Sermone: LA LEGGE DELL’AMORE

1 Corinzi 6,9-14;18-20

Non sapete che gli ingiusti non erediteranno il regno di Dio?

Non v’illudete: né fornicatori, né idolatri, né adùlteri, né effeminati, né sodomiti, né ladri, né avari, né ubriachi, né oltraggiatori, né rapinatori erediteranno il regno di Dio. E tali eravate alcuni di voi; ma siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e mediante lo Spirito del nostro Dio. Ogni cosa mi è lecita, ma non ogni cosa è utile. Ogni cosa mi è lecita, ma io non mi lascerò dominare da nulla. Le vivande sono per il ventre e il ventre è per le vivande; ma Dio distruggerà queste e quello. Il corpo però non è per la fornicazione, ma è per il Signore, e il Signore è per il corpo; Dio, come ha risuscitato il Signore, così risusciterà anche noi mediante la sua potenza. Fuggite la fornicazione. Ogni altro peccato che l’uomo commetta è fuori del corpo, ma il fornicatore pecca contro il proprio corpo. Non sapete che il vostro corpo è il tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete ricevuto da Dio? Quindi non appartenete a voi stessi. Poiché siete stati comprati a caro prezzo. Glorificate dunque Dio nel vostro corpo

 

Cari fratelli e sorelle, il testo che questa domenica “Un giorno una parola”, il nostro testo di letture bibliche quotidiane, ci propone, è un brano sicuramente non facile. Un brano che oserei definire “scomodo”, un brano che necessita di un’accurata riflessione in quanto può prestare il fianco a diverse interpretazioni. Anche molto discordanti fra loro.

Esaminiamone intanto il suo significato generale, globale. Non fermiamoci alle singole parole, per il momento. L’apostolo Paolo apre questo passo con un richiamo a quanto già mirabilmente espresso nell’Epistola ai Romani. Un richiamo ad un concetto cardine del nostro essere cristiani e cristiani protestanti nello specifico: la giustificazione per fede.

“Siete stati giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e mediante lo Spirito del nostro Dio”. Paolo quindi si ricollega, si connette ai primi versetti del quinto capitolo dell’Epistola ai Romani: “Giustificati dunque per fede, abbiamo pace con Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore”. Siamo stati peccatori, e lo siamo ancora (simul peccator et justus) diceva Lutero, ma ora siamo stati lavati, santificati, giustificati.

E l’apostolo Paolo inizia questo brano biblico elencando, per l’appunto, tutta una serie di peccati per arrivare alla conclusione, sempre annunciata precedentemente nella già citata Epistola ai Romani, che “essendo ora giustificati per il suo sangue, saremo per mezzo di lui salvati dall’ira”. La famosa “ira di Dio” viene da aggiungere. Ed è proprio questo il punto sul quale dobbiamo soffermarci: il perdono di Dio. Hai fede, fratello o sorella? Ebbene, il Signore Iddio ti salva. Credi in Gesù Cristo e i tuoi peccati ti saranno perdonati.

Vediamo ora invece la frase centrale del passo biblico oggetto della nostra riflessione odierna: “Ogni cosa mi è lecita, ma non ogni cosa è utile. Ogni cosa mi è lecita, ma io non mi lascerò dominare da nulla”. Ovvero, posso fare ciò che voglio ma non è detto che faccia bene a me o agli altri. “La mia libertà finisce dove comincia la vostra” diceva il pastore Martin Luther King. L’invito è quindi quello di ponderare bene le nostre azioni, cari fratelli e sorelle: prima di fare qualcosa pensiamo bene alle sue conseguenze. Sia nei nostri che nei confronti altrui. E stiamo bene attenti a non cadere preda delle dipendenze, ovvero del reiterato uso di comportamenti ed azioni che, al momento ci danno gioia e soddisfazione ma che poi, nel lungo termine, ci portano sofferenza e dolore. Dipendenze che possono assumere molte forme. Tali da distogliere lo sguardo dalla nostra salute, da quella degli altri e, soprattutto dalla ricerca di Dio.

Possiamo usare un vecchio detto popolare: “Quello che fai ti torna indietro” e aggiungiamoci anche “sia nel bene che nel male”. E di salute del corpo parla proprio l’apostolo Paolo nella parte finale di questo nostro brano odierno: “Il corpo … non è per la fornicazione, ma è per il Signore, e il Signore è per il corpo… Fuggite la fornicazione. Ogni altro peccato che l’uomo commetta è fuori del corpo, ma il fornicatore pecca contro il proprio corpo… il vostro corpo è il tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete ricevuto da Dio”. Più chiaro di così! Dove per fornicazione, la pornèia, dobbiamo intendere la tentazione all’immoralità in senso generale. Il fare del male al nostro corpo, il cedere alle dipendenze. Non dobbiamo quindi intendere la fornicazione in senso stretto come molte letture integraliste fanno, limitandosi ai soli rapporti sessuali. Ma sulla questione della corretta interpretazione dei termini biblici tornerò più avanti.

