Sermone: OGNI GIORNO RINASCIAMO AD UNA SPERANZA VIVA!

1Pietro 1,3-9  –  Colossesi 2,12-15

 “Ha spogliato i principati e le potenze, ne ha fatto un pubblico spettacolo, trionfando su di loro per mezzo della croce” (Colossesi 2,15).

Fratelli e sorelle, quanto è forte e incredibile questo passo! Sì, avete sentito bene, incredibile: incredibile perché non è questa la realtà a cui siamo abituati, la realtà a cui noi stessi spesso ci sottomettiamo. Chi di noi può veramente affermare di vivere una vita totalmente coerente con quanto è scritto nell’epistola ai Colossesi? Eppure Gesù ha spogliato i principati e le potenze e lo ha fatto una volta per tutte: cioè ha reso evidente cosa sono e cosa fanno: come dice Colossesi, ne “ha fatto un pubblico spettacolo”. Da duemila anni, ormai, si tratta di uno spettacolo che potrebbe essere evidente per tutti, eppure noi siamo ancora ciechi o timorosi di denunciare quello che vediamo, nonostante questo passo, come molti altri, sia stato scritto proprio per darci la forza e il coraggio di tornare come bambini e come loro avere la capacità e l’ingenuità di porci di fronte al potere del male che ci circonda con franchezza.

Conoscete la favola di Andersen sui vestiti del re? Si tratta della storia di un re, molto vanitoso, che spendeva tutti i suoi soldi per comprarsi magnifici vestiti; ne aveva di tutti i generi e di tutti i colori, di tutte le stoffe e provenienti da tutti i Paesi del mondo. Anche noi abbiamo la passione per gli oggetti che ci fanno apparire belli, importanti, realizzati, i nostri telefonini, le automobili, i televisori, oppure le case e perfino i titoli di studio. Anche noi siamo appagati dall’apparenza, invece che cercare la vera sostanza. Nel paese del re della nostra favola, un giorno arrivarono due uomini, che dissero di essere due sarti molto famosi e che avrebbero confezionato un abito unico al mondo per il re. Un vestito magico che avrebbero potuto vedere solo gli intelligenti o le persone importanti, quelli che contavano nella vita. Un vestito che sarebbe stato visto solo dalle persone superiori. Naturalmente il re si entusiasmò subito moltissimo e fornì ai due sarti tutto l’occorrente che avevano chiesto: cioè tanti sacchi di filo d’oro, sete in gran quantità e bottoni in madreperla, che i due imbroglioni posero in due grosse borse e che nascosero. I due montarono un telaio e cominciarono a far finta di lavorare, perché, forse lo avete già capito, non avevano alcuna intenzione di fare un vestito per il re, ma solo di imbrogliarlo facendo leva sulla sua vanità. Il mattino dopo il primo ministro andò a vedere il vestito; naturalmente non vide nulla, ma non volendo fare brutta figura, disse che si trattava di un vestito bellissimo. Successivamente si recò dai due sarti lo stesso re e anche lui non vide nulla, ovviamente, ma non voleva essere da meno del suo ministro e quindi anche lui disse che il vestito era bellissimo. I due imbroglioni gli proposero di indossarlo il giorno dopo in una parata solenne. Il re acconsentì. Nelle piazze e nelle strade accorse tutto il popolo, sia perché si trattava di una festa importante, sia perché voleva vedere l’abito magico del re. Quando il re arrivò, scese il silenzio: tutti vedevano che era in mutande, ma nessuno osava dire niente, sia perché non volevano offendere il re, ma soprattutto perché ognuno temeva di essere l’unico a non vedere nulla. Finché un bambino gridò: “Guarda papà, il re è nudo!”

Il re è nudo. Come i principati e le potenze di cui parla l’epistola che abbiamo letto oggi. Nudo. Ma nessuno aveva avuto il coraggio di dirlo, così come, nella nostra società il più delle volte non osiamo alzare la voce per denunciare quello che vediamo.

Ma Gesù, ci ricorda l’autore dell’epistola, ha trionfato. Sì, fratelli e sorelle, ha trionfato, ma non utilizzando i nostri mezzi, cioè non con la forza, con il potere o il denaro, ma con la croce. Gesù ha trionfato su principati e potenze per mezzo della croce. Della croce, fratelli e sorelle! Della croce. Quando riusciremo a prendere sul serio questo messaggio? Quanto è lontana la croce dalle nostre esistenze? Quanta fatica facciamo a farla nostra? Quanta indifferenza abbiamo nei confronti della sequela di Cristo perfino noi che ci dichiariamo cristiani e che veniamo con regolarità in chiesa, che cerchiamo di essere fedeli e di impegnarci per la nostra chiesa. Ma quanto ci teniamo lontani dalla croce! Quanto è difficile liberarci da questa gabbia che ci imprigiona e che ci fa preferire la via larga e comoda, piuttosto che affrontare quella stretta e tutta in salita che il Signore ci ha indicato. Siamo circondati dal male, ma ne siamo anche sedotti e ammaliati.

Ma il Signore non si stanca mai di darci ancora e ancora nuove possibilità, come dice l’epistola di Pietro, ci permette di rinascere ad una speranza viva mediante la resurrezione di Gesù Cristo. Una speranza viva, non qualcosa di teorico, qualcosa di mistico o di esclusivamente spirituale! Una speranza viva che segna i nostri corpi e le nostre esistenze. Noi che eravamo morti a causa dei nostri peccati, noi che eravamo già condannati, siamo stati vivificati.

