Sermone: EMPATIA

Apocalisse 2, 8-11

Cari fratelli e sorelle, nella lettura biblica che abbiamo appena ascoltato, ricorre il termine “sinagoga di Satana”: “quelli che dicono di essere Giudei e non lo sono ma sono una sinagoga di Satana”. Quest’ultima affermazione, particolarmente dura, “Sinagoga di Satana”, è stata utilizzata varie volte per indicare, in ambienti fondamentalisti ed estremisti, di varia matrice, sia gli Ebrei che la Massoneria. E questo perché la seconda, la Massoneria, veniva vista come un’entità malvagia, che voleva distruggere la Chiesa Cattolica ed era guidata, appunto, dagli Ebrei. Il famoso complotto “pluto demo giudaico” di cui si sono nutrite le varie dittature fasciste a partire dagli anni ’20 e di cui, purtroppo, continuano ancora a farlo, ancora ai giorni nostri, numerosi gruppi che a tali ideologie demoniache si rifanno. Difatti, questo pregiudizio, è maledettamente ancora vivo ai nostri giorni: basti pensare, ultima in ordine di tempo, alla strage, avvenuta qualche settimana fa negli Stati Uniti, nella sinagoga di Pittsburgh, in Pennsylvania. Nella quale l’attentatore, un fanatico suprematista bianco, in vari post sul suo profilo Facebook definiva, a più riprese, gli Ebrei come “figli di Satana”, “popolo di Satana”. Naturalmente, cari fratelli e sorelle, questa ed altre, sono frutto di una lettura biblica alquanto superficiale per non dire volutamente piegata alle proprie idee e pregiudizi. Una lettura di comodo, che prende alla lettera la Parola di Dio senza porsi alcuna considerazione esegetica o, semplicemente, di traduzione corretta dall’ebraico o, come in questo caso, dal greco. Una lettura proprio da frequentatori della “Sinagoga di Satana”.

Una lettura invece rispettosa della parola di Dio, ci dice che il vero Giudeo non è colui che anagraficamente fa parte di Israele. L’apostolo Paolo lo dice espressamente nell’Epistola ai Romani 2:28-29: “Giudeo infatti non è colui che è tale all’esterno; e la circoncisione non è quella esterna, nella carne; ma Giudeo è colui che lo è interiormente; e la circoncisione è quella del cuore, nello spirito, non nella lettera; di un tale Giudeo la lode proviene non dagli uomini, ma da Dio”. Ecco chi è il vero Giudeo. Non più colui che porta un segno esteriore nella carne, come la circoncisione, ma colui che è soggetto alla legge dell’amore. Ovvero, al comandamento che nostro Signore Gesù Cristo ci ha dato rispondendo ad un fariseo che, dopo aver visto come aveva sistemato i sadducei che non credevano nella resurrezione, credendo quindi che Gesù appoggiasse i farisei, gli chiese «Maestro, qual è, nella legge, il gran comandamento?». E Gesù gli rispose chiaramente “Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. Questo è il grande e il primo comandamento. Il secondo, simile a questo, è: “Ama il tuo prossimo come te stesso”. Da questi due comandamenti dipendono tutta la legge e i profeti». Ecco fratelli e sorelle, questo è il nuovo patto stipulato con Dio e santificato dal sangue di Suo Figlio: non più il rispetto “legalistico” di determinate norme cosiddette di “purezza”, ben evidenti nell’Antico Testamento, quali, ad esempio, le famose norme alimentari in merito ai cibi ma non solo. Ma “Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. Non solo a parole quindi! E “Ama il tuo prossimo come te stesso”. Lo abbiamo visto chiaramente nella lettura biblica di oggi, in Matteo 25 “in quanto lo avete fatto a uno di questi miei minimi fratelli, l’avete fatto a me”. Dinanzi al Signore, quindi, colui che fa parte del “vero Israele” è colui che ha un cuore circonciso nello spirito. Ma cosa significa avere un cuore circonciso? Significa avere un cuore disposto all’ubbidienza, unito al Signore. Così certo non era e non è per quelle persone che si proclamano religiose ma in realtà sono prive di qualsiasi forza di vita, di una vita che procede dal Signore. Farisei, sepolcri imbiancati. Ecco cosa sono. Come ben li definisce Gesù in Matteo 23: “belli di fuori, ma dentro … pieni d’ossa di morti e d’ogni immondizia… di fuori sembrate giusti alla gente ma dentro siete pieni d’ipocrisia e d’iniquità… ipocriti, perché pagate la decima … e trascurate le cose più importanti della legge: il giudizio, la misericordia, e la fede”. L’invito che il Signore Iddio ci rivolge tramite la Sua parola è quindi chiaro, cari fratelli e sorelle, e lo vediamo anche in Matteo 7: “Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli”. Fatti, non parole! Agisci, datti da fare. “Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. Non solo a parole! Fai la volontà di Dio. Aiuta il tuo prossimo! Non perdere tempo in chiacchiere inutili. Non venire a batterti il petto in chiesa e a cantare le lodi al Signore se non hai adempiuto prima alla Legge dell’Amore. E, soprattutto, non commiserarti. Non commiserarti.