Il nostro corpo, fratelli e sorelle, è il tempio del Signore. Dobbiamo averne cura come della nostra anima: mens sana in corpore sano dicevano giustamente i latini. Un discorso psicosomatico, potremmo ben dire usando un linguaggio odierno.

Ma torniamo ora indietro agli inizi del brano biblico. Fra le varie persone elencate da Paolo tra coloro che non erediteranno il regno di Dio, troviamo gli effeminati e i sodomiti. Questo è un punto controverso, portato sempre ad esempio da tutte quelle chiese o persone fondamentaliste che vedono nell’omosessualità un gravissimo peccato contro natura. Chiese e persone che, tramite una lettura letterale, scusate il gioco di parole, dicono che è chiaro, è scritto palesemente nella Bibbia che gli omosessuali sono condannati da nostro Signore. Quelle stesse chiese e persone che dimenticano però che se applichiamo lo stesso metodo di lettura biblica, dovremmo applicare anche quanto scritto nel libro del Deuteronomio ai versetti 18-21: Se un uomo avrà un figlio testardo e ribelle che non obbedisce alla voce né di suo padre né di sua madre e, benché l’abbiano castigato, non dà loro retta, suo padre e sua madre lo prenderanno e lo condurranno dagli anziani della città, alla porta del luogo dove abita e diranno agli anziani della città: questo nostro figlio è testardo e ribelle; non vuole obbedire alla nostra voce, è uno sfrenato e un bevitore. Allora tutti gli uomini della sua città lo lapideranno ed egli morirà; così estirperai da te il male e tutto Israele lo saprà e avrà timore”. Oppure quanto espresso sempre nel libro del Deuteronomio al successivo versetto 22: “Quando un uomo verrà colto in fallo con una donna maritata, tutti e due dovranno morire: l’uomo che ha peccato con la donna e la donna. Così toglierai il male da Israele”. Tempi duri quindi per i figli disobbedienti e per le scappatelle coniugali.

Per non parlare poi di tutto l’elenco di divieti alimentari riferito agli animali cosiddetti “impuri” che troviamo in Levitico al capitolo 11 e che mangiamo tranquillamente tutti i giorni. O quasi, visto che nell’elenco sono comprese anche le aragoste. Una lettura quindi integralista e fondamentalista che viene spesso utilizzata solo quando fa comodo, lo ripeto, solo quando fa comodo, per determinati versetti e non per altri. Una lettura che cozza violentemente con il metodo storico-critico che noi, chiese metodiste e valdesi, utilizziamo, calando frasi e situazioni nel loro contesto storico e soprattutto collegando fra loro i vari versetti e capitoli e non leggendoli isolati.

Soprattutto, chi prende la Bibbia alla lettera, dimentica il fondamentale problema della traduzione: come sappiamo, l’Antico Testamento è stato scritto in ebraico e il Nuovo in greco. Ricordo, a tale proposito, quanto scritto qualche tempo fa da uno di questi integralisti su un social network: “La Bibbia è stata scritta in italiano” ovvero, se la leggo in italiano vuol dire che è stata scritta in italiano. Questo, più o meno, il tenore del post. Ecco questo, un caso limite per carità, ma che pone un problema di difficile comprensione e di scontro. L’ebraico, e questo ve lo posso assicurare personalmente, dato che sto cercando di studiarlo da un po’ di tempo ma ahimè con scarso risultato, è una lingua assolutamente diversa dal nostro modo di parlare, scrivere e ragionare, linguisticamente parlando.