Sì, fratelli e sorelle, vivificati. Cioè abbiamo ricevuto una nuova vita, o come dice Pietro, una nuova speranza. Di fronte all’evidenza di quello che Colossesi chiama “il documento a noi ostile”, siamo perdonati e possiamo credere che insieme a Gesù abbiamo vinto la morte. Sì, abbiamo vinto la morte.

Non è facile parlare oggi di resurrezione: sembra una realtà lontana, lontanissima, dalla nostra esistenza quotidiana. Anche all’interno delle nostre stesse chiese, qualcuno fa fatica. Non riesce a credere a questo evento che trascende totalmente le nostre esistenze. Come credere che un uomo, un uomo qualunque abbia potuto risorgere dopo la morte? Come immaginare un’ipotesi così lontana dalle nostre esperienze quotidiane? Ma Gesù non era un uomo qualunque. La nostra fede si poggia proprio su questo. Gesù era il Figlio di Dio e se crediamo a questo e se su questo abbiamo fondato le nostre vite, o proviamo a farlo, allora dobbiamo interrogarci, profondamente, su cosa significhi per noi, per ognuno e ognuna di noi credere in Gesù Cristo.

Egli ci chiama e ci incoraggia, non vuole essere ridimensionato ad un buon predicatore, un maestro di vita, una guida spirituale. No, Gesù era il Figlio di Dio ed è morto sulla croce per tutti e tutte noi ed è risorto il terzo giorno per tutti e tutte noi: è a questo che siamo chiamati a credere, nulla di più e nulla di meno. Anche se è evidente che la nostra vita, al contrario, è circondata dalla morte. È per questo che facciamo fatica a credere nella resurrezione. Nulla, nella nostra vita concreta ce ne parla; i nostri goffi tentativi di apparire giovani e di allungare la vita non fanno che sottolineare che invece siamo mortali e abbiamo grandissima paura della nostra fine. La tentazione di rifiutare la nostra unica possibilità di vita a causa del nostro grande attaccamento a questa nostra esistenza è fortissima, ma non dobbiamo temere! Gesù, infatti, si è fatto essere umano esattamente come me e come tutti e tutte voi. Ha conosciuto la nostra vita, i nostri dolori, le nostre gioie, ha provato la fame, la sete, il piacere della tavola e dell’amicizia; un uomo che ha conosciuto la tentazione ed è entrato nella storia: un uomo completo e potremmo dire normale.

E quando sentiamo il desiderio di rifiutare la nuova vita che ci dona il Signore, perché siamo attaccati alla nostra vecchia esistenza piena di morte e di dolore, quando rifiutiamo di lasciarci convertire e di guardare con occhi rinnovati i principati e i potenti, non dobbiamo dimenticare che il Signore ci ama e ci ha amati al punto da divenire come noi, al punto da affrontare la nostra più grande paura, la morte, e non una morte qualsiasi, ma la morte di croce. Pur di liberarci dal nostro peccato, è venuto sulla terra e ha cancellato anche la traccia del nostro peccato. Quale dono maggiore poteva farci? E quindi lasciamo la nostra paura e affidiamoci con cuore riconoscente alla possibilità di vita che ci è concessa, una volta per tutte, dalla croce di Gesù.

Fratelli, sorelle se il nostro essere venuti fin qui non è vano, apriamo i nostri cuori alla gioia e alla speranza: il Signore vede il male nel quale viviamo, nel quale siamo immersi, lo conosce, ma ha scelto di darci la vita e ha trionfato sulla morte, sulla nostra morte, attraverso la sua resurrezione.

Il Signore ci doni occhi per vedere i nostri peccati e cuori per accogliere la sua luce vivificante, in modo da poter con gioia profonda vivere fino in fondo il canto di lode innalzato da Pietro: “Benedetto sia il Dio e Padre del nostro Signore Gesù Cristo, che nella sua grande misericordia ci ha fatti rinascere a una speranza viva mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti”.    Amen!

Erica Sfredda

Sermone: UNA VITA NUOVA

Questo sermone si può dire sia stato preparato a due mani, infatti la mia gratitudine per le riflessioni in esso contenuti vanno ad una pastora della nostra chiesa che ha tutta la mia stima, oltre che il sincero affetto e la riconoscenza per il piacere dei nostri contatti, complice la tecnologia che avvicina coloro che sono geograficamente lontani: Eleonora Natoli della chiesa di Savona.

Leggo dall’epistola di Paolo ai Colossesi 2,1-15

“Voglio infatti che sappiate quale dura battaglia combatto per voi, per quelli di Laodicea e per quanti non mi hanno mai visto in faccia, perché i loro cuori siano consolati, uniti nell’amore, per comprendere con piena certezza e per conoscere a fondo il mistero di Dio, di Cristo, nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della conoscenza. Dico questo affinché nessuno vi inganni con parole seducenti. Sebbene io sia fisicamente assente, nello spirito sono con voi e mi rallegro vedendo il vostro buon ordine e la stabilità della vostra fede in Cristo.

