Sermone: IL POPOLO DEL LIBRO

Salmo 1 (BIR)

1 Beato l’uomo che non cammina secondo il consiglio dei malvagi, non si ferma sulla strada dei trasgressori e non si siede nel consesso degli schernitori, 2 al contrario, il suo piacere è nella legge di Yhwh e sulla sua legge rimugina giorno e notte. 3 Sarà come albero trapiantato presso canali d’acqua, che dà frutto a suo tempo, il cui fogliame non appassisce e tutto ciò che fa gli riesce. 4 Non così sono i malvagi, anzi, sono come pula che il vento sospinge. 5 Perciò i malvagi non potranno resistere nel giudizio, né i trasgressori nell’assemblea dei giusti. 6 Infatti Yhwh conosce la via dei giusti, ma la via dei malvagi si perderà.

Care sorelle e cari fratelli,

Sono ormai passati quasi cinquecento anni da quando Lutero a Worms pronunciò la famosa frase: Hier stehe ich, qui io sto fermo, per affermare che era irremovibile nel suo intento di seguire la Scrittura come unica regola della sua fede. Davanti a lui da una parte stava il consiglio degli opportunisti che circondava l’imperatore, e dall’altra la Parola di Dio. Lutero scelse con chiarezza, e così fecero dopo di lui e dietro a lui diversi principi di varie nazionalità, intellettuali di ogni ambito, uomini e donne di ogni estrazione sociale. Di fronte alla minaccia delle armi rivolta a chi voleva seguire la via del Signore, di fronte agli schernitori di professione che gettavano fango su chiunque osasse opporsi al potere del papa e dell’imperatore, queste persone hanno fatto una scelta, pagandola sovente molto cara.

Una situazione simile viene prospettata dal Salmo 1. Il lettore, infatti, viene posto di fronte ad un’alternativa radicale. Da una parte stanno gli empi, gli schernitori, quelli che sono, è vero, come pula che il vento disperde, ma che ai nostri occhi appaiono sovente potenti e vittoriosi; dall’altra sta chi rimugina la Scrittura, la torah di Dio. Noi con chi stiamo? Dietro a noi stanno generazioni di uomini e di donne che questa scelta l’hanno fatta, costruendo quella storia che ci piace tanto ricordare, celebrare, ma un po’ meno vivere nel nostro quotidiano. E noi?

Chi sceglie la via della Scrittura viene detto beato, e chi è beato è anche salvato agli occhi di Dio, sta in piedi saldo davanti al Suo giudizio. Ma non solo. Noi tendiamo a proiettare nel futuro escatologico questa beatitudine, il salmista ce la riporta al presente, non solo perché il giudizio di Dio è un giudizio quotidiano, ma anche perché la sua dimensione esistenziale è orientata principalmente al presente. Chi evita malvagi, trasgressori e schernitori, e trova il suo piacere nella parola di Dio e su essa medita, si china a leggerla e a rileggerla, (l’immagine del Salmo ci richiama una persona che legge e rilegge, mormorando alle sue stesse orecchie questo insegnamento), questi è come un albero piantato vicino all’acqua che vive la sua vita rispettandone l’armonia, i tempi, le fasi, vivendo la sicurezza interiore del credente, di colui che vive la sua vita sapendo che le sue scelte sono accompagnate da quella Parola che sola può condurci sul retto sentiero. Vive, insomma, la solidità di chi nel suo proprio tempo sa che cosa deve fare e quando. Per questo ha successo e produce frutto abbondante.

Degli avversari, invece, viene evidenziata l’instabilità, la fugacità, la debolezza. Quando arriva il vento l’albero rimane stabile, mentre loro sono portati in giro senza pietà, senza potersi ancorare a nessuna radice. Mentre chi si affida alla torah di Dio rimane saldo di fronte al giudizio di Dio e della storia, chi si affida alle mode del momento, alle tentazioni di questo mondo, sparirà nel nulla e, se verrà ricordato, sarà solo per il male che ha fatto.

Questa scelta di fondo, naturalmente, si ripropone a noi come credenti e come chiesa ogni giorno e non solo nei momenti cruciali della storia. Forse nessuno di noi viene chiamato a comparire di fronte all’imperatore o al papa re, ma gli empi, i trasgressori, gli schernitori sono sempre lì. L’Italia è un paese divorato dalla corruzione, a tutti i livelli: che cosa scegliamo di fronte alla tentazione? Nel tempo del “volemose bene” e in cui tutto sembra essere uguale, noi siamo capaci di dire che la Parola di Dio è diversa e può fare la differenza nel piccolo della nostra quotidianità? In un tempo di totale assenza di un pensiero alternativo di opposizione che difenda la dignità delle persone, dei lavoratori, dei più deboli della nostra società, sappiamo noi dire una parola meditata, rimuginata e non superficiale, una parola di conforto e di speranza, per non dire di giustizia? In ogni scelta della vita quotidiana si cela la contrapposizione evocata dal salmista. Senza per forza diventare paranoici o moralisti, la sappiamo riconoscere senza cadere nella trappola del tentatore?

Di fronte alla scelta, il salmista ci dice chiaramente che l’unico modo che abbiamo per sapere dove stiamo andando e se stiamo facendo davvero la scelta giusta è leggere ogni giorno la Parola del Signore, lasciarci interrogare da essa e dalla sua sapienza antica, lasciarci sconvolgere dall’annuncio dell’evangelo… Anni fa al tempo della crisi degli ospedali il pastore G. Tourn invitò la chiesa a chiudersi nella caverna di Elia a riflettere. Ma, quando ci siamo entrati nella caverna, non è che abbiamo dimenticato fuori la Bibbia? Questo, infatti, è il dato più duro con cui noi valdesi e metodisti del 2017 dobbiamo fare i conti: noi non siamo più il popolo del Libro. Agli studi biblici vengono solo pochi eletti, la maggior parte dei membri di chiesa, quando va bene, si accontenta di ascoltare il culto. Quanti davvero hanno la Scrittura come bussola della propria vita? Quanti la leggono e la rimuginano? Anche da questo punto di vista abbiamo delegato tutto ai pastori, dal compiere le scelte radicali di vita alla lettura quotidiana della Scrittura. Ricordiamoci, però, che il teologo al massimo può lanciare una provocazione. Se non ci fossero state schiere di “semplici” credenti dietro i Riformatori, Lutero sarebbe finito sul rogo come Jan Hus e tanti altri. Noi valdesi e metodisti, oggi, ci siamo profondamente clericalizzati, ma ricordiamoci sempre che se si clericalizza, il protestantesimo muore. Se il popolo di Dio non legge la Bibbia, noi protestanti diventiamo del tutto inutili.