L’ebraico non aveva le vocali fino al Medioevo, quando si iniziarono ad usare proprio per evitare fraintendimenti e confusioni. Per non parlare di altre particolarità che rendono difficile distinguere una parola dall’altra. Addirittura un puntino a destra o a sinistra può cambiare il significato di una parola. E magari è stato solo un errore di stampa o una svista nel passaggio dal testo manoscritto a quello a stampa. È quindi complesso comprendere correttamente il significato di ogni singola parola e quindi di intere frasi. E questo vale anche per il greco, la lingua del Nuovo Testamento, dove le parole possono avere più significati. Una ricchezza lessicale che mette in crisi il lavoro dei traduttori e che spinge molti a tradurre con il primo significato proposto dal dizionario. Un po’ come fanno gli studenti liceali impegnati nelle versioni di latino o greco. Il primo significato proposto è quello giusto. Si fa meno fatica. Dimenticando, per esempio, che il verbo latino “colere”, significa coltivare ma anche raccogliere oppure “legere”, che significa leggere ma anche eleggere, scegliere, costeggiare, raccogliere, percorrere. Ecco questo era un esempio relativo al latino, la lingua classica più vicina alla nostra. Figuriamoci per il greco o l’ebraico.

Pertanto, cari fratelli e sorelle, avviandoci verso la conclusione, il fatto è che noi possiamo semplicemente fare delle speculazioni su ciò che Paolo intendeva dire usando queste parole. Quello che invece noi sappiamo è che quando il significato di una parola o di un passaggio non è chiaro, i pregiudizi del traduttore entrano in gioco nella scelta delle parole utilizzate per tradurre il significato non facilmente conoscibile, in questo caso, del greco. I pregiudizi del traduttore. Vogliamo quindi veramente basare la nostra condanna di un intero gruppo di persone su una traduzione non attendibile, e sottolineo non attendibile, di un termine greco non perfettamente conoscibile? Una persona ragionevole, per non dire un cristiano compassionevole, non lo farebbe.

Concludendo, la Bibbia, cari fratelli e sorelle, non risponde ai quesiti che ci stiamo ponendo sugli uomini e le donne che sono orientate affettivamente verso persone dello stesso sesso. Presi nel loro contesto, questi testi, quello che abbiamo letto e commentato oggi ed altri, si rivolgono a situazioni che provengono da mentalità diverse, molto diverse dalle nostre. Nelle scritture si insiste invece sulla compassione verso il nostro prossimo, sul richiamo all’empatia e alla giustizia per gli emarginati e compaiono esempi di onestà, solidarietà e amore in ogni relazione.

Amore, la legge dell’amore. Quello stesso amore per cui Dio ci ha concesso la sua Grazia, quell’immensa grazia che ci salva e ci libera dal peccato. Questa è la chiave di lettura.

Amen

Daniele Rampazzo

Sermone: PREGARE, NON PREGHIERE!

Il tema della preghiera è vastissimo, come quello della fede e di Dio stesso. Se ne potrebbe e dovrebbe parlare a lungo, perché la preghiera, sia come atto (l’azione di pregare, nelle tante forme possibili) sia come atteggiamento (cioè come modo di essere nel mondo e tra gli uomini), è centrale nella vita di fede, secondo la bella frase citata dal filosofo Kierkegaard: «La preghiera è figlia della fede, ma la figlia deve nutrire la madre».

Il brano che leggiamo ora (Lc 11,5-13) è composto di una duplice parabola, e fa parte di una catechesi sulla preghiera propria dell’evangelista Luca.

“Poi disse loro: «Se uno di voi ha un amico e a mezzanotte va da lui a dirgli: «Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da offrirgli», e se quello dall’interno gli risponde: «Non m’importunare, la porta è già chiusa, io e i miei bambini siamo a letto, non posso alzarmi per darti i pani», vi dico che, anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono. Ebbene, io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve, e chi cerca trova, e a chi bussa sarà aperto. Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà una serpe al posto del pesce? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione? Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!».

Lo dico subito: io ho trovato queste parole di Gesù un po’ irreali, sfuggenti, quasi “buoniste”, come si direbbe oggi. Quale stridore, quale malessere sento, se mi pongo con sincerità di fronte a questo “chiedi e ti sarà dato”, rispetto alla realtà che vivo e che credo molti vivano. Quante persone deluse, che si sentono tradite dalla vita, dalle persone, da Dio stesso, ho davanti agli occhi.

Invece questo brano sembra andare in tutt’altra direzione: Gesù, dopo aver donato la preghiera del Padre nostro, in seguito alla richiesta così semplice e così vera dei discepoli (“Signore, insegnaci a pregare”), con questa parabola – conosciuta come quella “dell’amico importuno” – ci esorta a una preghiera sostenuta da una fede quasi «sfacciata» verso Dio. Nella sua spontaneità, la parabola sembra volerci dire: nessuna delusione dal Dio di Gesù di Nazareth! Dio è fedele alla sua promessa! Ogni preghiera, anche la più sconsideratamente audace, anche la più folle pretesa di ascolto, che venga da chi è ritenuto, e magari si ritiene, il più indegno, se sincera, è accolta.