Come, dunque, avete ricevuto Cristo Gesù, il Signore, in lui anche continuate a camminare, radicati in lui e su di lui edificati, rafforzati nella fede, proprio come siete stati istruiti, pieni di gratitudine. Fate attenzione che nessuno vi irretisca mediante la filosofia e con vuoto inganno, secondo la tradizione umana, secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo, perché in lui dimora corporalmente tutta la pienezza della divinità, e voi avete tutto pienamente in lui, che è il capo di ogni principato e autorità. In lui siete anche stati circoncisi con una circoncisione non fatta da mano umana, spogliandovi del corpo della carne, ma con la circoncisione di Cristo, dato che siete sepolti con lui nel battesimo; con lui pure siete stati risuscitati per mezzo della fede operante di Dio che lo ha risuscitato dai morti. E benché foste morti nelle vostre trasgressioni e nell’incirconcisione della vostra carne, vi ha fatto viventi con lui, perdonandoci tutte le trasgressioni, cancellando il registro dei debiti contro di noi, le cui prescrizioni ci condannavano. Lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce, avendo messo a nudo i principati e le autorità, li ha esposti in pubblico, celebrando in essa un trionfo su di loro”.

Il passo che abbiamo letto porta il titolo “Avvertimento contro le false dottrine”, tuttavia nel leggerlo, oltre alla sollecitazione di vegliare per non farsi irretire dalle false dottrine e per non costruirsi idoli vani, come abbiamo letto prima in Isaia, può sorgere anche una domanda, o meglio una domanda in tre momenti:

  1. Chi è Cristo?
  2. Cosa fa Cristo per noi?
  3. Cosa compie Cristo in noi?

Certo, non è solo la lettera di Paolo ai fedeli di Colosse (città scomparsa nell’attuale Turchia) che presenta questi temi. Tutto il Nuovo Testamento è permeato da questi argomenti.  Ma, per tornare alla nostra lettura, direi che la risposta alla prima domanda è chiarissima nel versetto 15 “ha spogliato i principati e le potenze, ne ha fatto un pubblico spettacolo, trionfando su di loro per mezzo della croce”. Cioè Paolo per farci comprendere chi è Cristo ci fa vedere la banalità del mondo semplicemente orizzontale e ci spinge ad alzare il nostro sguardo e il nostro pensiero verso una dimensione cosmologica, perché le cose visibili, le potestà terrene, sono state ridimensionate da Lui, Lui che, attraverso la croce e la vita data per la salvezza degli uomini, ha trionfato sui legacci comportamentali, ha sconfitto una visione puramente materialistica del mondo, affermando la sua sovranità su tutto ciò, ma soprattutto facendo comprendere la Sua signoria anche sull’invisibile, su ciò che va oltre le nostre vite, in una dimensione dove lo spazio e il tempo non contano più, dove le nostre categorie mentali, la nostra cultura, i nostri comportamenti, i nostri usi sociali perdono completamente di valore, per lasciare spazio ad una pienezza che trova compimento nella salvezza che può derivarci solo dall’immenso amore di Dio, dal sacrificio della croce e dalla resurrezione di Cristo, perché Lui è l’alfa e l’omega, l’inizio e la fine, colui che è, che era e che viene, come troviamo scritto in Apocalisse 1,8.

E veniamo ora alla seconda e terza domanda: “Cosa fa Cristo per noi?” e “Cosa compie Cristo in noi?”

La risposta mi sembra chiara: se Gesù di Nazareth per noi è il Cristo, il figlio che Dio ci ha inviato per riscattarci dalle nostre infedeltà, per insegnarci una nuova via, per redimerci dal peccato, allora Cristo ha già fatto per noi tutto ciò che poteva essere fatto, proponendoci la sua vita, il suo modo di guardare al mondo, la sua visione di amore e fratellanza, la certezza del perdono, la sua spiritualità. Ciò significa che anche noi, secondo la mente di Dio, possiamo vivere la nostra vita in comunione con quella del Cristo spirituale, oltre che negli insegnamenti del Cristo uomo.

E Paolo ci aiuta a comprendere cosa ha fatto Cristo per noi, infatti egli scrive che, attraverso il battesimo, da morti che eravamo siamo stati resuscitati, cioè, per la potenza di Dio, siamo già diventati persone nuove. E di questa “persona nuova” Paolo non dice tanto per dire, ma, come sappiamo, ha fatto l’esperienza sulla propria pelle.  Questo è ciò che Cristo compie in noi: le forze che dominano l’universo, signorie, principati, potenze non riescono più a ridurre la nostra esistenza a un triste sopravvivere, a uno sforzo che temiamo inutile per combattere giorno per giorno mille problemi.  L’invito è a vedere e vivere l’esistenza in modo nuovo perché nella nostra unione con Cristo siamo diventati persone nuove.  Ciò significa che il nostro vivere con Cristo non ha una dimensione puramente astratta ma diventa la fibra interna della nostra psiche, della nostra ragione, del nostro stesso essere. Noi non fuggiamo verso la resurrezione come fossimo proiettati verso un risarcimento futuro, ma siamo cristiani nella storia e nella storia siamo chiamati a lasciare la nostra impronta che in termini religiosi chiamiamo testimonianza, una testimonianza che deve essere svolta qui e ora, nel nostro mondo, nel momento attuale, senza rinviarla al futuro, senza aspettare domani, perché non solo il domani, ma già fra poche ore è troppo tardi per fare ciò che dobbiamo fare, per essere come dovremmo essere.