Per questo credo molto nel progetto della nuova traduzione della “Bibbia della Riforma”. Perché è un progetto inter-protestante che vuole riportare la Bibbia al centro del dibattito religioso e culturale e vuol sfidare i nostri membri di chiesa a leggerla e rileggerla, a rimuginarla e a meditarla come fecero i Riformatori e la loro generazione. Nella traduzione abbiamo lanciato qualche provocazione, per cercare di uscire dal nostro linguaggio ecclesiastico intra-protestante, perché divenga più accessibile a tutti, senza però fare una tradizione più libera, come la TILC. La speranza del comitato di traduzione è che non solo sia letta, ma sia discussa a tutti i livelli. Perciò, per favore, devastate la nostra traduzione, fatela a pezzi, non abbiate alcuna pietà: se lo farete vorrà dire che avremo raggiunto il nostro obbiettivo, perché vorrà dire che si è tornati a discutere di Bibbia, del suo senso, della Parola che ci porta. E magari poi potremo anche fare delle correzioni perché la “Bibbia della Riforma” possa davvero diventare la nostra traduzione. Infine, per favore, non lasciate assolutamente che la leggano solo i pastori. Magari leggetela con loro, se non avete il coraggio di farlo da soli, ma tutte e tutti la devono leggere. Lo ripeto: se i laici non leggono la Bibbia e non parlano di teologia, la nostra chiesa è morta.

Beati noi, dunque, se ancora una volta sapremo essere il popolo del Libro, se ciascuno e ciascuna di noi avrà ancora piacere a leggere e studiare la torah di Dio, a chinarsi su quelle pagine antiche per rimuginarle, per meditarle, e trarre senso per la propria vita, ispirazione per vivere la quotidianità e volgerla al bene, offrendo una speranza a noi stessi e a chi ci è vicino. Allora saremo veramente beati, benedetti dal Signore, saldi e forti come albero trapiantato presso canali d’acqua, che dà frutto a suo tempo, il cui fogliame non appassisce e tutto ciò che fa gli riesce.

Amen

Eric Noffke

Sermone: IL PERDONO

Matteo al cap. 18, 21-35
“Allora Pietro si avvicinò e gli disse: «Signore, quante volte perdonerò mio fratello se pecca contro di me? Fino a sette volte?» E Gesù a lui: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.
Perciò il regno dei cieli è simile a un re che volle fare i conti con i suoi servi. Avendo cominciato a fare i conti, gli fu presentato uno che era debitore di diecimila talenti. E poiché quello non aveva i mezzi per pagare, il suo signore comandò che fosse venduto lui con la moglie e i figli e tutto quanto aveva, e che il debito fosse pagato. Perciò il servo, gettatosi a terra, gli si prostrò davanti, dicendo: “Abbi pazienza con me e ti pagherò tutto”. Il signore di quel servo, mosso a compassione, lo lasciò andare e gli condonò il debito. Ma quel servo, uscito, trovò un altro servo come lui che gli doveva cento denari; e, afferratolo, lo strangolava, dicendo: “Paga quello che devi!” Perciò quel servo, gettatosi a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me, e ti pagherò”. Ma l’altro non volle; anzi andò e lo fece imprigionare, finché avesse pagato il debito. Gli altri servi, veduto il fatto, ne furono molto rattristati e andarono a riferire al loro signore tutto l’accaduto. Allora il suo signore lo chiamò a sé e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito, perché tu mi hai supplicato; non dovevi anche tu aver pietà del tuo conservo, come io ho avuto pietà di te?” E il suo signore, adirato, lo diede in mano degli aguzzini fino a quando non avesse pagato tutto quello che gli doveva. Così vi farà anche il Padre mio celeste, se ognuno di voi non perdona di cuore al proprio fratello.

La parabola appena letta non ha paralleli negli altri Vangeli e si trova solo nell’evangelo di Matteo. Si articola in quattro scene. Le prime due sono simmetriche, e mettono in evidenza il contrasto tra il diverso comportamento dei due creditori; la terza pone in risalto l’atteggiamento degli altri servi che notano il comportamento senza pietà del servo appena condonato, mentre l’ultima scena descrive il castigo comminato al servo spietato.
La situazione di partenza è simile nelle due scene parallele: un debitore, che non era in grado di rispondere dei propri debiti, secondo la legge del tempo poteva essere condannato al carcere. Nel caso in questione entrambi i debitori vengono condannati ed entrambi implorano misericordia. La loro richiesta è formulata con le stesse parole, ma con esito opposto: nella prima scena il debito viene cancellato, nella seconda invece no.
La parabola forza persino in maniera esagerata il contrasto presente tra i due debitori, sottolineando l’enorme sproporzione tra le due cifre da saldare. La prima è astronomica, ed è troppo alta anche per un re; la seconda, invece, è piccola anche per un semplice servo. In questo modo si esalta ancora di più la generosità del re e si sottolinea l’ostinazione spietata del servo.
Contribuisce inoltre a dare un maggiore effetto anche il poco lasso di tempo che intercorre tra le due scene. “Appena uscito” dalla casa del re, ci si aspetterebbe che dalla gioia ancora viva dallo scampato pericolo, corrispondano sentimenti di benevolenza verso gli altri. Invece non è così, e ciò porta il protagonista a ritrovarsi nuovamente davanti al re, per sentirsi dire che l’annullamento della condanna è stato a sua volta annullato: il debito è ripristinato e la legge deve fare il suo corso. Ci ritroviamo al punto di partenza, con la differenza che la conclusione tragica prima evitata ora è messa in atto. Qualcosa ha rovinato tutto. Il re, che prima aveva perdonato, ora non è più disposto a perdonare, e questo perché, come spiega il re stesso: “Dovevi perdonare anche tu come io ho perdonato a te”.
Fin qui la parabola, abbastanza immediata nella sua vivace dinamicità.
Ma il testo, meditato con pazienza, può scavare dentro di noi e interrogarci, noi uomini del XXI secolo, sul senso e sul significato del perdono.
Il perdono è centrale nella vita del cristiano. Non è un caso che ogni nostro culto comincia con una confessione di peccato, personale e collettiva, seguita dall’annuncio del perdono a chi si pente e crede in Cristo. La storia di Israele stessa nell’AT è la storia di una esperienza di peccato, a livello sia collettivo (il vitello d’oro!), sia individuale (pensiamo all’adulterio e all’omicidio compiuto dal re Davide). E’ la storia di una esperienza di ira e castigo divino (si pensi all’esilio di Babilonia). Ma alla fine, è una esperienza di perdono, perché il Dio che Israele ha conosciuto nella sua tormentata storia è un Dio – come recita il Salmo 103 – «pietoso e clemente, lento all’ira e ricco di bontà… Egli non ci tratta secondo i nostri peccati, e non ci castiga secondo le nostre colpe. Come i cieli sono alti al di sopra della terra, così è grande la sua bontà verso quelli che lo temono. Come è lontano l’oriente dall’occidente, così ha egli allontanato da noi le nostre colpe».
La stessa esperienza l’ha fatta e continua a farla oggi la Chiesa. Essa stessa è il frutto del perdono dei peccati. Se non ci fosse il perdono, non ci sarebbe la Chiesa, che è la comunità dei peccatori perdonati. La storia della salvezza, che percorre tutta la Bibbia e giunge fino a noi, è la storia del perdono di Dio, che cancella il peccato risparmiando il peccatore. E questo perdono ha delle caratteristiche molto particolari in questo testo, che ho provato a sintetizzare così: è un perdono senza limiti, è un perdono per tutti, è un perdono che richiede a noi di fare altrettanto, è una offerta di libertà, è un atto di fede.

