Eventi: FAMIGLIA CRISTIANA? O, PIU’ SEMPLICEMENTE, FAMIGLIE?

TAVOLA ROTONDA

 FAMIGLIA CRISTIANA? O, PIÙ SEMPLICEMENTE,
FAMIGLIE?

 INTERVENGONO

Marco Bouchard, Chiesa Valdese;

Franco Evangelisti, Chiesa Avventista;

Enrico Piccolo, Chiesa Cattolica;

Daniela Ruffini, Consiglio Comunale di Padova

MODERA

 Manuel Giacomazzi

SABATO 27 OTTOBRE 2012 – ORE 17.00

CHIESA EVANGELICA METODISTA

Corso Milano 6, PADOVA

Per Informazioni 

Pastora Caterina Griffante

Telefono 049650718

Cellulare 3471720957

E mail: cgriffante@chiesavaldese.org

News: Circolare Corso Milano 6

CORSOMILANOSEI

Circolare ai membri ed agli amici della Chiesa Metodista di Padova

Corso Milano, 6, 35139 Padova

Past. Caterina Griffante tel. 3471720957 e-mail cgriffante@chiesavaldese.org

Ottobre 2012

Due uomini camminano forse insieme, se prima non si sono accordati?

Am 3: 3

   Per la breve meditazione con la quale desidero iniziare il primo numero della Circolare del nuovo anno ecclesiastico vi propongo un solo versetto, un versetto dal cap. 3 del profeta Amos. Un solo breve versetto, che nella sua stringatezza mi ha colpita perché in pochissime parole contiene, a mio avviso, molti insegnamenti per chi – come noi; come in fondo tutti i cristiani a vario titolo impegnati nella loro chiesa – deve ogni giorno imparare di nuovo a lavorare in ambito comunitario, con spirito comunitario.   Mi sembra di poter riconoscere i punti focali di questo versetto in due verbi: “camminano” e “si sono accordati”; e in un avverbio: “insieme”.

   “Camminano”: la vita delle chiese, come quella dei singoli credenti, è, deve essere, un continuo procedere. Non un procedere casuale, improvvisato, scoordinato, senza un obiettivo, senza un progetto comune – o rivolto verso obiettivi e progetti meramente umani. Una chiesa che non cammina, o che cammina per vie proprie anziché per le vie indicatele dal Signore,  rischia di essere come la chiesa di Sardi, viva solo in apparenza, in realtà morta (cfr. Ap 3: 1). “Camminare” significa, nel nostro caso, mantenersi vigili e attivi nel percepire, nel mettere a fuoco con chiarezza (in primo luogo) e poi nel cercare di risolvere i mille problemi – ma forse sarebbe meglio dire: le mille sfide – poste alle chiese da una realtà in continua trasformazione come la nostra, quella dell’Italia nordorientale. In altri termini, il “camminare” richiesto alle chiese io lo intendo così: ciò che Dio vuole in questo momento dalle nostre chiese è che non chiudano gli occhi dinanzi alle difficoltà, alle situazioni critiche, ma che sappiano sviluppare la capacità di trovare risposte alle esigenze dei tempi mantenendo tuttavia intatta la fedeltà alla propria vocazione di chiese evangeliche.

  Qual è questa vocazione? Noi viviamo e ci troviamo a operare, come ben sappiamo, in un contesto impregnato di cattolicesimo: “cattolicesimo” spesso vissuto in modo assai stanco e convenzionale, talvolta ridotto a una generica “cultura” di matrice vagamente “cattolica”.  Ecco, la nostra vocazione io la vedo in primo luogo come una chiamata ad “evangelizzare”: cioè a portare, ai tanti che in questo contesto faticano ad appagare la loro fame e la loro sete della parola di Dio, la “buona notizia” che “cristianesimo” non si identifica necessariamente con “cattolicesimo”, che esistono altri modi di vivere la comune fede nell’unico Signore e, di conseguenza, anche altri punti di vista nel considerare e affrontare tanti punti nodali dell’esistenza umana, dalla nascita alla malattia alla morte, al significato di famiglia e di vita di coppia…