Ma come possiamo rendere questa testimonianza in un mondo così travagliato da guerre, piccole e grandi ingiustizie, soprusi, scandali, incertezze del domani?

Nei secoli, la storia dei credenti ha avuto molti e significativi testimoni. Ma fra tutti oggi mi piace ricordarne uno in particolare; non tanto perché egli sia il migliore, ma solo perché anche di recente abbiamo sentito riparlare di lui anche sui mezzi di comunicazione: Martin Luther King, del quale il giorno 4 aprile è stato ricordato il cinquantesimo anniversario della morte.

Ebbene, che cosa ha operato Cristo in lui?

Il suo essere cristiano, il suo essere una persona nuova in Cristo, il suo essere già risorto nel battesimo mediante la fede e per la potenza di Dio, ha connotato la sua esistenza. Esistenza radicalmente conficcata nella storia di quegli anni, una lotta la sua contro le potenze e le signorie che vogliono scalzare Cristo dal mondo. Una fede la sua, forte di ciò di cui Cristo ci rende partecipi e portatori, un messaggio nuovo per un mondo vecchio, sfinito, intollerabile; ancorato da millenni a dinamiche letali di lotta per la supremazia dell’uomo sull’uomo. Questo lo spirito di Cristo ha operato in lui e può operare in tutti noi, se apriamo il nostro cuore e mettiamo la nostra vita al suo servizio.

Una vita viva, non soffocata, degna di rispetto, piena di significato per gli altri, verso i quali viene testimoniata la possibilità di un rinnovamento, e di conseguenza e a maggior ragione piena di significato per se stessi.

Scrive M.L. King: “Voi avete una doppia cittadinanza: vivete sia nel tempo e nell’eternità, sia in cielo e sulla terra. Perciò la vostra fedeltà non è, in primo luogo, al governo, allo Stato, alla nazione o a un’istituzione umana; il cristiano deve essere, prima di tutto, fedele a Dio e se un’istituzione terrena è in conflitto con la volontà di Dio è vostro dovere di cristiani prendere posizione contro di essa. Non dovete mai permettere che le istanze transitorie di istituzioni umane abbiano la prece4denza sulle istanze eterne di Dio Onnipotente”.

Quindi possiamo dire che quando un cristiano è un essere umano nuovo sa prendere posizione per Dio nel mondo, sa testimoniare la su fede assumendosi i rischi che la lotta all’ingiustizia comporta, sa crescere come cittadino perché ha ben chiara l’incolmabile differenza tra le varie signorie terrene e la sovranità divina di quell’ideale spirituale e sociale che chiamiamo “regno di Dio”.

È vero, la concretezza della realpolitik permette agli Stati di funzionare ma l’ideale della sovranità del Dio giusto, rivelatosi in Cristo, permette alle donne e agli uomini di raggiungere la pienezza del valore di persona.

Quindi, fratelli e sorelle, sapendo cosa opera in noi la potenza di Cristo, cogliamo con cuore aperto un’esortazione pastorale di M.L. King: “Cercate Dio, trovatelo e fate di lui una forza nella vostra vita. Senza di lui tutti i nostri sforzi si riducono in cenere e le nostre aurore diventano le più oscure delle notti. Senza di lui, la vita è un dramma senza senso a cui mancano le scene decisive. Ma con lui noi possiamo passare dalla fatica della disperazione alla serenità della speranza. Con lui noi possiamo passare dalla notte della disperazione all’alba della gioia”.

Questo Cristo fa per noi e questo siamo chiamati a testimoniare.    AMEN

Eleonora Natoli + Liviana Maggiore

Sermone: UNA DONNA TESTIMONE

11 Maria invece stava all’esterno, vicino al sepolcro, e piangeva. Mentre piangeva, si chinò verso il sepolcro 12 e vide due angeli in bianche vesti, seduti l’uno dalla parte del capo e l’altro dei piedi, dove era stato posto il corpo di Gesù. 13 Ed essi le dissero: «Donna, perché piangi?». Rispose loro: «Hanno portato via il mio Signore e non so dove l’hanno posto». 14 Detto questo, si voltò indietro e vide Gesù, in piedi; ma non sapeva che fosse Gesù. 15 Le disse Gesù: «Donna, perché piangi? Chi cerchi?». Ella, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: «Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove l’hai posto e io andrò a prenderlo». 16 Gesù le disse: «Maria!». Ella si voltò e gli disse in ebraico: «Rabbunì!» – che significa: «Maestro!». 17 Gesù le disse: «Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma va’ dai miei fratelli e di’ loro: «Salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro»». 18 Maria di Màgdala andò ad annunciare ai discepoli: «Ho visto il Signore!» e ciò che le aveva detto.  (Giovanni 20,1-18)

Una premessa: la scrittura cresce con colui che la legge. Non c’è Parola di Dio nella scrittura, ma nella lettura! Chi l’ha scritta, ha raccontato la sua esperienza di Dio. Esperienza di Dio elaborata in forma di testo. Noi non siamo la religione del libro, ma della Parola.

Nel brano appena letto viene narrata una sconvolgente esperienza di Dio, quella che fece Maria di Magdala “il primo giorno della settimana”, la domenica, dopo la morte di Gesù.