Innanzitutto, come detto, è un perdono senza limiti. Se ci pensate, la domanda iniziale di Pietro, “Signore quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me?”, non è solo un generico quesito posto a Gesù su quante volte lui dovrà perdonare il fratello che pecca. Pietro pone una domanda concretissima: il fratello ha peccato “contro di lui”, dice il testo, cioè sono stati violati quelli che noi oggi chiameremmo in termini moderni i suoi diritti personali.
E la risposta di Gesù: “Fino a settanta volte sette”, espressione semitica che indica, come sappiamo, senza limiti, sottolinea la misura sconfinata del perdono, e ci lascia intravedere anche il significato profondo della riconciliazione cristiana: non si tratta di un perdono singolo, offerto ad una singola offesa. Cristo non ci chiede solo di perdonare le singole offese, ma di fronte alla rivendicazione inflessibile dei nostri diritti violati ci chiede di essere in primo luogo uomini di riconciliazione. Il perdono cristiano coincide quindi con l’accettazione incondizionata degli altri, perché il perdono illimitato, richiesto da Cristo ai suoi discepoli, non è un perdono che si dà alla singola offesa, bensì un perdono anteriore a ogni possibile offesa, che consiste appunto nell’accettazione del prossimo nelle sue diversità, nelle sue caratteristiche peculiari, nei suoi sbagli, nelle sue molteplici forme di immaturità.
Il senso profondo della riconciliazione cristiana consiste nella capacità di perdonare al nostro prossimo il peccato più grave che siamo soliti rimproverargli: quello di non essere come noi lo vorremmo. L’accettazione incondizionata degli altri è la misura, senza misura, indicata da Cristo a proposito del perdono.
Secondo punto: come dicevo, è un perdono “per tutti”. Il versetto iniziale della parabola recita “…il regno dei cieli è simile a un re che volle fare i conti con i suoi servi”. Il mistero del Regno viene presentato come un giudizio, giudizio in cui sono convocati tutti i servi, non solo quelli che gli sono debitori; questa omissione ci porta a identificare la condizione di servo con la condizione del debitore. Essere servi è dunque lo stesso che essere debitori, ossia essere uomini è lo stesso che essere peccatori, e quindi necessariamente bisognosi del perdono di Dio; Dio ci chiama a libertà sottolineando con forza il nostro bisogno di essere accolti e perdonati da Lui.
La buona notizia per tutti gli uomini, ed anche per noi oggi, è questa: il peccato può essere cancellato; “il signore di quel servo, mosso a compassione, lo lasciò andare e gli condonò il debito” L’Evangelo in fondo è proprio questa notizia: il peccato è stato cancellato da Gesù sulla croce. Come dice Paolo ai Romani: “tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù”.
La nostra piccola e fragile esperienza di Dio si fonda sull’esperienza che abbiamo del perdono. L’esperienza del perdono e l’esperienza di Dio, in fondo, coincidono. «Beato l’uomo a cui la trasgressione è perdonata, e il cui peccato è coperto!» recita il Salmo 32. Certo, molti negano che esista il peccato, e negando il peccato, negano pure la necessità del perdono, di cui non ne capiscono il senso. E dove il perdono svanisce, anche Dio diventa evanescente e presto scompare del tutto. Là dove invece, misurando la nostra umanità su quella di Gesù, prendiamo coscienza del nostro peccato, là c’è la ricerca e l’attesa del perdono, e, ricevendolo, si sperimenta la beatitudine narrata un giorno da Gesù sul monte.
Ma Gesù va persino oltre, sconvolgendo le mie certezze, e mi dice: la richiesta di perdono che rivolgete a Dio è credibile se è accompagnata dalla disponibilità e dalla concreta pratica del perdono fraterno, come recita il Padre nostro: “Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”. E ancora: “Se voi perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi, ma se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe” (Mt 6,14-15). Anche la liturgia giudaica afferma che nel giorno dell’espiazione e del perdono (Yom Kippur), vengono perdonati solo i peccati commessi contro Dio, mentre per le trasgressioni commesse tra uomo e uomo “lo Yom Kippur procura il perdono solo se uno prima si è rappacificato con il proprio fratello”.
Difatti il vero debito del servo è la mancanza di disponibilità a fare altrettanto con gli altri; il servo, cioè, non viene punito per l’enorme somma che non ha restituito al suo padrone, ma perché non lo ha imitato nella medesima generosità. E proprio Matteo ci ricorda che persino il criterio con cui saremo giudicati è in qualche maniera dipendente dalla misura che noi applichiamo agli altri nel giudicarli. “Non giudicate, e non sarete giudicati; non condannate, e non sarete condannati; perdonate, e vi sarà perdonato. Date, e vi sarà dato: vi sarà versata in seno buona misura, pigiata, scossa, traboccante; perché con la misura con cui misurate, sarà rimisurato a voi”.
Infine un ultimo particolare, per me il più inquietante. La parabola mostra che il perdono non necessariamente muta il cuore di colui che lo riceve. La potenza e la grandezza del perdono stanno nella unilateralità con cui l’offeso non tiene conto dell’offesa ricevuta, ricrea le condizioni per la relazione con colui che lo ha offeso con un atto di totale gratuità, e accetta di veder rigettato e umiliato il suo gesto. Il cristiano contempla il pieno dispiegarsi di questa unilateralità del perdono nel Cristo crocifisso. Gesù è colui che, in modo asimmetrico, restaura la reciprocità, risponde all’odio con l’amore, offre il perdono a tutti, anche a chi non lo domanda. Questa unilateralità è la via scelta da Gesù Cristo per sconfiggere la mancanza di reciprocità di chi non riconosce il bisogno di perdono.
Lui ci offre questa possibilità, questa libertà: quella di perdonare gli altri, perché abbiamo sperimentato e sperimentiamo ogni giorno di essere stati perdonati da Dio. Ma rimane sempre aperta una possibilità: “Non dovevi forse anche tu avere pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?” Una domanda carica dello stupore di come possa verificarsi che, chi ha sperimentato tanto amore su di sé, non sia poi disponibile verso gli altri.
L’azione di Dio sta all’origine. Dio che per primo condona, usa misericordia e rende l’uomo capace di misericordia. Ma non è un colpo di spugna, il perdono di Dio non è mai un far finta che il peccato non ci sia, ma è un reale intervento per risolvere il problema: il perdono di Dio davvero trasforma la persona, la cambia dal di dentro e la abilita a fare qualcosa che non sarebbe in grado di fare da sola.
Sono note le parole scritte da Dietrich Bonhoeffer sulla «grazia a buon mercato», che egli descrive così: «Grazia a buon mercato è predicare il perdono senza chiedere il pentimento, il battesimo senza la disciplina ecclesiastica, la comunione senza la confessione [di peccato], l’assoluzione senza la contrizione. Grazia a buon mercato è la grazia senza discepolato, grazia senza la croce, grazia senza Gesù Cristo, vivente ed incarnato». Quello che Bonhoeffer dice della grazia, si può e deve dire del perdono. C’è un perdono a buon mercato, che non è quello di Dio e neppure quello del cristiano.
Difatti, ciò che non viene chiesto prima, viene però sollecitato dopo, e viene reclamato come conseguenza: Dio è misericordioso con noi, quindi, come conseguenza, noi possiamo essere misericordiosi.
Termino con questa ultima sottolineatura: il perdono che Gesù ci offre interroga la nostra fede in lui. Le sue parole non sono – come spesso noi siamo soliti tradurle – una indicazione di tendenza, un bel programma di vita, affascinante, ma sostanzialmente irrealizzabile, e neppure un dovere morale, un obbligo; sono una bella notizia, una beatitudine: noi possiamo essere misericordiosi, dal momento che Dio è misericordioso con noi.
Se ho fede veramente nel Dio rivelato nelle Scritture, se non mi sono fatto un Dio a mio uso, posso perdonare, che in definitiva significa affidare a Dio il mio risentimento e il mio desiderio di vendetta.
Infatti il finale della parabola ce lo ricorda: al re, e solo a lui, rimane il giudizio sul servo che non ha condonato il suo debitore; a Dio è lasciata l’ultima parola e il giudizio sull’uomo.
A noi invece viene proposta l’obbedienza a questa Parola: riconoscere di essere stati perdonati, e quindi, con la forza della fede nella sua Parola, credere per sola fede di poter perdonare, credere all’impossibile che Dio realizza in noi ogni giorno.