Infatti, nella nostra lettura biblica di oggi abbiamo sentito chiaramente dire “io conosco … la tua povertà (tuttavia sei ricco)”. Tuttavia sei ricco. Smettila quindi di lamentarti e datti da fare. Se credi veramente nel Signore Egli è qui con te e più grande ricchezza non puoi avere! Dice infatti Gesù nell’Evangelo di Matteo 17,20: “In verità io vi dico: se avete fede quanto un granello di senape, potrete dire a questo monte: “Passa da qui a là”, e passerà; e niente vi sarà impossibile”. Niente vi e ci sarà impossibile se abbiamo fede in Dio. Ma per farlo non dobbiamo cadere nelle calunnie e farci impressionare dalle offese, dalle maldicenze, dai fastidi e da tutto il male che potrà venire contro di noi da parte “di coloro che si dicono Giudei e non lo sono”. Ovvero, da chi si definisce cristiano, figlio di Dio, e lo è solo a parole. Ma non lo è nel cuore, non lo è nei fatti. Quante volte, cari fratelli e sorelle, nei social network, tanto per fare un esempio fra i tanti, troviamo persone che commentano “affoghiamoli tutti”, “bruciamoli vivi”, oppure esultare per le morti in mare o denigrare ed insultare disabili e malati. Oppure “accoglili tu, buonista”. O, ancora, scandalizzarsi perché due uomini o due donne si baciano e invocare il rogo come ai tempi, evidentemente a loro assai cari, della Santa Inquisizione. E poi, fra le foto e i post del loro profilo Facebook, troviamo le immagini di Nostro Signore, della Vergine Maria e dell’immancabile Padre Pio? “Gesù ti amo”, “Gesù benedicimi” dicono. “Via da me, maledetti, nel fuoco eterno” risponde Gesù. “Via da me, maledetti, nel fuoco eterno” Perché Gesù non usa mezzi termini, non te le manda a dire. Va dritto al sodo.