Inizia così: “Maria invece era rimasta presso il sepolcro. Perché “invece”? Perché era appena stata raccontata la corsa di Pietro e dell’altro discepolo che Gesù amava (così dice il vangelo di Giovanni) verso il sepolcro, dopo che Maria stessa aveva trovato la pietra, che chiudeva la tomba vuota, rimossa, ed era andato a dirlo ai discepoli. Pietro e l’altro apostolo videro la tomba vuota, i teli ed il sudario, l’altro discepolo si dice persino che “vide e credette”, ma poi se ne tornarono a casa. Lei, invece, Maria, rimane a contemplare il mistero, rimane “fuori vicino al sepolcro a piangere. Non riesce a tornare a casa, non riesce ad andarsene, non riesce a darsi pace. Lei che si era recata di buon mattino al sepolcro, mossa da immensa gratitudine e amore per il suo maestro, per cercare di recuperare il suo corpo senza vita, è ora immersa in lacrime di dolore.

Il suo è il pianto amaro di chi sa cosa significhi perdere l’amore che salva, è il pianto dell’umanità che ha rinchiuso in un sepolcro il suo Dio, è la tristezza profonda per un crimine assurdo, è ancora l’incapacità di comprendere come possa accadere che il Figlio di Dio rimanga definitivamente in un sepolcro. Il pianto di Maria e le sue lacrime sono l’immagine di quel dolore acuto, profondo, duro da far male a chi lo vede delle persone che hanno vissuto da vicino la morte. Non ci si riesce a muovere, o ci si muove e si dicono cose inessenziali, come questo disperato ripetere di Maria di Magdala: “Hanno tolto il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno messo; Signore, se tu l’hai portato via tu, dimmi dove l’hai posto, e io andrò a prenderlo”.

La morte crea un vuoto terribile dentro la vita, dentro la casa, dentro i pensieri. Un vuoto assoluto che questa tomba, svuotata anche del corpo, amplifica. Quella persona amata non c’è più perché è morta, e ora non c’è più neanche il suo corpo. Come quando si ritorna dal funerale di chi ha vissuto con te, di chi hai amato e che ti ha amato: la morte ti ha tolto tutto, anche il corpo, ti ha lasciato il vuoto.

La Pasqua ha a che fare con questo, con la morte vera, con quel vuoto invisibile ed incolmabile, con quel bisogno di ritrovare il corpo, con quel desiderio inesaudibile di rivedere il corpo, persino di toccarlo. Questo è ciò che accade il mattino di Pasqua, che Gesù, che era morto, è stato risuscitato: per forza Maria di Magdala non riesce a capire, a sentire, a vedere. Per forza non riconosce gli angeli e non riconosce nemmeno Gesù: perché la sua vita è rimasta al di qua della risurrezione, al di qua della vita, impastata nella morte, dentro l’ordine del cimitero, dove tutt’al più puoi incontrare due angeli, che molto probabilmente lei scambia per dei giardinieri, degli addetti ai lavori che possono aver spostato il corpo per esigenze professionali.

Ricordiamocelo: nessuno sa effettivamente cosa sia successo con la resurrezione, e questo perché non c’erano testimoni. Questa è la grande differenza tra la Pasqua e la morte di Gesù. La morte di Gesù è stata vista da molte persone, sia discepoli, sia poi il centurione che fa la sua confessione di fede quando vede morire Gesù. Quindi ci sono tanti testimoni. Ma la resurrezione non ha testimoni e questa è la sua forza e la sua debolezza. È la sua forza perché è, appunto, una sfida aperta alla fede, nel senso che noi crediamo ciò che non vediamo. E questo è lo statuto proprio della fede. La fede è proprio questo credere nell’invisibile, nel Dio invisibile, nel Cristo invisibile. In definitiva la cosa che induce a dire che la Pasqua non è un’invenzione dei discepoli è proprio il fatto che nessuno se l’aspettava. Il fatto che loro non ci hanno creduto è il motivo per cui noi ci crediamo. Al venerdì santo non è solo morto Gesù, è anche morta la fede in lui. E quindi dopo il venerdì santo tutti erano pronti a ritornare ai loro mestieri. C’è addirittura una parola molto significativa dell’apostolo Pietro che in sostanza dice: io torno a pescare. Ma la Pasqua ha questa caratteristica: di smentire la realtà, che vorrebbe tutto finito, un capitolo chiuso. E invece no, Dio lo riapre. Naturalmente i testi balbettano, ma anche questo è un segno positivo per la fede, perché dimostra che la Pasqua è la sorpresa assoluta, ciò che nessuno immaginava. La resurrezione è il messaggio meno credibile, questo è il punto. Eppure è questo messaggio meno credibile di qualunque altro che ha fondato, o meglio, rifondato la fede che era morta, ha risuscitato la fede. A Pasqua non risuscita solo Gesù, risuscita anche la fede in Gesù. Non è la fede dei discepoli che ha resuscitato Gesù, ma è Gesù risorto che ha resuscitato la fede dei discepoli. È ai piedi del risorto che nasce la fede cristiana.