Fabio Barzon

Sermone: IL PERDONO

Matteo al cap. 18, 21-35

“Allora Pietro si avvicinò e gli disse: «Signore, quante volte perdonerò mio fratello se pecca contro di me? Fino a sette volte?» E Gesù a lui: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.

Perciò il regno dei cieli è simile a un re che volle fare i conti con i suoi servi. Avendo cominciato a fare i conti, gli fu presentato uno che era debitore di diecimila talenti. E poiché quello non aveva i mezzi per pagare, il suo signore comandò che fosse venduto lui con la moglie e i figli e tutto quanto aveva, e che il debito fosse pagato. Perciò il servo, gettatosi a terra, gli si prostrò davanti, dicendo: “Abbi pazienza con me e ti pagherò tutto”. Il signore di quel servo, mosso a compassione, lo lasciò andare e gli condonò il debito. Ma quel servo, uscito, trovò un altro servo come lui che gli doveva cento denari; e, afferratolo, lo strangolava, dicendo: “Paga quello che devi!” Perciò quel servo, gettatosi a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me, e ti pagherò”. Ma l’altro non volle; anzi andò e lo fece imprigionare, finché avesse pagato il debito. Gli altri servi, veduto il fatto, ne furono molto rattristati e andarono a riferire al loro signore tutto l’accaduto. Allora il suo signore lo chiamò a sé e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito, perché tu mi hai supplicato; non dovevi anche tu aver pietà del tuo conservo, come io ho avuto pietà di te?” E il suo signore, adirato, lo diede in mano degli aguzzini fino a quando non avesse pagato tutto quello che gli doveva. Così vi farà anche il Padre mio celeste, se ognuno di voi non perdona di cuore al proprio fratello.

 

La parabola appena letta non ha paralleli negli altri Vangeli e si trova solo nell’evangelo di Matteo. Si articola in quattro scene. Le prime due sono simmetriche, e mettono in evidenza il contrasto tra il diverso comportamento dei due creditori; la terza pone in risalto l’atteggiamento degli altri servi che notano il comportamento senza pietà del servo appena condonato, mentre l’ultima scena descrive il castigo comminato al servo spietato.

La situazione di partenza è simile nelle due scene parallele: un debitore, che non era in grado di rispondere dei propri debiti, secondo la legge del tempo poteva essere condannato al carcere. Nel caso in questione entrambi i debitori vengono condannati ed entrambi implorano misericordia. La loro richiesta è formulata con le stesse parole, ma con esito opposto: nella prima scena il debito viene cancellato, nella seconda invece no.

La parabola forza persino in maniera esagerata il contrasto presente tra i due debitori, sottolineando l’enorme sproporzione tra le due cifre da saldare. La prima è astronomica, ed è troppo alta anche per un re; la seconda, invece, è piccola anche per un semplice servo. In questo modo si esalta ancora di più la generosità del re e si sottolinea l’ostinazione spietata del servo.