Pregare, allora. Ma preghiera, non preghiere. Non il ripetere formule, ma lo slancio di una vita che bussa tutta intera. Non «dire le preghiere», ma essere domanda, essere sete, essere richiesta, essere mendicanti davanti alla porta di Dio. Gesù non ci chiede, quando preghiamo, di cambiare le nostre parole, ma di cambiare il nostro cuore, nella coscienza che la nostra preghiera arriva sempre seconda, è sempre risposta, anche quando chiede, perché Lui ci ha amati e chiamati per primo. È quello che leggiamo al cap. 3 del libro dell’Apocalisse: «Ecco, io sto alla porta e busso: se uno sente la mia voce e apre la porta, io entrerò da lui, e cenerò con lui, e lui con me». È lui che si è fatto povero, e ha bussato alla nostra porta. È lui l’amico importuno che bussa alla nostra porta a mezzanotte. La prima condizione della preghiera è quindi aprirgli la porta, ascoltare la sua Parola. Poi però – ci dice Gesù – bussate anche voi. Anzi, bussate con insistenza; certo, nella propria cameretta, nel segreto, senza usare troppe parole, come dice l’evangelista Matteo, ma bisogna domandare, cercare, senza stancarsi mai (come dice Luca al cap. 18).

Calvino diceva: “La preghiera è il principale esercizio della fede; per mezzo di essa riceviamo quotidianamente i benefici di Dio”. La perseveranza, dunque, è la violenza che dobbiamo fare a noi stessi se vogliamo veramente diventare uomini e donne di preghiera. Chi non è capace di chiedere? Chi non è capace di bussare, di cercare? Tutti, in un modo o nell’altro, siamo mendicanti. «Chiedete, cercate, bussate; riceverete, troverete, vi sarà aperto». Il Signore ci fa passare dai bisogni che abbiamo al bisogno che siamo. Se abbiamo bisogno dei suoi doni, siamo soprattutto bisognosi di lui.

Quante domande, quanti dubbi, di fronte ad un gesto così semplice, a un atteggiamento persino così scontato per un credente, come quello di pregare Dio e tutto ciò che questo possa significare (invocarlo, ringraziarlo, supplicarlo, ascoltarlo o chissà cos’altro).

Ad esempio: cosa rispondere allora alle legittime obiezioni della donna e dell’uomo di oggi che ci chiedono dov’è Dio quando si trovano di fronte alle tragedie immotivate che la vita può porci dinnanzi, o anche solo al banale non-senso della vita, al vuoto afono e crudo di molti vissuti, che nascondono in maniera mal celata una profonda sofferenza, un male di vivere così attuale?

E poi: se chiedo a Dio di intervenire in una situazione difficile (una malattia o altro) o in qualunque altra situazione della vita, non affermo forse, almeno implicitamente, che Dio ha bisogno di essere, diciamo così, sollecitato, attraverso la mia preghiera, a intervenire là dove, forse, di sua iniziativa, non sarebbe intervenuto, o perché indifferente o incapace?

In altre parole: Dio agisce nella nostra vita solo se e in quanto glielo chiediamo, oppure agisce indipendentemente da qualunque preghiera? La nostra preghiera è davvero così potente da destare e mettere in movimento o addirittura modificare la volontà di Dio? E quindi, in fin dei conti, che senso ha pregare? C’è qualche possibilità – almeno una – di ottenere ciò che si chiede, o invece serve solo come esercizio di pietà, come atto di fiducia e abbandono in Dio, ma non può in alcun modo condizionare la volontà di Dio?

Sono domande grandi, alle quali provo a rispondere così.

L’idea che la nostra preghiera possa rivelare una passività o addirittura una «incapacità» di Dio è del tutto estranea all’orizzonte della fede cristiana. La preghiera infatti non nasce principalmente del bisogno umano (che pure c’è), ma dalla promessa divina (che è la vera sorgente della preghiera). Non è la preghiera che mette in movimento la volontà di Dio, ma è la promessa di Dio che mette in movimento la preghiera. È perché Dio ha promesso di essere il nostro Dio – cioè il Dio per noi, oltre che con noi e persino in noi – è per questa promessa che gli rivolgiamo con fiducia le nostre preghiere. È sulla sua Parola, è proprio perché ha detto «Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate, e vi sarà aperto», che noi, fidandoci di queste parole, chiediamo, cerchiamo e bussiamo. È la promessa di Dio che ci rende audaci, e ci fa chiedere a Dio quello che Dio promette. La nostra preghiera quindi non rivela affatto un Dio indifferente, ma, al contrario, un Dio promettente, la cui promessa anticipa e autorizza ogni nostra richiesta.