Il brano termina con questa affermazione: “Maria andò ad annunciare ai discepoli “Ho visto il Signore!” e ciò che le aveva detto”. Forse non ci rendiamo conto di questa incredibile novità: Gesù affida il suo annuncio di vittoria e di grazia ad una donna. Gesù comincia questa nuova storia, che nasce dalla sua Resurrezione, da una donna. Non comincia più come aveva cominciato all’inizio del suo ministero, scegliendo dodici uomini: Pietro, Giacomo, Giovanni, Andrea, Filippo e tutti gli altri. A nessuno di questi Gesù appare per primi. A nessuno di loro Gesù affida la più grande e bella notizia mai udita in questo mondo, la notizia che per una volta la morte è stata vinta, che per una volta la morte non ha avuto l’ultima parola. Questa notizia che sta al cuore della fede cristiana ed è la ragione incrollabile della nostra speranza, Gesù non l’ha affidata ai grandi apostoli uomini, uno dei quali l’ha tradito, l’altro l’ha rinnegato tre volte e tutti, senza eccezione, l’hanno abbandonato, non a loro Gesù ha affidato il messaggio più grande, quello decisivo, la parola-chiave della fede e della storia: “Risurrezione!”, quella che più e meglio di ogni altra ci porta vicino al mistero di Dio.

Affidando questa parola ad una donna Gesù va completamente contro corrente, perché allora le donne non erano accettate come testimoni nei tribunali; la loro parola non valeva niente. Gesù distrugge questa discriminazione affidando proprio a una donna la testimonianza più importante di tutte. E qual è questa testimonianza? Che colui che era scomparso, appare; colui che sembrava assente, è presente.

È presente, ma ricordiamocelo, non è riconosciuto. Questo è il destino di Dio nel mondo: essere presente e non essere riconosciuto. Si parla tanto della assenza di Dio: ma Dio non è assente, è presente, ma non è riconosciuto. Come succede qui a Gesù: “Maria vide Gesù in piedi, ma non sapeva che era Gesù” (20,14). Lo vede, ma non lo riconosce. Perché non lo riconosce? Certamente perché il corpo risorto di Gesù è diverso da quello che aveva durante la sua vita, è un corpo nuovo, e il fatto che Maria non lo riconosca esprime appunto la diversità e novità del corpo risorto rispetto a quello di prima.

Ma il tema di vedere e non riconoscere è molto ampio e concerne il nostro modo di guardare tutta la realtà che ci circonda. Ad esempio: vedere il cielo e la terra e non riconoscere la mano di Dio; vedere la creatura e non riconoscere il Creatore; vedere la vita e non riconoscere “la Fonte della vita” (Salmo 36,9); vedere l’altro e non riconoscere il prossimo; vedere il prossimo, e non riconoscere il fratello; vedere un malato, un carcerato, un profugo, un affamato e non riconoscere quello che Gesù chiama uno dei suoi “minimi fratelli” (Matteo 25,40). Che cosa vuol dire “riconoscere”? Vuol dire vedere quel che non si vede, vedere oltre le apparenze, vedere quel che è nascosto agli occhi del corpo, ma è evidente agli occhi del cuore; in una parola vedere l’invisibile. Come dice l’apostolo Paolo: “Noi abbiamo lo sguardo intento non alle cose che si vedono, ma a quelle che non si vedono; perché le cose che si vedono sono solo per un tempo, ma quelle che non si vedono sono eterne” (II Corinzi 4,18).

Maria non riconosce subito Gesù, ma poi lo riconosce. Quando? Quando Gesù le parla. Finché Dio resta muto, è un enigma, una grande domanda senza risposta, uno sconosciuto. Dio lo si conosce e riconosce nella sua Parola. Quando Gesù parla, allora Maria lo riconosce. E che cosa le dice Gesù? Non le dice, come potremmo aspettarci: “Io sono Gesù, non sono il giardiniere”, no, le dice: “Tu sei Maria; ti conosco e ti riconosco”. E Maria risponde: “Rabbunì!” che vuol dire Maestro! C’è dunque qui un doppio riconoscimento: Maria riconosce Gesù nel momento in cui Gesù riconosce Maria!

Ora c’è una ragione per non piangere, una sola, ma c’è: Gesù è risorto, la morte è stata vinta, l’ultima parola ce l’ha la vita e non la morte, la libertà e non l’oppressione, la giustizia e non l’ingiustizia, il bene e non il male, la gioia e non il dolore. Si, c’è una ragione per non piangere, una sola, ma c’è: è quella che celebriamo in questo culto e che vogliamo gelosamente custodire nel nostro cuore, per non dimenticarla nel giorno delle lacrime. Gesù si trova già aldilà del confine della morte, nel mondo nuovo di Dio, ma non dimentica il nostro nome e ci chiama: “Maria!” “Salvatore” “Francesco” “Mary”. Mettiamo il nostro nome al posto di quello di Maria, scriviamolo nella nostra Bibbia. Gesù risorto, dall’altro versante della realtà, ci chiama per nome a entrare nella comunità della risurrezione, dove si sa che l’ultima parola ce l’ha Lui, e non la morte, Lui, il primo e l’ultimo, il vivente nei secoli dei secoli.  AMEN

Fabio Barzon

Sermone: QUAL E’ LA STRADA?