Contribuisce inoltre a dare un maggiore effetto anche il poco lasso di tempo che intercorre tra le due scene. “Appena uscito” dalla casa del re, ci si aspetterebbe che dalla gioia ancora viva dallo scampato pericolo, corrispondano sentimenti di benevolenza verso gli altri. Invece non è così, e ciò porta il protagonista a ritrovarsi nuovamente davanti al re, per sentirsi dire che l’annullamento della condanna è stato a sua volta annullato: il debito è ripristinato e la legge deve fare il suo corso. Ci ritroviamo al punto di partenza, con la differenza che la conclusione tragica prima evitata ora è messa in atto. Qualcosa ha rovinato tutto. Il re, che prima aveva perdonato, ora non è più disposto a perdonare, e questo perché, come spiega il re stesso: “Dovevi perdonare anche tu come io ho perdonato a te”.

Fin qui la parabola, abbastanza immediata nella sua vivace dinamicità.

Ma il testo, meditato con pazienza, può scavare dentro di noi e interrogarci, noi uomini del XXI secolo, sul senso e sul significato del perdono.

Il perdono è centrale nella vita del cristiano. Non è un caso che ogni nostro culto comincia con una confessione di peccato, personale e collettiva, seguita dall’annuncio del perdono a chi si pente e crede in Cristo. La storia di Israele stessa nell’AT è la storia di una esperienza di peccato, a livello sia collettivo (il vitello d’oro!), sia individuale (pensiamo all’adulterio e all’omicidio compiuto dal re Davide). E’ la storia di una esperienza di ira e castigo divino (si pensi all’esilio di Babilonia). Ma alla fine, è una esperienza di perdono, perché il Dio che Israele ha conosciuto nella sua tormentata storia è un Dio – come recita il Salmo 103 – «pietoso e clemente, lento all’ira e ricco di bontà… Egli non ci tratta secondo i nostri peccati, e non ci castiga secondo le nostre colpe. Come i cieli sono alti al di sopra della terra, così è grande la sua bontà verso quelli che lo temono. Come è lontano l’oriente dall’occidente, così ha egli allontanato da noi le nostre colpe».

La stessa esperienza l’ha fatta e continua a farla oggi la Chiesa. Essa stessa è il frutto del perdono dei peccati. Se non ci fosse il perdono, non ci sarebbe la Chiesa, che è la comunità dei peccatori perdonati. La storia della salvezza, che percorre tutta la Bibbia e giunge fino a noi, è la storia del perdono di Dio, che cancella il peccato risparmiando il peccatore. E questo perdono ha delle caratteristiche molto particolari in questo testo, che ho provato a sintetizzare così: è un perdono senza limiti, è un perdono per tutti, è un perdono che richiede a noi di fare altrettanto, è una offerta di libertà, è un atto di fede.

 

Innanzitutto, come detto, è un perdono senza limiti. Se ci pensate, la domanda iniziale di Pietro, “Signore quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me?”, non è solo un generico quesito posto a Gesù su quante volte lui dovrà perdonare il fratello che pecca. Pietro pone una domanda concretissima: il fratello ha peccato “contro di lui”, dice il testo, cioè sono stati violati quelli che noi oggi chiameremmo in termini moderni i suoi diritti personali.

E la risposta di Gesù: “Fino a settanta volte sette”, espressione semitica che indica, come sappiamo, senza limiti, sottolinea la misura sconfinata del perdono, e ci lascia intravedere anche il significato profondo della riconciliazione cristiana: non si tratta di un perdono singolo, offerto ad una singola offesa. Cristo non ci chiede solo di perdonare le singole offese, ma di fronte alla rivendicazione inflessibile dei nostri diritti violati ci chiede di essere in primo luogo uomini di riconciliazione. Il perdono cristiano coincide quindi con l’accettazione incondizionata degli altri, perché il perdono illimitato, richiesto da Cristo ai suoi discepoli, non è un perdono che si dà alla singola offesa, bensì un perdono anteriore a ogni possibile offesa, che consiste appunto nell’accettazione del prossimo nelle sue diversità, nelle sue caratteristiche peculiari, nei suoi sbagli, nelle sue molteplici forme di immaturità.

Il senso profondo della riconciliazione cristiana consiste nella capacità di perdonare al nostro prossimo il peccato più grave che siamo soliti rimproverargli: quello di non essere come noi lo vorremmo. L’accettazione incondizionata degli altri è la misura, senza misura, indicata da Cristo a proposito del perdono.

Secondo punto: come dicevo, è un perdono “per tutti”. Il versetto iniziale della parabola recita “…il regno dei cieli è simile a un re che volle fare i conti con i suoi servi”. Il mistero del Regno viene presentato come un giudizio, giudizio in cui sono convocati tutti i servi, non solo quelli che gli sono debitori; questa omissione ci porta a identificare la condizione di servo con la condizione del debitore. Essere servi è dunque lo stesso che essere debitori, ossia essere uomini è lo stesso che essere peccatori, e quindi necessariamente bisognosi del perdono di Dio; Dio ci chiama a libertà sottolineando con forza il nostro bisogno di essere accolti e perdonati da Lui.

La buona notizia per tutti gli uomini, ed anche per noi oggi, è questa: il peccato può essere cancellato; “il signore di quel servo, mosso a compassione, lo lasciò andare e gli condonò il debito” L’Evangelo in fondo è proprio questa notizia: il peccato è stato cancellato da Gesù sulla croce. Come dice Paolo ai Romani: “tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù”.

La nostra piccola e fragile esperienza di Dio si fonda sull’esperienza che abbiamo del perdono. L’esperienza del perdono e l’esperienza di Dio, in fondo, coincidono. «Beato l’uomo a cui la trasgressione è perdonata, e il cui peccato è coperto!» recita il Salmo 32. Certo, molti negano che esista il peccato, e negando il peccato, negano pure la necessità del perdono, di cui non ne capiscono il senso. E dove il perdono svanisce, anche Dio diventa evanescente e presto scompare del tutto. Là dove invece, misurando la nostra umanità su quella di Gesù, prendiamo coscienza del nostro peccato, là c’è la ricerca e l’attesa del perdono, e, ricevendolo, si sperimenta la beatitudine narrata un giorno da Gesù sul monte.

Ma Gesù va persino oltre, sconvolgendo le mie certezze, e mi dice: la richiesta di perdono che rivolgete a Dio è credibile se è accompagnata dalla disponibilità e dalla concreta pratica del perdono fraterno, come recita il Padre nostro: “Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”. E ancora: “Se voi perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi, ma se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe” (Mt 6,14-15). Anche la liturgia giudaica afferma che nel giorno dell’espiazione e del perdono (Yom Kippur), vengono perdonati solo i peccati commessi contro Dio, mentre per le trasgressioni commesse tra uomo e uomo “lo Yom Kippur procura il perdono solo se uno prima si è rappacificato con il proprio fratello”.

