricominciare la nostra vita di Chiesa valdese non può avvenire se non avvertendo che vi è un giudice più severo e più veritiero della storia stessa: è Cristo il Signore. È lui, che ha il diritto, e lo esercita, di chiederci conto della serietà, dell’autenticità della nostra fede. È lui che, energicamente, ci domanda che cosa abbiamo fatto della Sua Parola, come abbiamo ridotto il messaggio della croce, come abbiamo vissuto la speranza della risurrezione. Egli ci ripete: «Voi non potete obbedire a due signori; non potete servire a Dio ed a Mammona» (Lc. 16,13).  […]

È questo il richiamo che l’apostolo Pietro rivolgeva ai disseminati del Ponto, della Bitinia e della Cappadocia: «siate sempre pronti a rispondere a vostra difesa a chiunque vi chiede ragione della speranza che è in voi». Questa parola era rivolta ad una Chiesa nel pieno della persecuzione. Quanto più facile dovrebbe essere per noi oggi rispondere a questa esigenza della fede, se consideriamo che non possiamo certo affermare di avere le stesse prove di quei primi cristiani. Né facciamoci un mito della persecuzione, come se fosse di per sé motivo di fedeltà: vi sono invece molte defezioni nel tempo della prova e molti ultimi sono primi ma anche molti primi sono ultimi. La sofferenza ha altrettante e più vittime della prosperità. Lo scrittore dei Proverbi, che era un buon conoscitore della debolezza umana, domandava a Dio né povertà né ricchezza, perché sapeva che ambedue le situazioni potevano diventare delle buone culture degli elementi di distruzione dell’uomo. È dalla potenza spirituale dell’uomo che si misura la sua capacità di superare i buoni e cattivi momenti dell’esistenza. Ora i cristiani devono sapere rendere ragione «della speranza che è in loro»: non si tratta di una discussione retorica, si tratta di una aderenza concreta e quotidiana ad un programma di rinnovamento spirituale. Si tratta di presentarsi «con buona coscienza» davanti al mondo in qualità di credenti, che non fanno della loro fede soltanto un’insegna esteriore. Bisogna cioè che abbiano una speranza in sé; bisogna che effettivamente non ci sia in noi soltanto un legame a quello che ci fa comodo o che ci piace, ma ci sia una fiamma di speranza, un ardore di attesa che il regno di Dio venga. Bisogna che ci sia una viva e quotidiana adesione alla verità di Cristo, non come ad un abusato e consumato codice cartaceo, ma come un’adesione ad una fede ardente e fervente. E bisogna che questo atteggiamento sia accompagnato da una buona coscienza «vale a dire dalla consapevolezza di una reale intima obbedienza al Signore».

(Estratto dalla riflessione della pastora Caterina Griffante)

Sermone: Predicazione di Domenica 12 Febbraio – Matteo 10, 28

Non temete coloro che uccidono il corpo, ma non possono uccidere l’anima; temete piuttosto colui che può far perire l’anima e il corpo nella geenna.

Questa parola di Gesù è detta a chi sta rischiando, e forse perdendo, la vita. Ma è detta anche a chi sta rischiando, e forse perdendo, l’anima. Ed è anzitutto questo che Gesù ci insegna: che si può perdere la vita senza perdere l’anima, e si può perdere l’anima senza perdere la vita. “Non temete coloro che uccidono il corpo”: Gesù l’ha detto ai suoi discepoli e testimoni, mandati nel mondo “come pecore in mezzo ai lupi” (Mt 10: 16). L’ha detto per incoraggiarli a dare, se necessario, anche la loro vita per l’Evangelo, e tanti l’hanno data: innumerevoli sono stati attraverso i secoli i credenti che per fedeltà e coerenza evangelica hanno perso la vita e perdendola l’hanno trovata (Mt 10: 39) – innumerevoli testimoni che hanno preferito morire confessando Gesù piuttosto che vivere rinnegandolo, hanno preferito morire con Gesù piuttosto che vivere senza di lui. Ma questa parola, destinata ai discepoli e ai testimoni di Gesù, vale certamente anche per tutti coloro che rischiano e perdono la vita per il diritto, la libertà e la giustizia. A tutti costoro viene rivolto da Gesù l’invito a non temere, perché quelli che uccidono il corpo non possono uccidere l’anima, in quanto non ne dispongono, dato che la nostra anima, il nostro io profondo, la nostra verità non appartiene a loro, non appartiene neppure a noi stessi, appartiene soltanto a Dio.  […]