Ed ecco che, in quello stesso giorno, due di loro stavano andando a un villaggio a circa sessanta stadi di distanza da Gerusalemme, chiamato Emmaus, e parlavano tra di loro di tutti quegli avvenimenti. Mentre conversavano e discutevano, Gesù in persona, dopo essersi avvicinato, camminava con loro. I loro occhi, però, non riuscivano a riconoscerlo. Egli disse loro: «Che cosa sono questi discorsi che fate tra voi mentre camminate?» Ed essi si fermarono, mesti. Rispondendo, uno dei due, di nome Cleopa, gli disse: «Tu soltanto tra i pellegrini che stanno a Gerusalemme, non conosci i fatti che vi sono accaduti in questi giorni?» Lui disse loro: «Quali?» Loro gli risposero: «I fatti riguardanti Gesù, il Nazareno: era un profeta potente nei fatti e nelle parole davanti a Dio e a tutto il popolo; e i sommi sacerdoti e i nostri capi lo hanno consegnato, perché fosse condannato a morte, e lo hanno crocifisso. Noi speravamo che fosse lui che doveva venire a redimere Israele; ora, però, con tutto questo oggi sono tre giorni da quando questi fatti sono avvenuti. Certo, alcune donne tra noi ci hanno lasciati senza parole: andate al sepolcro presto al mattino, non hanno trovato il suo corpo, e sono ritornate per dire di aver anche visto una visione di angeli, i quali dicono che egli è vivo. Alcuni di quelli che sono con noi sono andati al sepolcro e hanno trovato proprio come le donne stesse hanno riferito, ma lui non lo hanno visto».

E lui disse loro: «Stolti! Come siete lenti a credere a tutte le cose di cui hanno parlato i profeti! Il Cristo non doveva soffrire queste cose ed entrare nella sua gloria?»  E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti interpretò per loro tutti i passi delle Scritture che lo riguardavano.

Si erano ormai avvicinati al villaggio a cui erano diretti e lui fece come per proseguire. Essi insistettero con lui dicendo: «Rimani con noi, perché è quasi sera e il giorno volge già al suo termine». Ed egli entrò per restare con loro. E mentre era a tavola con loro, preso il pane, lo benedisse, e dopo averlo spezzato, lo diede loro. Allora i loro occhi furono aperti e lo riconobbero; ma lui divenne invisibile ai loro occhi. E si dissero gli uni gli altri: «I nostri cuori dentro di noi non ardevano, quando ci parlava lungo la strada? Quando ci spiegava le Scritture?»

Alzatisi proprio in quel momento, tornarono a Gerusalemme e trovarono riuniti insieme gli Undici e quelli che erano con loro, i quali dicevano che il Signore era veramente risuscitato ed era apparso a Simone. Essi pure spiegavano le cose avvenute loro per la via e come lo avevano riconosciuto, quando aveva spezzato il pane.  (Luca 24,13-35)

Vorrei innanzi tutto fare una premessa: noi crediamo nel Cristo risorto! Non è un’affermazione così scontata, credetemi, perché mi è capitato di sentirmi dire da persone che si definiscono credenti cristiani di avere talvolta alcune perplessità sulla resurrezione di Gesù.  Io mi chiedo come si faccia a definirsi credenti cristiani e non credere alla resurrezione, tuttavia …. non è un affare mio, anche se sono legittimata a nutrire perplessità di fronte a tali affermazioni, perché viene a mancare il più grande miracolo che ha cambiato la storia dell’umanità, senza il quale il messaggio evangelico si riduce ad una serie di insegnamenti etici, certamente importanti, ma che non richiedono un approccio di fede.

Leggendo il passo di Luca e dando quindi per scontato il fatto di credere nella resurrezione, mi sono ritrovata a pensare ai sentimenti e all’atteggiamento dei due discepoli sulla strada di Emmaus.  Immagino che costoro se ne andassero mesti per quella ventina di km da Gerusalemme. Venivano via da Gerusalemme probabilmente molto delusi perché il loro maestro, il loro leader, colui nel quale avevano creduto e che avevano seguito, era morto. E, fra l’altro, era stato messo a morte come un delinquente, come coloro che si sono macchiati di nefandezze.  Certo, avevano sentito che le donne andate al sepolcro non lo avevano trovato e che avevano avuto una visione di angeli che dicevano che egli era vivo, però evidentemente non ci avevano creduto, visto che si stavano allontanando da Gerusalemme, dove c’erano ancora i loro amici, altri discepoli di Gesù.

Non serviva più rimanere insieme perché era tutto finito. Il dolore per la morte del maestro era grande, infatti parlano tra loro di quanto accaduto. Ma forse era altrettanto grande la delusione delle aspettative che avevano riposto in Gesù: avrebbe dovuto essere il Messia che libera, che riscatta Israele. Quindi, tanto valeva venire via da Gerusalemme, perché era tutto finito. La morte aveva cancellato tutto. Poteva al massimo essere mantenuto il ricordo di un’esperienza particolare: aver conosciuto una persona speciale nella quale avevano riposto il loro amore e la loro fiducia.

La morte cancella tutto. La separazione da una persona amata porta dolore, angoscia, e nel contempo ci mette davanti ad una sorte ineluttabile dove spesso la paura la fa da padrone.