Difatti il vero debito del servo è la mancanza di disponibilità a fare altrettanto con gli altri; il servo, cioè, non viene punito per l’enorme somma che non ha restituito al suo padrone, ma perché non lo ha imitato nella medesima generosità. E proprio Matteo ci ricorda che persino il criterio con cui saremo giudicati è in qualche maniera dipendente dalla misura che noi applichiamo agli altri nel giudicarli. “Non giudicate, e non sarete giudicati; non condannate, e non sarete condannati; perdonate, e vi sarà perdonato. Date, e vi sarà dato: vi sarà versata in seno buona misura, pigiata, scossa, traboccante; perché con la misura con cui misurate, sarà rimisurato a voi”.

Infine un ultimo particolare, per me il più inquietante. La parabola mostra che il perdono non necessariamente muta il cuore di colui che lo riceve. La potenza e la grandezza del perdono stanno nella unilateralità con cui l’offeso non tiene conto dell’offesa ricevuta, ricrea le condizioni per la relazione con colui che lo ha offeso con un atto di totale gratuità, e accetta di veder rigettato e umiliato il suo gesto. Il cristiano contempla il pieno dispiegarsi di questa unilateralità del perdono nel Cristo crocifisso. Gesù è colui che, in modo asimmetrico, restaura la reciprocità, risponde all’odio con l’amore, offre il perdono a tutti, anche a chi non lo domanda. Questa unilateralità è la via scelta da Gesù Cristo per sconfiggere la mancanza di reciprocità di chi non riconosce il bisogno di perdono.

Lui ci offre questa possibilità, questa libertà: quella di perdonare gli altri, perché abbiamo sperimentato e sperimentiamo ogni giorno di essere stati perdonati da Dio. Ma rimane sempre aperta una possibilità: “Non dovevi forse anche tu avere pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?” Una domanda carica dello stupore di come possa verificarsi che, chi ha sperimentato tanto amore su di sé, non sia poi disponibile verso gli altri.

L’azione di Dio sta all’origine. Dio che per primo condona, usa misericordia e rende l’uomo capace di misericordia. Ma non è un colpo di spugna, il perdono di Dio non è mai un far finta che il peccato non ci sia, ma è un reale intervento per risolvere il problema: il perdono di Dio davvero trasforma la persona, la cambia dal di dentro e la abilita a fare qualcosa che non sarebbe in grado di fare da sola.

Sono note le parole scritte da Dietrich Bonhoeffer sulla «grazia a buon mercato», che egli descrive così: «Grazia a buon mercato è predicare il perdono senza chiedere il pentimento, il battesimo senza la disciplina ecclesiastica, la comunione senza la confessione [di peccato], l’assoluzione senza la contrizione. Grazia a buon mercato è la grazia senza discepolato, grazia senza la croce, grazia senza Gesù Cristo, vivente ed incarnato».  Quello che Bonhoeffer dice della grazia, si può e deve dire del perdono. C’è un perdono a buon mercato, che non è quello di Dio e neppure quello del cristiano.

Difatti, ciò che non viene chiesto prima, viene però sollecitato dopo, e viene reclamato come conseguenza: Dio è misericordioso con noi, quindi, come conseguenza, noi possiamo essere misericordiosi.

Termino con questa ultima sottolineatura: il perdono che Gesù ci offre interroga la nostra fede in lui. Le sue parole non sono – come spesso noi siamo soliti tradurle – una indicazione di tendenza, un bel programma di vita, affascinante, ma sostanzialmente irrealizzabile, e neppure un dovere morale, un obbligo; sono una bella notizia, una beatitudine: noi possiamo essere misericordiosi, dal momento che Dio è misericordioso con noi.

Se ho fede veramente nel Dio rivelato nelle Scritture, se non mi sono fatto un Dio a mio uso, posso perdonare, che in definitiva significa affidare a Dio il mio risentimento e il mio desiderio di vendetta.

Infatti il finale della parabola ce lo ricorda: al re, e solo a lui, rimane il giudizio sul servo che non ha condonato il suo debitore; a Dio è lasciata l’ultima parola e il giudizio sull’uomo.

A noi invece viene proposta l’obbedienza a questa Parola: riconoscere di essere stati perdonati, e quindi, con la forza della fede nella sua Parola, credere per sola fede di poter perdonare, credere all’impossibile che Dio realizza in noi ogni giorno.

Fabio Barzon

Sermone: FREQUENTARE LA BIBBIA

LETTURE BIBLICHE: Salmo 31,1-8.21-24; Giovanni 15,1-8

O SIGNORE, poiché ho confidato in te, fa’ che io non sia mai confuso; per la tua giustizia liberami. 2 Porgi a me il tuo orecchio; affrèttati a liberarmi; sii per me una forte rocca, una fortezza dove tu mi porti in salvo. 3 Tu sei la mia rocca e la mia fortezza; per amor del tuo nome guidami e conducimi. 4 Tirami fuori dalla rete che m’han tesa di nascosto; poiché tu sei il mio baluardo. 5 Nelle tue mani rimetto il mio spirito; tu m’hai riscattato, o SIGNORE, Dio di verità. 6 Detesto quelli che si affidano alle vanità ingannatrici; ma io confido nel SIGNORE. 7 Esulterò e mi rallegrerò per la tua benevolenza; poiché tu hai visto la mia afflizione, hai conosciuto le angosce dell’anima mia, 8 e non mi hai dato in mano del nemico; tu m’hai messo i piedi in luogo favorevole. 21 Sia benedetto il SIGNORE; poich’egli ha reso mirabile la sua benevolenza per me, ponendomi come in una città fortificata. 22 Io, nel mio smarrimento, dicevo: «Sono respinto dalla tua presenza»; ma tu hai udito la voce delle mie suppliche, quand’ho gridato a te. 23 Amate il SIGNORE, voi tutti i suoi santi! Il SIGNORE preserva i fedeli, ma punisce con rigore chi agisce con orgoglio. 24 Siate saldi, e il vostro cuore si fortifichi, o voi tutti che sperate nel SIGNORE!