  Questo cammino va compiuto insieme. Riconosciamolo: non è facile fare le cose “insieme”. Sia per i singoli membri di chiesa, sia per ciascuna chiesa nel suo insieme, è sempre in agguato la tentazione di far prevalere le tendenze all’individualismo. Per quanto riguarda la chiese, le tentazioni “individualistiche” vanno riconosciute nel rischio, sempre incombente, di deriva congregazionalistica. Credetemi: so per esperienza che nelle chiese non mancano i membri che ignorano o ritengono irrilevante il fatto di appartenere a una chiesa di ordinamento presbiteriano. In più di una occasione mi è capitato di sentir affermazioni del genere: “ma che c’entrano con la nostra chiesa le decisioni del Sinodo? Le scelte della nostra chiesa sono affar nostro”. Credo sia necessario, all’interno delle singole chiese, un imponente lavoro di educazione, o di ri-educazione, riguardo agli ordinamenti delle nostre chiese valdesi e metodiste e ai criteri di base che devono ispirare la nostra vita comunitaria. Più in generale: alla necessità di camminare “insieme” si risponde mantenendo sempre viva la volontà e la disponibilità a comunicare. Questo significa: curare sempre i rapporti con gli interlocutori, all’interno della propria chiesa e tra chiese; evitare che si interrompano o che si chiudano i canali di comunicazione; fare ogni sforzo per esprimere sempre chiaramente il proprio pensiero e per ascoltare innanzitutto, e poi comprendere bene il pensiero dell’interlocutore. I malintesi sono il grande pericolo: è per questo che nel nostro reciproco scambio di comunicazioni non può esserci posto per i sottintesi, le allusioni, il “fra le righe”, insomma per tutto il grande repertorio del “non detto”, causa potenziale di infiniti guai.

   Questi criteri possono funzionare solo se tutti concordano e si impegnano ad adottarli. È, questo, il primo indispensabile passo, un passo a misura umana, per realizzare l’insegnamento di Amos: per camminare insieme, è necessario prima essersi accordati. Lo so, nemmeno questo è facile. Ciascuno ha la propria personalità, il proprio carattere, la propria formazione, i propri orientamenti; ciascuno pertanto ha le proprie idee – e a queste idee è enormemente affezionato – su come il cammino dovrebbe essere intrapreso e percorso; le idee, talvolta, sono discordanti anche per ciò che concerne l’obiettivo finale. Si tratta di una difficoltà oggettiva, che le chiese hanno vissuto fin dalle origini del cristianesimo. Da sempre, le comunità cristiane hanno riunito persone che, in un’ottica umana, tutto contribuiva a dividere: l’appartenenza sociale e di genere, la cultura, spesso anche la lingua e l’etnia… Tenere insieme questa eterogenea accozzaglia di gente era, sempre secondo un’ottica umana, un’impresa impossibile. Eppure, a distanza di duemila anni, noi constatiamo che questa impresa impossibile è riuscita. Questo significa che il cemento che teneva e tiene insieme la chiesa non è fatto di elementi umani, ma va riconosciuto in una persona: Gesù (cfr. Gal 3: 28: “voi tutti siete uno in Cristo Gesù”).

  Ciò vale anche per la nostra realtà locale di chiesa: se crediamo che la nostra vocazione sia quella di camminare insieme, dobbiamo accordarci. Come? Certamente, come dicevo prima, con i nostri umanissimi sforzi, con il nostro impegno, perché i cristiani, tanto più se protestanti, devono avere sempre viva la consapevolezza delle proprie responsabilità. Ma al di sopra di tutto questo deve valere per noi la volontà di accordarci nel camminare insieme, come dice Paolo, “in Cristo Gesù”. Forse nel nostro incontrarci, nei nostri rapporti reciproci, noi dovremmo ricordare più spesso, e in modo sostanziale, non meramente formale, che ciò che rende possibile e dà un senso al nostro essere insieme, al nostro lavorare insieme, al nostro camminare insieme è Cristo Gesù.  Del resto, l’accenno di Amos ai “due uomini” richiama immediatamente il “poiché dove due o tre sono riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro” di Mt 18:20. È un versetto, questo, spesso citato nelle nostre assemblee; non sarebbe male provare davvero, finalmente, a viverlo, a metterlo in pratica.