Io credo, lo dico con umiltà, che la preghiera dell’uomo possa, e so di usare un termine non corretto, in qualche modo modificare la volontà divina. Non che la volontà umana possa imporsi a quella divina («sia fatta la tua volontà», diciamo nel «Padre Nostro», non la nostra), ma la volontà di Dio non è rigida e irremovibile, al contrario è duttile, flessibile, ospitale, e volentieri fa posto alla domanda dell’uomo: non perché deve farlo, ma perché può e vuole farlo. Dio non è una statua celeste né una sfinge impassibile. Perciò la preghiera sincera della fede, quella del cuore e non delle labbra soltanto, è capace, come diceva Lutero, di «smuovere la grazia di Dio». Diverse volte, nella Bibbia, si parla di un Dio che «si pente» del castigo che voleva infliggere a Israele e lo perdona: «si ricordò del suo patto con loro e nella sua gran misericordia si pentì» leggiamo al Salmo 106. Anche Gesù ha cambiato idea a motivo della preghiera insistente della donna cananea. Dio ascolta («l’Eterno è stato attento ed ha ascoltato» abbiamo prima letto dal libro di Malachia) e risponde («mediante prodigi tu ci rispondi» dice il Salmo 65).

Certo, ci sono tante preghierE non esaudite. Chi prega, forse da anni, per una certa cosa, e non l’ottiene, sa che cosa significa «preghiera non esaudita». Ci si aggrappa alla promessa, ma l’esaudimento non viene. È un’esperienza amara: si ha l’impressione di pregare invano. È vero però che preghiera non esaudita non vuol dire preghiera non ascoltata. E neppure preghiera senza risposta. Solo che la risposta può essere così diversa da quella che ci aspettavamo, che ci riesce difficile riconoscerla come risposta. È comunque un fatto che c’è anche un silenzio di Dio.

E di fronte al silenzio del Signore, può nascere lo scoramento, la delusione, l’abbandono di ogni forma di fede.

Un’esperienza traumatica, quella del silenzio di Dio, che va presa sul serio, senza cercare di giustificare Dio ma anche senza ricorrere alle facili scorciatoie devozionali che un certo tipo di spiritualità propone riguardo al dolore e alla sofferenza. Gesù Cristo, esortandoci a chiedere a Dio qualsiasi cosa, ha forse esagerato? Avrebbe fatto meglio a promettere di meno? Certo, per un credente, quel silenzio resta un mistero: e a volte è davvero difficile continuare a credere che Dio sia anche un “padre” amorevole e sollecito.

Mi è capitato tra le mani un libretto, un capolavoro pubblicato nel 1946 dal titolo “Yossl Rakover si rivolge a Dio”. Si tratta dell’ultimo messaggio scritto da un ebreo, Yossl Rakover appunto, nel ghetto di Varsavia, mentre il cerchio della morte nazista si stringeva, minuto dopo minuto, intorno a lui. Sentite le sue parole, che il filosofo Levinas aveva definito “un salmo moderno”, nel quale “tutti noi superstiti riconosciamo con sbalordito turbamento la nostra vita”: “Ti voglio chiedere Dio, e questa domanda brucia dentro di me come un fuoco divorante: che cosa ancora sì, che cosa ancora deve accadere perché Tu mostri nuovamente il tuo volto al mondo? Ti voglio dire in modo chiaro e aperto che ora più che in qualsiasi tratto precedente del nostro infinito cammino di tormenti, noi torturati, disonorati, soffocati, noi sepolti vivi e bruciati vivi, noi oltraggiati, scherniti, derisi, noi massacrati a milioni, abbiamo il diritto di sapere: dove si trovano i confini della Tua pazienza?”.

Sono parole durissime, che dovrebbero farci riflettere anche sulle immani tragedie dei nostri giorni, così vicine a noi. La Parola della promessa, a cui noi credenti ci affidiamo, ci dice che affidarsi a Dio non è mai sbagliato; la vita di Gesù, a cui noi credenti guardiamo, ci dice che affidarsi a Dio non è mai sbagliato. Io credo, per parte mia, che a Dio possiamo chiedere ogni cosa, ma questo non vuol dire che dobbiamo ottenere ogni cosa. Lo ripeto: affidarsi a Dio non è mai sbagliato. Ma proprio l’esperienza stessa di Gesù ci insegna che «una cosa è chiedere, un’altra è pretendere», aspettandosi un esaudimento automatico e quasi magico. Gesù ha chiesto che bere il calice amaro gli fosse risparmiato, ma non lo ha preteso. Ciò che veramente Dio non nega mai a chi glielo domanda con cuore sincero è lo “Spirito Santo”, dice il testo di Luca, ossia la forza di continuare ad amare e accettare di essere amati anche attraverso le prove più dolorose e drammatiche della vita.