 

15:1 «Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiuolo. 2 Ogni tralcio che in me non dà frutto, lo toglie via; e ogni tralcio che dà frutto, lo pota affinché ne dia di più. 3 Voi siete già puri a causa della parola che vi ho annunciata. 4 Dimorate in me, e io dimorerò in voi. Come il tralcio non può da sé dare frutto se non rimane nella vite, così neppure voi, se non dimorate in me. 5 Io sono la vite, voi siete i tralci. Colui che dimora in me e nel quale io dimoro, porta molto frutto; perché senza di me non potete fare nulla. 6 Se uno non dimora in me, è gettato via come il tralcio, e si secca; questi tralci si raccolgono, si gettano nel fuoco e si bruciano. 7 Se dimorate in me e le mie parole dimorano in voi, domandate quello che volete e vi sarà fatto. 8 In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto, così sarete miei discepoli.

 

Il salmo che abbiamo in parte letto oggi, e che vi invito a leggere interamente più tardi quando tornerete nelle vostre case, può stimolare molte riflessioni, ma su due in particolare vorrei concentrare la vostra attenzione. La prima è che le parole del versetto 5 (Nelle tue mani rimetto il mio spirito) sono quelle pronunciate da Gesù sulla croce, nella versione della Passione scritta da Luca. Ma sono anche le ultime parole dette da Stefano, il primo martire cristiano, e dopo di lui da molti altri che le hanno pronunciate prima di morire, come Lutero o Girolamo Savonarola.

Questi uomini, non persone qualunque, evidentemente, prima di morire hanno sentito la necessità di pronunciare non delle parole qualsiasi, magari profonde o importanti, non sono rimasti neppure in silenzio, ma hanno citato un versetto di un salmo. Chi di noi è ancora in grado di farlo? Chi di noi conosce a memoria passi più o meno lunghi della Bibbia? Chi di noi è in grado di trovare il versetto giusto che lo aiuti nel momento del bisogno? Da molto tempo, ormai, abbiamo dimenticato questa necessità, abbiamo perso di vista questa opportunità: tanto abbiamo la nostra Bibbia con noi, tanto nei nostri cellulari è caricata la Bibbia intera a che serve conoscerla a memoria? O addirittura abbiamo perso un rapporto intimo e quotidiano con la Bibbia.

Intatti insieme ad aver perso la capacità di citare a memoria salmi e versetti, abbiamo anche, a poco a poco, perso la nostra dimestichezza col testo biblico, perso quella familiarità che era patrimonio comune fino all’epoca dei nostri genitori. Vorrei che tornando a casa riflettessimo un po’ anche su questo. Leggiamo tutti i giorni almeno qualche passo biblico? Ne conosciamo alcuni talmente bene che appartengono alla nostra vita? Mi rendo conto che sto facendo un discorso assai fuori moda, ma l’impressione che ho è che abbiamo perso o stiamo perdendo, noi tutti che siamo qui oggi qualcosa di importante, qualcosa di speciale. Perché siamo stanchi, abbiamo il lavoro, le nostre preoccupazioni. Abbiamo già la testa piena di tante altre cose!

Il cuore di questo salmo è la fiducia in Dio, che è la nostra rocca, la sicura fortezza. Siamo ancora capaci di vivere davvero nella certezza che Dio è la nostra rocca e la nostra fortezza? O non è piuttosto vero che al Signore dedichiamo giusto un pensiero fugace al mattino o alla sera prima di dormire? Non ci accade più spesso di chiedere aiuto a noi stessi o ad altri che si presentano a noi come salvatori? Guaritori, esperti in miracoli che ci faranno trovare lavoro, guarire dalle malattie, avere fortuna? Ma il salmo proclama con forza e con chiarezza:

3 Tu sei la mia rocca e la mia fortezza;

E prosegue: per amor del tuo nome guidami e conducimi.

Quindi il Signore è la nostra rocca, la nostra fortezza, a lui ci rivolgiamo per avere aiuto, ma è anche guida, conduzione: cioè gli chiediamo protezione e contemporaneamente accettiamo e accogliamo la Sua volontà, non la nostra; seguiamo la strada che Lui ci indica, non la nostra, anche se questo può significare che i nostri desideri umanissimi, e anche magari ragionevoli, non si realizzano. Ma è proprio questo il punto: possiamo continuare ad affidarci ad un Dio che non è come lo vorremmo? O non possiamo? O non riusciamo?

Essere nelle mani di Dio: un’immagine davvero potente! Noi piccoli, limitati, tormentati, noi che non siamo dei supereroi, ma degli uccellini nelle mani di Dio. Abbiamo il coraggio di affidarci totalmente? Siamo capaci di lasciarci totalmente abbracciare e proteggere dalle mani di Dio?

Ecco il nostro rifugio: il salmista ce lo descrive come concreto, reale, la nostra difesa. Si tratta di mani che ci liberano, che ci riscattano: da noi stessi, in primo luogo, e poi dalle nostre abitudini, dai legami che ci impediscono di cercare il nutrimento più importante. Chiedere aiuto a Dio ci ricorda che siamo piccoli e fragili e che abbiamo bisogno dell’aiuto di Dio. Non dell’aiuto di un prestigiatore o di un mago, non dell’aiuto di coloro che si fingono guaritori e facitori di miracoli, perché non è questo l’aiuto che il Signore ci dà. Rimettersi a Dio significa accettare la Sua presenza nella nostra vita, il Suo piano per noi e quindi accogliere la Sua volontà e non la nostra. Abbiamo il diritto di chiedere aiuto per la nostra vita concreta, e il diritto, concretissimo, di essere come bambini che si affidano totalmente nelle mani del Signore. Il diritto di chiudere gli occhi e sapere che siamo in buone mani, di rifugiarci nelle mani del Signore. Ma metterci nelle mani di Dio significa riconoscere il nostro bisogno, riconoscere che siamo tutti dei rifugiati, dei richiedenti asilo. Noi che stiamo bene, che abbiamo un lavoro, o almeno una casa, uno stipendio, o almeno una famiglia che ci aiuta, noi che viviamo in una parte di mondo dove esiste il benessere, noi, proprio noi, possiamo scoprirci e riscoprirci rifugiati in Dio. Possiamo finalmente accettare chi siamo veramente, non dei supereroi, ma dei rifugiati. Dei rifugiati che non si affidano al potere e al potente, ma a Dio e Dio è Colui che ha scelto di illuminare coloro che sono nell’ombra, coloro che non contano nulla, gli ultimi di questo nostro mondo, che invece cerca il potere, il danaro, la forza. Dio sceglie invece uomini e donne bisognosi di tutto, ma che, a differenza dei disperati del Mediterraneo, hanno la certezza di trovare rifugio, di trovare asilo. Noi siamo certi che saremo accolti, siamo certi che il miracolo avverrà ogni volta perché nel momento stesso in cui chiediamo di essere accolti, lo siamo davvero, perché anche noi, come il salmista nel versetto 22 nel nostro smarrimento ci sentiamo talvolta respinti, non amati, non accolti, ma il Signore ode la nostra voce, ascolta il nostro pianto e ci accoglie. E nel momento in cui ci accoglie diveniamo noi stessi le mani di Dio perché entriamo in comunione profonda con Lui e quindi facciamo e diventiamo il Suo volere.