Caterina Griffante


VITA DELLA CHIESA

*    Culti

Il culto si tiene alle ore 11.

*    Catechismo

Ogni domenica, a cominciare dal 4 novembre, prima del culto, dalle ore 11 alle 11, 10 si terrà la lettura e un breve commento al Catechismo di Heidelberg (si seguirà Paolo Ricca, La fede cristiana evangelica. Un commento al Catechismo di Heidelberg, Torino, Claudiana, 2011. Se qualcuno/a vuole acquistare il volume si rivolga alla pastora).

*    Studio Biblico

Gli studi biblici si tengono di sabato alle ore 17, presso le famiglie. Il primo incontro sarà dedicato all’esame del “Documento su famiglia, matrimonio e coppie di fatto”, i successivi allo studio dei Salmi.

 

Prossimi incontri:

10 novembre (Famiglia Angeleri)

24 novembre (Famiglia Ruaro)

15 dicembre (Famiglia Fattore)

*    Studio Biblico Interconfessionale

Il Qohelet sarà oggetto dello studio biblico interconfessionale che si tiene presso i locali sociali il primo e il terzo venerdì del mese alle ore 21.

Prossimi incontri:

19 ottobre

9 novembre

23 novembre

14 dicembre

*    Unione Femminile

Come lo scorso anno gli incontri si terranno, salvo impedimenti, il primo e il terzo sabato del mese alle ore 17 nei locali sociali. In questa prima parte dell’anno ci si dedicherà alla preparazione del Bazar. Per informazioni rivolgersi ad Antonella Paccagnella (cell. 3929586601)

*    Catechismo Per Adulti

In giorni ed ore diversi a seconda delle esigenze e degli impegni di ciascun catecumeno. La pastora è disponibile per chiunque desideri iniziare un percorso di catechismo.

APPUNTAMENTI

 

*    21 ottobre Culto ed Assemblea di Chiesa ore 10.30

*    26 ottobre Apertura dello Sportello per la raccolta dei Testamenti Biologici dalle ore 17 alle 19

*    27 ottobre “Che cos’è la famiglia?” Tavola rotonda ore 17

*   28 ottobre Festa della Riforma Ammissione in chiesa di Alberto Ruggin e Federico Tirindelli

Culto con la partecipazione del coro “Gospel-Up”. Segue Agape ore 11

*    14 novembre Consiglio di Chiesa ore 18,30

*    18 novembre Culto dei giovani (a cura della FGEI) ore 11

*    2 dicembre Culto, Agape e Bazar dalle ore 11

 

La pastora è presente nei locali sociali ogni mercoledì (dalle 10 alle 16, 30) a disposizione di chiunque desideri un colloquio, una visita pastorale o semplicemente qualche informazione. Telefonare al numero 3471720957 o scrivere una mail: cgriffante@)chiesavaldese.org.

NOTIZIE DAL SINODO

 

Finanze La partita doppia delle chiese

 

