Sermone: Predicazione di Pasqua – 1 Cor 15, 1-5


Credo che in tutte le comunità ecclesiali, in tutte le confessioni, ci siano  persone che ragionano come ragionavano i Corinzi più scettici, cioè, secondo quei criteri di saggezza che sono propri del “mondo” o degli “uomini”, come dice Paolo nel cap. 1 di quella stessa prima lettera ai Corinzi; persone che ragionano dimenticando che la chiesa si fonda non sulla saggezza umana, ma su quella che Paolo stesso chiama lo “scandalo” e la “pazzia” dell’Evangelo. Ma scandali e pazzie sono difficili da assumere come criteri normativi della propria vita, che istintivamente noi vogliamo improntata a razionalità e buon senso. Ecco perché non abbiamo molto da guardarci intorno per scoprire chi sono tra noi i “miscredenti”, gli emuli di quei Corinzi con i quali polemizzava Paolo. Il miscredente – almeno in certe circostanze, in certi momenti – il miscredente è ciascuno di noi, io stessa che vi parlo. Credo che anche a quelli tra noi  più saldi nella fede sia capitato almeno una volta di dubitare, di dubitare proprio di questo evento che oggi celebriamo: la risurrezione. Si tratta di un dubbio molto umano. Perché questo cardine della fede cristiana, la risurrezione, è un evento non dimostrato e non dimostrabile. Mentre la passione e morte di Gesù hanno avuto molti testimoni, la sua risurrezione non ne ha avuto nessuno. Inoltre,  si tratta di un evento che esula completamente dal campo non solo della nostra esperienza, ma anche della nostra immaginazione. Il grande teologo Karl Barth ha definito la risurrezione un evento che tocca il nostro mondo “come la tangente tocca il cerchio, senza toccarlo”: cioè lo sfiora appena e resta esterna al cerchio, al nostro orizzonte umano, pur non potendo più esserne esclusa, pur essendo entrata a farne parte definitivamente. E proprio perché è del tutto fuori dal nostro orizzonte e non riusciamo in alcun modo a concepirlo, la sua forza di convinzione è pressoché nulla. Eppure, ecco il grande paradosso evangelico: proprio questo fatto che è il meno dimostrabile, il più discutibile e contestabile, il meno convincente e il meno proponibile di tutti, è stato posto dai primi cristiani a fondamento della loro fede. […]

Certo, è vero che molti in passato e molti al giorno d’oggi hanno considerato e continuano a considerare Gesù come un maestro di morale, un altissimo modello etico; molti ritengono che si debba accettare e seguire il suo insegnamento, accantonando però la sua risurrezione che è qualcosa di inaccettabile in quanto – lo sanno tutti – i morti non risorgono. Ma dobbiamo sapere che – per quanto strano possa sembrare a prima vista – abbiamo l’insegnamento di Gesù solo perché Gesù è risorto. Quindi l’apostolo Paolo ha ragione quando scrive: “Se Cristo non è risuscitato, vana è la vostra fede” (I Cor 15: 17). Perché “vana”? Perché se Cristo non è risuscitato, voi cristiani credereste in un morto, grande finché si vuole, ma morto: dunque un uomo, non il Figlio di Dio; dunque un Maestro, non il Signore. Sì, si può credere nell’insegnamento di Gesù, e non in Gesù Signore. Ma in tal caso, si tratta di un cristianesimo ridotto a morale, un cristianesimo diverso da quello che i primi cristiani hanno confessato, spesso anche con il sacrificio della vita. A chi chiede la “prova” della risurrezione di Gesù, direi che è questa l’unica “prova”: il fatto che, come scrive l’autore della lettera agli Ebrei, siamo “circondati da una così grande schiera di testimoni” (Eb 12:1). Testimoni di che cosa? Testimoni che Gesù è vivo, è anzi il Vivente per eccellenza. Testimoni che lo sanno per averlo sperimentato. Mi sembra già di sentire le obiezioni: “anche queste esperienze sono fatti tutti personali, non verificabili, ai quali può credere solo chi è in qualche modo già disposto a credere; a me una cosa del genere non è mai capitata”.