Capisco però che ci si può stancare di credere. Ci si può stancare di Dio. Si può abbandonare la partita, si può, come si dice, perdere la fede. È successo anche a Gesù, non di perdere la fede, ma di perdere discepoli: «Molti dei suoi discepoli si ritrassero indietro e non andavano più con lui» (c’è scritto nel vangelo di Giovanni). C’è chi di fronte alle sofferenze del mondo e della vita, nella morsa della contraddizione tra ciò che crede e ciò che vede, non ce la fa più a continuare a credere, «sperando contro ogni speranza» come dice Paolo nella lettera ai Romani. È una cosa tristissima, una sconfitta per l’uomo e per Dio, ma succede. Che dire? Non c’è nulla da dire, c’è solo da portare, con chi non ce la fa più, un po’ del peso delle prove che sembrano aver spento in lui, almeno per ora, la fiamma della fede. Niente di più e niente di meno.

Però, proprio come insegna la vicenda di Cristo, dopo una morte ci può essere una resurrezione. Vale per la vita umana, vale per l’amore, può valere anche per la fede. Come ci può essere un venerdì santo della fede – “speravamo che fosse lui, Gesù, che avrebbe riscattato Israele!” dicono i discepoli di Emmaus “e invece…” – così la fede può risorgere, come è risorta quella dei suoi discepoli davanti alla tomba vuota, davanti al corpo risorto, davanti allo spezzare in pane insieme.

Nell’evangelo, come nella vita, la morte c’è, ma non ha l’ultima parola. Dopo il venerdì santo ci sarà la domenica di risurrezione. Nel frattempo, vorrei dire così, viviamo il sabato; Gesù è morto il venerdì ed è risuscitato all’alba della domenica.  In mezzo c’è il sabato con i nostri dubbi, i nostri tentennamenti, i nostri slanci e le nostre paure.  Il sabato può essere pieno di incredulità, di sano realistico cinismo (“così va il mondo, è sempre stato così”).  L’incredulità ha naturalmente il suo fascino: sembra una vittoria dell’intelligenza critica sulla fede equiparata a superstizione, o anche una legittima protesta contro un Dio deludente. Ma l’incredulità è piuttosto una sottile tentazione in agguato lungo il cammino della nostra vita, soprattutto nei suoi momenti critici. Non è un caso che l’ultima richiesta del Padre Nostro sia: «Liberaci dal Maligno», che significa anzitutto «Liberaci dalla tentazione di non credere più in te»; in altre parole: «Fa’ che non disperiamo mai di te».

Iddio lo voglia per tutti noi.

Amen

Fabio Barzon

Sermone: LUX LUCET IN TENEBRIS

Sermone della pastora Ulrike Jourdan predicato il 24.6.2018 a Torre Pellice in occasione della Conferenza del II Distretto e riproposto oggi durante il culto a Padova.  Lettura: 1 Giovanni 1,5-2,6

Luce e tenebre: sono queste le due parole forti che risuonano nel testo della prima lettera di Giovanni che abbiamo già ascoltato. È speciale per me poter predicare su un tema del genere in questa chiesa particolare e in questa zona d’Italia così ricca di storia per la vita delle nostre chiese. Quando si parla qui di luce e tenebre, chi non corre subito con il pensiero al simbolo del candelabro con le sette stelle dove sta scritto: Lux lucet in tenebris?

Leggo ancora una volta la parte iniziale del nostro testo. Giovanni scrive:

5 Questo è il messaggio che abbiamo udito da lui e che vi annunziamo: Dio è luce, e in lui non ci sono tenebre.  6 Se diciamo che abbiamo comunione con lui e camminiamo nelle tenebre, noi mentiamo e non mettiamo in pratica la verità7 Ma se camminiamo nella luce, com’egli è nella luce, abbiamo comunione l’uno con l’altro, e il sangue di Gesù, suo Figlio, ci purifica da ogni peccato.

Da bambina, nei campi per giovani della chiesa metodista in Germania, ho cantato spesso un inno che diceva: “Siamo fieri di essere valdesi e diciamo: Lux lucet in tenebris!”