Due dati hanno caratterizzato in tempi diversi il dibattito sinodale di quest’anno, due dati riguardanti la parte finanziaria: l’aumento delle firme dell’8×1000, che hanno superato nel 2011 quota 400.000, corrispondenti a più di 12 milioni di euro; le contribuzioni, che con 2,2 milioni coprono solo l’88% dei costi del campo di lavoro. Da una parte, quindi, una grande fiducia riposta in noi da parte degli italiani che, dovendo destinare parte delle loro tasse a qualcuno in questo tempo di crisi delle istituzioni, preferiscono le nostre chiese perché ne apprezzano la gestione trasparente e il fatto di non destinare soldi a fini di culto, o semplicemente perché danno una valutazione negativa della gestione di questi fondi da parte della Chiesa cattolica e apprezzano molte delle nostre scelte in materia etica e sociale. Dall’altra parte invece non riusciamo a coprire completamente i nostri costi con le contribuzioni. Una piccola ma interessante indagine fatta al nostro interno ci ha mostrato come i motivi di queste mancate contribuzioni siano da ricercarsi soprattutto nella scarsa affezione, nel calante senso di appartenenza e nella popolazione più giovane che contribuisce meno e non riesce a sostituire la parte più anziana delle chiese, che è e resta la maggiore contribuente. Sicuramente un dato accentuato dalla crisi nel mondo del lavoro, di cui i giovani pagano il prezzo più alto, ma allo stesso tempo anche uno spunto per riflettere sul senso di appartenenza, che è inferiore nelle generazioni più giovani. Aumentare le contribuzioni del 10% e diminuire i costi del campo di lavoro del 3% entro il 2015 e aumentare allo stesso tempo le risorse, sia in termini di soldi sia di persone, per verificare ancora meglio i tantissimi progetti che ogni hanno vengono finanziati con l’8×1000, queste le due decisioni prese. Alcune linee guida e alcune domande restano sul tavolo e ci possono guidare nei prossimi anni.

NON DESTINARE ALCUN EURO A FINI DI CULTO È UNO DEI MOTIVI PRINCIPALI PER IL QUALE LA NOSTRA CHIESA RICEVE LA FIDUCIA DI 400.000 ITALIANI. Per poterci permettere di continuare ad affermarlo è necessario che le nostre chiese aumentino le contribuzioni di circa 300.000 euro. Vuole dire dare 16 euro in più a testa. Una pizza e una birra come segno della riconoscenza per ciò che abbiamo ricevuto.

Come mai cosi pochi di coloro che firmano per noi si avvicinano alle nostre chiese? Non sono facilmente raggiungibili? In fondo sono soldi che si devono pagare in ogni caso e non interessa sapere che cosa credono quelli che li gestiscono, ai quali vengono destinati? basta che siano più onesti? Le «opere di bene» sono più interessanti e meno impegnative della predicazione e della vita comunitaria? CHE RISCHI CORRE UNA CHIESA CHE LENTAMENTE VEDE ERODERSI IL NUMERO DEI SUOI MEMBRI E CRESCERE ESPONENZIALMENTE IL NUMERO DI COLORO CHE LE AFFIDANO I SUOI SOLDI PER PROGETTI SOCIALI, ASSI­STENZIALI E CULTURALI? Dal 2008 l’Agenzia delle Entrate ha secretato i dati relativi all’8×1000, rendendo di fatto impossibile conoscere la distribuzione delle firme e la loro percentuale su base comunale. Starà a noi andare in questo campo, in parte sconosciuto, ad annunciare la parola che sostiene questi progetti e sulla quale fondiamo la nostra speranza per parlare delle radici a chi ha conosciuto finora solo i frutti.

Davide Rostan – Riforma n. 35 – 14 settembre 2012, p. 9


ATTO DEL SINODO

 

Il Sinodo, dopo aver constatato che gli aumenti degli oneri fiscali a carico del patrimonio immobiliare ridurranno notevolmente il contributo che questo patrimonio potrà dare in futuro per la copertura del deficit generato strutturalmente dal campo di lavoro,

— rinnova l’appello già espresso nell’art. 83/SI/2011;

— invita le chiese, i singoli pastori/e e diaconi/e, nonché i membri delle commissioni e la Tavola valdese a fare propri entro il 2015 i seguenti obiettivi:

 

* incremento del 10% delle contribuzioni

* riduzione del 3% dei costi del campo di lavoro

Sermone: Predicazione di Domenica 14 Ottobre – Giacomo 5, 13-16

La lettura per la predicazione è tratta dalla lettera di Giacomo. Una lettera preziosa proprio perché scomoda, perché mette dinanzi agli occhi del cristiano le esigenze concrete di una vera testimonianza di fede. Una lettera che non fa sconti a nessuno. Una lettera che ha posto in passato e tuttora pone qualche difficoltà al cristiano che si riconosca nella tradizione della Riforma. Perché in questi versetti vengono raccomandate pratiche come l’unzione degli infermi e la confessione privata dei peccati: pratiche, lo sappiamo bene, che sono state e sono per i protestanti oggetto di un secolare contenzioso con i cattolici, i quali hanno elevato entrambe alla dignità di sacramenti operando così una scelta dottrinale inaccettabile per il protestantesimo.