(Estratto dalla riflessione della pastora Caterina Griffante)

Sermone: Predicazione di Domenica delle Palme – Is 50, 4-9

Il Signore, Dio, mi ha dato una lingua pronta, perché io sappia aiutare con la parola chi è stanco, Egli risveglia, ogni mattina, risveglia il mio orecchio, perché io ascolti come ascoltano i discepoli.

La folla identificava Gesù come “colui che viene nel nome del Signore, il re d’Israele”, riconosceva pertanto in lui una figura investita della missione di liberare e governare il popolo di Israele; una missione, dunque, certamente carica di valenze spirituali eppure in primo luogo politica. All’atteso sovrano, che la folla credeva fosse finalmente venuto nella persona di Gesù, spettavano gloria, onori, l’obbedienza del popolo, il dominio su Israele. Si trattava, in altre parole, di un uomo di potere: di un potere concepito secondo criteri umani. Una figura nella quale, indubbiamente, Gesù non poteva riconoscersi. Eppure, Gesù non si sottrae a questo trionfo: anzi, come raccontano le versioni dell’ingresso in Gerusalemme riportate dai vangeli sinottici è Gesù stesso a voler conferire a questo ingresso un carattere pubblico e solenne, è Gesù stesso a  incaricare i suoi discepoli di procurargli a questo scopo una cavalcatura, è Gesù stesso a non sottrarsi all’omaggio della folla. […]  Solo, il suo concetto di regalità era diverso da quello della folla, questo inviato dal Signore non è un re, non è un potente, non è un grande della terra: è un servo, e per giunta un servo sofferente, maltrattato, vittima di ogni sorta di oltraggi. Isaia parla di un servo tutto particolare: il servo del Signore. Sappiamo che gli esegeti hanno molto discusso sull’identità di questo servo del Signore: chi lo ha identificato con l’intero popolo di Israele, chi con un singolo, forse il profeta stesso, o forse una figura messianica; la tradizione cristiana ha riconosciuto in lui la prefigurazione di Cristo. Chiunque sia questo servo del Signore, quello che ci interessa sono le sue caratteristiche. Ricordiamo che nell’antico Israele “servo del Signore” designava il re stesso. Questa qualifica, se ci pensiamo bene, denota una condizione di straordinaria dignità, in quanto – paradossalmente – questo tipo di servitù equivale al massimo grado di libertà. “Servo del Signore” significa, in linguaggio biblico, uomo libero, il più libero che si possa immaginare, in quanto chi è “servo del Signore” non può essere, al tempo stesso, servo degli esseri umani.

La storia umana è impastata di sofferenza; eppure, il servo crede a Dio come al Dio della storia, e sa quindi che la sofferenza non avrà l’ultima parola. Nel frattempo, il servo la sofferenza la assume su di sé senza perdere la speranza, proprio come Giobbe; e con questa sua saldezza, oltre che con la sua “lingua pronta”, è in grado di divenire “luce delle nazioni”, di farsi testimone della potenza creatrice e rinnovatrice di Dio che rianima chi è stanco, chi è sfiduciato. Il servo, sofferente ma non disperato, non sconfitto, ancora in grado di annunciare le cose nuove di Dio, mostra che anche nella tragedia c’è uno spiraglio, che c’è una possibilità aperta anche là dove non è facile riuscire a vederla. E insegna la pazienza, il rispetto del tempo del Signore, che, a differenza del nostro, è spesso un tempo lungo. In questo tempo, però, i persecutori finiranno logorati come un vestito ormai consunto mentre lui, il servo, vedrà la sua apparente sconfitta tramutarsi in vittoria: non la sua vittoria, ma la vittoria del Signore. […]

(Estratto dalla riflessione della pastora Caterina Griffante)