Anzitutto Gesù vuole darci, davanti a coloro che uccidono il corpo, il coraggio della resistenza. Non li temete, dice Gesù, non scappate, non spaventatevi neppure quando siete nelle loro mani e possono farvi tutto quello che vogliono. In realtà non possono far molto: possono uccidere il vostro corpo ma non la vostra speranza; possono spezzare la vostra fibra ma non la vostra volontà; possono fermare la vostra vita ma non la ragione che la anima. Certo, possono uccidervi. Ma uccidere un essere umano non significa vincerlo. Anzi, spesso si uccide un essere umano proprio perché non si riesce a vincerlo. Non li temete! […] Ma Gesù non vuole darci solo il coraggio della resistenza, vuole darci anche il coraggio della fede. “Temete piuttosto colui che può far perire l’anima e il corpo nella geenna”: è Dio solo che può far questo, perché lui solo è il Signore dell’essere umano e può disporre pienamente di lui. Gesù dunque ci invita a temere Dio. Il nostro istinto sarebbe di temere gli uomini; Gesù ci dice che è Dio che dobbiamo temere. Il nostro istinto ci porta alla paura; Gesù ci porta alla fede. Temete Dio! Il timore della morte e il timore degli uomini sono superati col timore di Dio. Diceva Dietrich Bonhoeffer: “Chi teme ancora gli uomini, non teme Dio. Chi teme Dio, non teme più gli uomini”. E che cosa significa “temere” Dio, cioè prenderlo sul serio, al cospetto di quelli che uccidono il corpo?

Significa due cose: la prima, che nei confronti del male Dio è il Dio dell’ira del quale ci parlano tanti passi della Bibbia ebraica e del Nuovo Testamento, come i versetti dell’Apocalisse che abbiamo ascoltato, con quella immagine così suggestiva e potente dell’uva buttata “nel grande tino dell’ira di Dio”. Dell’ira di Dio oggigiorno non capita spesso di sentire parlare nelle predicazioni o negli studi biblici. […]Ma temere Dio davanti a quelli che uccidono il corpo significa qualcosa di ancora più importante, e cioè questo: se Dio è colui che può far perire l’anima e il corpo nella geenna, egli è anche colui che può far risuscitare e l’anima e il corpo dalla geenna. Temere Dio davanti a coloro che uccidono il corpo significa affermare la risurrezione, la sconfitta della morte, che ormai non serve più a distruggere l’essere umano, non raggiunge più il suo scopo. Uccidendo non si ottiene niente; Dio annulla l’opera della morte (Gv 11: 23: “tuo fratello risusciterà”, dice Gesù a Marta alludendo a Lazzaro morto). È questo il coraggio della fede che Gesù, invitandoci a temere Iddio, ci vuol dare. […]

(Estratto dalla riflessione della pastora Caterina Griffante)

Predicazione di Domenica 5 Febbraio – Isaia 40, 21-31

Non lo sai tu? Non l’hai mai udito? Il Signore è Dio eterno, il creatore degli estremi confinidella terra; egli non si affatica e non si stanca; la sua intelligenza è imperscrutabile. (Is 40, 28)

Il Dio che appare come un monarca irraggiungibile, come il creatore e il dominatore dell’universo, è effettivamente incomprensibile alla mente umana. Eppure un aspetto di lui è comprensibile, perché lui stesso lo ha voluto rivelare al profeta, e quindi a noi tutti: l’amore, la sollecitudine per il suo popolo, e in particolare per quelli del suo popolo che sono più deboli, più bisognosi di aiuto. La sua grandezza, egli la manifesta certamente dispiegando la sua forza contro i principi e i giudici della terra – cioè contro coloro che sono ritenuti e si ritengono “grandi”, autosufficienti, non bisognosi del sostegno divino; ma la manifesta anche e soprattutto piegandosi amorosamente verso chi, stanco e spossato, dispera delle proprie forze ma è pronto a mettere la propria speranza in Dio. Nessuna via può essere nascosta al Signore, a nessun diritto il Signore può essere disinteressato.

“Levate gli occhi in alto e guardate”, dice Isaia, “chi ha creato queste cose? Egli le fa uscire e conta il loro esercito, le chiama tutte per nome; per la grandezza del suo potere e per la potenza della sua forza non ne manca una” (40: 26).  Certo, qui si raffigura la potenza di Dio, ma di un Dio che esercita questa sua potenza mantenendo un rapporto intimo con tutto ciò che ha creato. Qui si allude al firmamento, agli astri; ed è toccante questo riferimento a Colui che chiama gli astri per nome, uno per uno, come se ciascuno avesse una storia, come a dire che se ogni cosa, in fondo, ha un suo nome, un nome che Dio conosce benissimo, che mai potrà dimenticare, a maggior ragione questo deve valere per ogni popolo e per ogni singolo essere umano, per quanto trascurabile possa apparire. Lo conferma un versetto del cap. 41, straordinario nella sua tenerezza: “Non temere, Giacobbe, vermiciattolo, e Israele, povera larva. Io ti aiuto, dice il Signore; il tuo redentore è il Santo d’Israele” (Is 41: 14). E abbiamo sentito come l’apostolo Paolo colleghi la natura imperscrutabile dei giudizi di Dio, la natura ininvestigabile delle sue vie, alla sua volontà di “far misericordia a tutti”. D’altra parte le vie del Signore – come proclama il vecchio Zaccaria nel vangelo di Luca – queste vie certamente imperscrutabili e ininvestigabili, inaccessibili alla ragione umana, sono pur sempre le vie che Gesù, per conto del Padre suo, ci prepara “per dare al suo popolo conoscenza della salvezza mediante il perdono dei loro peccati, grazie ai sentimenti di misericordia del nostro Dio…”.

(Estratto dal sermone della pastora Caterina Griffante)