Quando ci si confronta con un passo biblico per farne oggetto di predicazione, la domanda è sempre: qual è il messaggio di salvezza, qual è l’Evangelo contenuto in questi versetti?   Leggiamola con attenzione: vediamo allora, innanzitutto, che il messaggio è qui veicolato da tre esortazioni che hanno un elemento in comune: la preghiera, sia essa preghiera di lode o preghiera di intercessione. Cominciamo allora a lasciarci interrogare dalla prima di queste esortazioni: pregare Dio nella sofferenza e “cantare inni”, cioè lodarlo, nella gioia. Si tratta di una regola da seguire nella propria vita di fede che non ha, in sé, nulla di nuovo: atteggiamenti di questo genere sono raccomandati da tutta la tradizione di spiritualità veterotestamentaria, nella quale Giacomo si inserisce pienamente.

Fermiamoci a riflettere, ponendoci questo solo interrogativo: quanto sarebbe diversa la nostra vita personale, e la vita delle nostre comunità, se ciascuno di noi prendesse sul serio questa prescrizione così ovvia? Se in ogni circostanza della nostra vita, triste o lieta, negativa o positiva, noi facessimo in primo luogo riferimento al Signore? Il fatto che questo comportamento noi dobbiamo presentarlo come ipotetico, che siamo costretti a dire “e se…?”, già la dice lunga sulla nostra condizione di credenti molto poco credenti. Porre sempre Dio al centro della propria vita dovrebbe essere non l’obbedienza a un precetto, ma un modo di essere del tutto naturale, spontaneo come il respiro: avere la certezza che in qualsiasi situazione noi abbiamo un interlocutore con il quale non dobbiamo, ma abbiamo la possibilità, abbiamo il dono, abbiamo il privilegio di condividere o la nostra sofferenza, rivolgendogli richiesta di aiuto e di sostegno, o la nostra gioia, lodandolo e ringraziandolo. Se – se! – fossimo credenti al punto di comportarci così, da avere con il Signore un rapporto tanto immediato, spontaneo, fiducioso, sono certa che la nostra vita individuale e comunitaria cambierebbe. Saremmo meno concentrati su noi stessi, e più pronti a cogliere ciò che Dio vuole comunicarci attraverso le alterne vicende della nostra vita.

Attraverso le vicende di ogni genere: positive o negative. Per chi ha fede, infatti, anche attraverso la malattia il Signore ci parla, ci vuole comunicare qualcosa. E la malattia è al centro della seconda esortazione, che sembra riferirsi a un ministero di assistenza spirituale ai malati svolto dagli anziani della comunità. Non si allude qui a persone dotate di quei “doni di guarigione per mezzo dello Spirito” che Paolo elenca tra i doni spirituali (1 Cor 12: 9); si vuol dire, semplicemente, che ai responsabili della comunità spetta il compito di visitare i malati, intervenendo su di loro e per loro con la preghiera e con l’unzione, unzione che è, in fondo, null’altro che una preghiera espressa in altra forma, una sorta di benedizione. Non credo si possa condividere la dottrina cattolica che attribuisce un carattere di “sacramentalità” a questo gesto. Penso, piuttosto, che venga indicata qui una delle modalità con le quali la comunità cristiana poteva fare sentire al fratello o alla sorella malati la propria solidarietà amorevole. Il motivo per cui Giacomo consiglia proprio l’unzione con olio sta probabilmente nel fatto che questa era una prassi molto usata, in vari contesti e con varie finalità, al tempo in cui veniva scritta questa lettera. Quanto a noi, direi che l’idea dell’unzione dovrebbe essere per le nostre chiese essenzialmente uno stimolo alla creatività, a inventare i modi più opportuni e più indicati – che possono variare a seconda dei luoghi, dei tempi, delle consuetudini – per testimoniare in concreto la nostra vicinanza a chi è malato.