Non siamo più noi che agiamo, ma Lui attraverso di noi: diventiamo davvero come la vite e i tralci di cui parla Gesù nel vangelo di Giovanni. Rimettendo il nostro spirito, rimettendo le nostre esistenze nelle mani di Dio, diventiamo noi stessi le mani di Dio. Le mani di Gesù. Faremo anche noi le opere che fa Gesù come ci dice Giovanni (Gio 14,12). Rimettendoci al Signore entriamo in comunione con Lui, dimoriamo in lui e lui in noi, e agiamo come Gesù. Non da soli, ma con tutti i figli e le figlie di Dio, insieme. Le mani nelle mani. Le sue mani, diventano le nostre mani, forti, potenti, guaritrici. Lasciandoci andare fiduciosi nelle mani del Signore troveremo le mani dei nostri fratelli e sorelle e riscopriremo il senso di questo antico salmo che da migliaia di anni ci racconta il mistero grande e profondo dell’amore di Dio.  Amen.

Erica Sfredda

Sermone: ADAMO DOVE SEI?

Genesi 3, 7-10

Allora si aprirono gli occhi ad entrambi e s’accorsero che erano nudi; unirono delle foglie di fico e se ne fecero delle cinture.

Poi udirono la voce di Dio il SIGNORE, il quale camminava nel giardino sul far della sera; e l’uomo e sua moglie si nascosero dalla presenza di Dio il SIGNORE fra gli alberi del giardino.

Dio il SIGNORE chiamò l’uomo e gli disse: «Dove sei?»

Egli rispose: «Ho udito la tua voce nel giardino e ho avuto paura, perché ero nudo, e mi sono nascosto».

 

E’ una domanda che Dio rivolge a tutte e tutti noi in determinati momenti della vita. Dio che conosce il luogo del nostro esistere e il luogo del nostro credere, lo “scrutatore di cuori lo chiama Paolo” non desidera, ovviamente, ascoltare qualcosa che già sa, piuttosto desidera che noi, abitanti della distrazione, prendiamo consapevolezza di dove siamo, cioè a quale distanza siamo da Lui.

“Adamo dove sei?”: la domanda che risuona in particolari circostanze significative, tappe lungo la personale storia di fragile testimonianza, presenta però anche l’esigenza speculare di una risposta comunitaria.

Allora, anche in questi giorni, nella nostra vita individuale e comunitaria, è probabile che Dio ci stia chiedendo: “Dove siete?”

E serve come il pane che Dio ce lo chieda, perché per ciascuna e ciascuno di noi e per le nostre chiese è vitale capire se le nostre anime godono della luce dello Spirito di Cristo, oppure si nascondono nell’ombra, come fa Adamo, per la paura di confrontarsi, prima ancora che con Dio, con loro stesse e con la loro fede sfibrata.

Il nascondimento di natura spirituale, nel rifiutare il confronto con la parola di Dio, crea l’illusione che è sufficiente dirsi credenti per esserlo.

Se ci stiamo nascondendo, abbiamo soffocato in noi la vocazione ad essere, in Cristo, figlie e figli del Padre celeste, destinatari della sua grazia e chiamati a prendercene cura.

Se ci stiamo nascondendo, lo stiamo facendo a nostro danno , a danno dei nostri progetti, dei nostri ideali, a danno del significato che volevamo la nostra esistenza cristiana assumesse.

Se ci stiamo nascondendo a Dio e a noi stessi inaridiamo e con noi inaridiscono le nostre comunità.

E dunque, di fronte a questo rischio, si potrebbe impiegare questo tempo anche per capire la vita intima del credente e delle chiese, prima e oltre a ciò che testimoniano fattivamente nella società.

Riflettere. Bisogna riflettere e valutare qual è il grado di intensità interna e di risonanza esterna della spiritualità evangelica, quella che innanzitutto nasce nella meditazione della Scrittura e si sviluppa poi nella preghiera.

“Dove siete?” ci chiede oggi il Signore, e non “Cosa fate?”

La domanda di Dio invita a esaminare il nostro essere credenti prima del nostro agire come credenti.

L’interrogativo posto ad Adamo riguarda la spiritualità in quanto sostanza della relazione con Dio, in quanto forma e contenuto dell’esistenza del credente, in quanto accesso all’unica posizione che ci è permesso assumere davanti a Lui: quella dell’orante.

Solo dopo aver verificato secondo quale percentuale il nostro esistere è un esistere al cospetto del Signore, possiamo dedicarci a capire se la vita, come pratica della spiritualità, quella vita che tutte e tutti noi a Lui consacriamo, si sviluppa su coordinate analoghe che possano fare di noi una Chiesa coesa.

Coordinate che sono segnali di fede: lavorare non solo per vivere ma con la prospettiva che la Creazione, grazie al nostro impegno, resti luogo di dono inestimabile del Signore; studiare e formarsi per acquisire la “follia” di Dio e non la saggezza del mondo; godere del valore spesso negato del tempo nella sua dimensione non produttiva.

Un esempio? Il tempo”sprecato” del culto. E infine, ma come culmine, capire se le nostre esistenze e quelle delle nostre chiese si muovono secondo un progetto spirituale, dunque reale, di incontro. Un incontro libero e aperto, pronto nel dare e grato nel ricevere. Un incontro che a volte magari si realizza solo con chi ci è più vicino, ma mosso dalla volontà di raggiungere tutti:

“Il mondo è la mia parrocchia” diceva Wesley; un’affermazione quanto mai attuale.

E ancora una volta risuona la domanda di Dio, cui fanno eco le nostre.

L’annuncio e l’ascolto della Parola, la preghiera che da essa nasce, ci sostengono nella testimonianza quotidiana?

Siamo dentro questo tipo di vita o ne siamo fuori?

Siamo nel luogo della fede vissuta nel cuore e nella mente prima ancora che agìta?

“Dove sei Adamo? ” Dove siete ? Dove siamo tutti noi?

Adamo ha dato la sua risposta sincera, ora credo tocchi a noi affrontare la voce del Signore: una sosta obbligata per poter riprendere il cammino al servizio del Vangelo.

AMEN

Pastora Eleonora Natoli