Vi confesso che non sapevo neanche chi fossero questi valdesi, ma l’inno mi piaceva e l’ho cantato a squarciagola.

Eppure, a parte i ricordi d’infanzia e un po’ di folklore, penso che faccia bene porre e porci sempre di nuovo la domanda: che cosa vuol dire per noi, che cosa vuol dire per me vivere nella luce di Dio? Che cosa simboleggia questo candelabro per la mia vita? In quale ambito della mia vita ha diritto di essere presente questa luce?

Per capire meglio il testo, ci è forse d’aiuto guardare un po’ nella storia di questa breve lettera. La prima lettera di Giovanni viene scritta con molta probabilità per intervenire in una situazione di conflitto; la giovane comunità, alla quale è indirizzata, è stata posta dinnanzi ad insegnamenti che determinano insicurezza nei credenti: idee “strane” su come intendere la fede e interpretare il ruolo di Gesù Cristo per la fede. Nella chiesa vi erano probabilmente persone che pensavano di aver trovato la loro via verso la salvezza – e Gesù Cristo c’entrava poco con questa via.

Mi sembra che, con tutte le opportune differenze, si tratti di un tema molto attuale per la vita delle nostre chiese. Quante volte sento dire: voi valdesi (e anche i metodisti) siete una chiesa buona e onesta, siete brava gente, anch’io vi do l’8 per mille!

Può fare piacere sentirlo. Ci stimola a investire in progetti sociali e culturali che ci danno buona visibilità, che ci mettono in una buona luce; e talvolta, diciamolo, fa star bene guardare a sé stessi in questa luce, sentirsi buoni, bravi e in qualche modo anche importanti.

Dobbiamo però renderci conto che questa luce, nella quale ci crogioliamo e ci sediamo beati, non ha niente a che fare con la luce della quale parla il nostro testo biblico. La prima lettera di Giovanni ci ricorda che il cammino nella luce è collegato alla purificazione da ogni peccato tramite il sangue di Gesù.

Avete provato ultimamente a parlare con qualcuno del peccato? Non intendo con qualcuno delle nostre chiese, forse in uno studio biblico, ma con qualcuno all’esterno delle nostre comunità. Potete immaginarvi che faccia possono fare le persone che ci hanno appena detto che siamo brava gente, una chiesa moderna e affascinante, quando parliamo loro del peccato? – Una specie di shock! Il peccato non è né moderno né affascinante. Per la maggior parte delle persone il peccato è qualcosa di vecchio, di cui sarebbe meglio non parlare. Del peccato parlano solo i fondamentalisti.

Conoscete queste reazioni?

Il nostro testo biblico dice invece che nella luce di Cristo si cammina nella prospettiva di essere purificati dal peccato. In buona sostanza, c’è la convinzione di non potersi avvicinare a Dio tenendosi addosso tutto il peso e l’impurità del peccato. Per questo anche noi confessiamo ogni domenica i nostri peccati nel corso del nostro culto, perché sentiamo il bisogno di liberarci e di prepararci alla presenza di Dio. E come dice il nostro testo: nella luce di Dio si può stare soltanto lasciandosi purificare e liberare dal peccato. Ma il nostro brano prosegue:

8 Se diciamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi, e la verità non è in noi.  9 Se confessiamo i nostri peccati, egli è fedele e giusto / da perdonarci i peccati /e purificarci da ogni iniquità.  10 Se diciamo di non aver peccato, lo facciamo bugiardo, e la sua parola non è in noi.

1 Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate; e se qualcuno ha peccato, noi abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo, il giusto2 Egli è il sacrificio propiziatorio per i nostri peccati, e non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo. 

Il peccato e il suo superamento, la giustificazione è sempre stato il grande tema delle chiese riformate. È il primo tema che affronta il Catechismo di Heidelberg sotto il titolo “la miseria dell’uomo”. E con ogni nuovo catecumeno è la prima pietra d’inciampo. Per presentare ciò che nella parte finale di questo bellissimo testo della Riforma viene riassunto sotto il titolo di “la gratitudine dell’uomo” non serve la metà, ma neanche un terzo del tempo che si impiega all’inizio, dove si parla del peccato e della miseria che si devono riconoscere per poter vivere e morire felicemente. È un tema che si scontra con il pensiero e il sentire di oggi, che grosso modo afferma: l’importante nella vita è comportarsi bene!