Dobbiamo essere molto decisi, sorelle e fratelli, nell’affermare che la fede del singolo e della comunità si mette alla prova proprio in circostanze di questo genere. La vocazione cristiana non consente di trascurare i malati, o di occuparsene solo a parole. Nelle nostre chiese il pastore è solito visitare gli infermi; ma questo compito non dovrebbe essere riservato al solo pastore, dovrebbe essere esteso al consiglio di chiesa o, meglio, alla comunità nel suo insieme. E, anche se certamente non tutti i membri di chiesa possono aver modo di visitare materialmente il malato, credo che tutti dovrebbero essere coinvolti nella preghiera e anche nella ricerca di qualche equivalente dell’“unzione con olio”: di qualche gesto che riesca a farlo sentire veramente oggetto di amore, da parte di Dio e da parte della chiesa e che lo aiuti al tempo stesso a riflettere, a concentrarsi per cercare di capire che cosa Dio vuole dirgli attraverso questa esperienza.

Perché anche per i più fervidi credenti la reazione più comune, in caso di malattia grave, è quella di abbattersi, di disperarsi o di abbandonarsi al risentimento (“perché capita proprio a me? che cosa ho fatto di tanto male da meritarmelo?”).  È da sperare che chi visita i malati non ricorra a sciocche frasi fatte tipo “Coraggio, vedrai che tutto andrà per il meglio, l’erba cattiva non muore”, e nemmeno alla frase forse ancora peggiore, perché quasi blasfema: “Il Signore vuole metterti alla prova”. No: l’infermo ha bisogno di essere “unto con l’olio” di una fede piena di amore, sincera e umile, che non pretende di cercare di spiegare ciò che è umanamente inspiegabile, ma semplicemente di aiutare chi soffre a capire che Dio non ci manda, ma si serve della malattia per chiederci qualcosa: un’intuizione, un cambiamento; e che una guarigione è anche una guarigione interiore, legata a qualcosa che avviene dentro di noi. Difficile? Sì, certamente è difficile; e chi l’ha mai detto che mettere in pratica la fede sia facile? Ma forse, tanto per cominciare, basterebbe proporre al malato il versetto di Ger 17: 14. Recitarlo con fede insieme a lui o a lei, e lasciare poi la Parola libera di agire.

Che il tempo della malattia possa essere per chi lo attraversa un tempo prezioso di riflessione e di mutamento interiore, in una parola di “conversione”, è confermato dallo stesso Giacomo, allorché afferma che grazie alla preghiera degli anziani della chiesa non solo il Signore ristabilirà in salute il malato, ma ne perdonerà i peccati. Per vie misteriose, dunque, alla guarigione dalla malattia è strettamente associata la guarigione dal peccato. E appunto il tema del perdono è al centro della terza esortazione: l’invito ai membri della comunità di fede a confessarsi reciprocamente i peccati, aiutandosi l’un l’altro con la preghiera. La confessione privata e personale dei peccati è un argomento quanto mai ostico a orecchie protestanti. Eppure tanti esponenti di primissimo piano della Riforma, da Lutero a Calvino fino a Bonhoeffer, pur respingendo il concetto cattolico-romano di confessione come pratica obbligatoria hanno messo in evidenza l’utilità della confessione privata, non necessariamente a un ministro del culto. Questa terza esortazione di Giacomo va presa estremamente sul serio: pensiamo a quanto sarebbe di aiuto per una coscienza tormentata poter prendere le distanze dal proprio peccato enunciandolo a voce alta, poter ricevere da un fratello o da una sorella di chiesa l’annuncio del perdono. Ma questa che chiamerei “reciproca cura d’anime” può verificarsi solo in una comunità che sia, a sua volta, una comunità davvero “guarita”, davvero “convertita”. Esiste all’interno della nostra comunità tanto amore fraterno, tanta fiducia reciproca, tanto disinteressato spirito di servizio, tanta saggezza spirituale da rendere anche solo lontanamente immaginabile la prassi della confessione privata? Lasciamoci con questo interrogativo; ciascuno, nel proprio cuore e in tutta sincerità, dia la risposta. Amen.