Vorrei proporvi un’esperienza personale, sperando di non scandalizzare nessuno, come invece mi è accaduto in passato. Quando è morto Giancarlo, mio marito, col quale sapete ho condiviso 33 anni di matrimonio soddisfacente, parlando con alcune persone amiche ho visto il loro stupore quando dicevo che non soffrivo la separazione, non ero addolorata per la sua morte, ma sentivo la mancanza della sua presenza, delle lunghe chiacchierate, della condivisione di interessi comuni. Soffrivo il dolore per l’assenza della persona, un’assenza che, in linea teorica, avrebbe potuto essere causata anche da altro e non solo dalla sua morte. Non ho mai avuto la percezione, neppure in maniera fugace, che la morte cancella tutto.  Non dico di aver avuto ragione. Probabilmente questo mio sentire era dovuto anche al credere profondamente che la morte è solo un passaggio, come la nascita. Probabilmente questa consapevolezza mi derivava da esperienze di premorte che, come me, molti hanno fatto. Tuttavia questo era il mio sentimento, un modo di porsi che non butta all’esterno dell’esistenza psicologica individuale la colpa della separazione, quasi che la morte non facesse parte della nostra stessa vita e, invece di essere un evento, viene quasi personalizzato per proiettare il proprio dolore che non si riesce ad elaborare.  Eppure spesso invece accade così: la morte viene subita, viene vista come qualcosa di completamente estranea a noi, alla nostra vita, qualcosa di negativo e ostile che ci porta a pensare che con la fine della vita terrena tutto finisce nel nulla.

E penso che i due discepoli così la vivessero. Se ne andavano verso Emmaus per riprendere un’altra vita, forse una vita simile a quella che avevano prima di incontrare Gesù.  La loro strada è lastricata di dolore per il lutto. Sono così compresi nel loro dolore e nei loro discorsi tristi che non si accorgono di chi sia colui che diventa il loro compagno di viaggio.  Parlano con lui, si stupiscono perfino del fatto che, venendo anche lui da Gerusalemme, non sia al corrente di quanto accaduto. La loro disperazione e il sentimento di profonda delusione fa sì che siano concentrati solo su loro stessi.

Certo sono persone per bene, infatti quando si fermano sul far della sera, invitano questo estraneo a cenare con loro e, durante il pasto, accade qualcosa che li risveglia: nello spezzare il pane, nel benedirlo e nel condividerlo, riconoscono il loro maestro. Un gesto che li riporta a un “dejavu”, un atteggiamento che li sconvolge e li riporta alla loro esperienza vissuta con Gesù.

Allora comprendono. E si stupiscono per non aver capito prima («I nostri cuori dentro di noi non ardevano, quando ci parlava lungo la strada? Quando ci spiegava le Scritture?»). E lo stupore è incontenibile: riconoscere il loro maestro in colui che era estraneo fino a poco prima fa loro credere che quanto detto dalle donne sia vero.

Siamo ancora sul far della sera, ma non possono aspettare che sorga il sole per riprendere subito la via verso Gerusalemme per dire agli amici quanto accaduto. Il prodigio è così grande da non concedere esitazioni.  Immagino che questi due siano carichi di adrenalina e vadano di buon passo, col cuore ricolmo di gioia, per raccontare agli altri la loro straordinaria esperienza. Ecco allora che la stessa strada, prima lastricata di dolore e delusione, ora è invece lastricata di fiducia, di speranza, di …. fede sul fatto che Gesù era veramente colui che era atteso.

E rieccoci a parlare della strada, della via della vita che anche noi, come loro, percorriamo.

E allora mi chiedo (e chiedo a voi): sappiamo noi quale sia la strada? Siamo certi che il nostro senso di onnipotenza ci consenta di riconoscere la presenza di Gesù accanto a noi? Sappiamo sempre che strada fare? Quante volte la facciamo distrattamente oppure la percorriamo afflitti dai nostri piccoli e grandi dolori, come fossimo assolutamente soli?

In altre parole, ci conduciamo nella vita afflitti e addolorati per tutte le nostre magagne, oppure la percorriamo con entusiasmo come i due discepoli quella sera, fiduciosi nella resurrezione di Gesù?

Ma soprattutto, qual è la strada che dobbiamo seguire?

Un tempo, quand’ero giovane in Val Senales, c’era un mio amatissimo amico che era stato la guida alpina di mio nonno. Quando la neve se ne andava, Opa Toni (così lo chiamavo), prendeva nello zaino colori e pennelli per andare a segnare i sentieri, affinché i villeggianti potessero non smarrirsi nelle passeggiate. Lui diceva che le frecce che disegnava dovevano essere chiare e ravvicinate per essere utili.

Purtroppo nei sentieri e nelle strade della vita non troviamo così sovente le frecce che ci indichino il percorso e spesso il nostro senso dell’orientamento ci inganna, presi come siamo dai nostri convincimenti personali.

E allora? Qual è la via da seguire?

Direi una sola: aprire il cuore e la mente e riconoscere che Gesù è veramente con noi fino alla fine dei tempi. È Gesù stesso che ci ha già indicato la via, perché, se abbiamo fede, non possiamo fare a meno di ricordare che lui ha detto: “Io sono la via, la verità e la vita”.

Se accettiamo la presenza di Gesù nella nostra vita, la strada è già segnata.

Se accettiamo che la resurrezione che celebriamo oggi è reale, riconosceremo certamente il nostro compagno di viaggio e comprenderemo che quella resurrezione è anche per noi, come lo fu per Lazzaro, perché la morte non cancella tutto.

AMEN

Liviana Maggiore