Pensateci bene, forse è questa la grande filosofia di oggi: non importa a chi rivolgi la tua preghiera, l’importante è come ti comporti. Un po’ di pace e amore fa sempre bene e per il resto cerca di non comportarti male. Questo è il credo che si sente oggi e diciamocelo: influenza anche noi. Questo è il credo di gran parte del mondo che ci circonda. Non fare niente di male, così andrà tutto bene.

Solo per intenderci: io non ho niente contro la pace e l’amore, e sono ben contenta se la gente si comporta bene, però dobbiamo renderci conto che questo comportamento semi-religioso non ha a che fare con la luce di Cristo di cui ci parla la Scrittura. Nella prima lettera di Giovanni leggiamo che siamo bugiardi e inganniamo noi stessi se diciamo di non essere peccatori. E questo nostro essere peccatori emerge alla luce di Cristo.

Vi ho già detto prima della reazione di vari catecumeni quando affrontiamo questo tema. Penso a persone adulte, che si avvicinano alle nostre chiese proprio perché vedono in noi gente onesta e brava e considerano la nostra chiesa più democratica e moderna rispetto ad altre. Queste stesse persone rimangono spesso scioccate nel sentirsi dire: sei un peccatore! Ci vogliono settimane, talvolta dei mesi, per poter dire che la cosa fondamentale non è la buona luce nella quale noi, come esseri umani, siamo capacissimi di metterci, ma, al contrario, la luce di Dio che mostra tutto ciò che non va, mostra la nostra distanza e diversità da Dio. Come già ho detto: non è un concetto facile da cogliere o da accettare per le persone di oggi, eppure, devo dire, pur nella mia breve esperienza, con tutti i catecumeni si arriva anche al punto in cui si sperimenta la liberazione e si cambia prospettiva.

Non devo essere IO buono, non devo essere IO a realizzare tutto, non devo procurarmi IO la salvezza attraverso un atteggiamento pacifico e amorevole. Se accettiamo di metterci sotto la luce di Cristo, allora emergono tutti quei lati che avremmo voluto lasciare nell’oscurità, emerge quanto siamo centrati su noi stessi, quanto tutto ruoti intorno a quell’IO.

Ma Giovanni scrive: noi abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo, il giusto.

La luce di Cristo è dolce, è una luce che ti mette in buona luce. Non siamo noi a dovercela procurare, non dobbiamo fare veder noi quanto siamo bravi e buoni, è la luce buona e benevola di Cristo che splende sulle nostre vite e sul nostro cammino.

Giovanni prosegue il suo discorso scrivendo:

3 Da questo sappiamo che l’abbiamo conosciuto: se osserviamo i suoi comandamenti4 Chi dice: «Io l’ho conosciuto», e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo e la verità non è in lui; 5 ma chi osserva la sua parola, in lui l’amore di Dio è veramente completo. Da questo conosciamo che siamo in lui: 6 chi dice di rimanere in lui, deve camminare com’egli camminò.

Osservare i comandamenti, camminare sulla via di Cristo. Qualcuno potrebbe dire: adesso siamo arrivati dov’eravamo prima. Ci vuole comunque una vita che prenda forma dai comandamenti, serve comunque agire bene, essere onesti, pacifici, amorevoli ecc. ecc.

No, è tutto diverso. Perché chi cammina veramente con Cristo sotto la sua luce non lo fa per….. Chi osserva veramente i comandamenti, chi ama veramente e chi è veramente portatore di pace non lo è per….. La logica del nostro mondo ci dice: tu fai e poi guadagni. Invece Cristo ci dice: lasciati prima servire e poi sei libero di rispondere.

Chi cammina insieme a Cristo, sotto la sua luce, non deve fare per qualcosa, ma può fare perché è libero da quelle logiche che vorrebbero determinarci. Chi cammina nella luce di Cristo non deve più guadagnarsi la salvezza.  È già salvo e può condividere ciò che ha ricevuto con il mondo. Chi cammina nella luce di Cristo ha sperimentato la pace e il grandissimo amore di Cristo e così non può fare diversamente se non essere a sua volta portatore di pace e di amore per questo mondo.

È questa luce forte e dolce, chiara e calda che sento quando guardo il simbolo del candelabro con la scritta ‘lux lucet in tenebris’. Nelle tenebre di questo mondo, nelle tenebre della mia vita splende una luce.

Spesso non sappiamo in quale direzione ci poterà il nostro cammino come singoli e come chiesa, però sotto questa luce non ho paura di affrontare la strada. Questa luce mi aiuta a vedere chiaramente i miei limiti, ma toglie contemporaneamente lo sguardo da essi e porta verso il futuro, un futuro sotto la luce di Dio.

Amen

past. Ulrike Jourdan