Che fare quindi con costoro? Come dobbiamo comportarci nei loro confronti? Chiuderci forse in noi stessi, pieni di rabbia e rancore, consolandoci nel fatto di essere giusti? Dicendo e dicendoci “Io sono un vero cristiano, non come quello o quella”? No! Assolutamente no! Smettila di lamentarti e inizia a testimoniare. Testimoniare la parola di Dio con le opere, con i fatti. Altrimenti sarai come loro, i “non Giudei”, “la sinagoga di Satana”. Coloro che predicano bene e razzolano male, molto male, tanto per citare una nota saggezza popolare. “Ma facendo così mi esporrò ancora di più alle critiche e alle prese in giro!” potremmo dire. “Sono stanco di replicare loro, tanto non capiscono e mi offendono”. Ma il Signore, come è scritto nella nostra lettura biblica di oggi, ci risponde “Non temere ciò che dovrai soffrire … Sii fedele fino alla morte e ti darò la corona della vita”. Ecco il premio. Un premio che non viene dato una volta sola. È un premio che dura per l’eternità. Un tempo per il quale vale la pena darsi da fare ora, adesso. Bisogna quindi ascoltare la parola che ci viene da Dio e però metterla poi in pratica. “Val più la pratica che la grammatica” dice un altro detto popolare. Quindi, cari fratelli e sorelle, “Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese”. Tutti abbiamo due orecchie ma, spesso e volentieri, ascoltiamo solo quello che vogliamo ascoltare. Non siamo cioè disposti ad accogliere i messaggi che ci vengono dall’esterno, dagli altri. In pratica, sentiamo, udiamo, ma non ascoltiamo veramente. E c’è una bella differenza! Noi sentiamo i rumori, sentiamo qualcuno che parla, ma non ascoltiamo. Perché ascoltare significa porre attenzione, mettersi in gioco, confrontarci con idee e situazioni che ci mettono spesso e volentieri in crisi. E alle quali non sappiamo rispondere. Non ascoltiamo perché, nella conversazione, nel dialogo, siamo troppo preoccupati e attenti, mentre l’altro ci parla, a pensare a cosa rispondergli. Non lo ascoltiamo veramente! Gli diamo l’impressione di ascoltarlo ma, in realtà, dentro di noi stiamo elaborando, stiamo preparando la risposta da dargli. Ma facendo così non lo abbiamo assolutamente ascoltato! Lo avremo sentito ma non compreso. Manchiamo quindi, cari fratelli e sorelle, spesso e volentieri, di quella che gli psicologi definiscono “empatia”. Ovvero, la capacità di porsi nella situazione di un’altra persona o, più esattamente, di comprendere immediatamente i processi psichici dell’altro.

Non è facile sicuramente essere empatici. Ma è necessario farlo se vogliamo una sana e pacifica convivenza. Capire e comprendere realmente l’altro. A questo siamo chiamati noi cristiani. Non ci chiamiamo forse l’un l’altro “fratelli e sorelle”? Non siamo forse figli di un solo Dio? Abbiamo o no un Padre comune? Dobbiamo quindi cercare di diventare empatici. Ma dobbiamo esserlo anche nei confronti della Parola di Dio. Infatti, l’ultimo versetto della nostra lettura biblica odierna, ci dice chiaramente “chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese”. Dove per “chiese” dobbiamo leggere “noi”. Perché la Chiesa siamo noi. Non una gerarchia di persone, non chi ha responsabilità più o meno grandi nella gestione delle comunità cristiane. “Una Chiesa di pietre vive” dunque, come scritto chiaramente nella Prima Lettera di Pietro 2,5 “anche voi, come pietre viventi, siete edificati per formare una casa spirituale, un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali, graditi a Dio per mezzo di Gesù Cristo”. Pietre vive che tengono assieme l’edificio, la comunità. Dove ognuno, ognuno di noi, ogni pietra, è importante. Perché se viene a mancare cade tutto o comunque il danno si vede. Pietre vive, non morte. Pietre che hanno la loro funzione, il loro compito. Così dobbiamo quindi essere noi, cari fratelli e sorelle: vivi e non morti. Con voglia di fare, di agire, di mettere in pratica la Parola di Dio e non solo di parlare. Fatti e non parole. Siamo pieni di gente che parla ma che poi non conclude. Quale sarà quindi il nostro premio eterno per tutto ciò? “Chi vince non sarà certamente colpito dalla seconda morte” dice la parte finale della Parola di Dio di oggi. La seconda morte. Mi vengono in mente, cari fratelli e sorelle, le ultime parole del “Cantico delle creature” di Francesco d’Assisi: “Beati quelli che la troveranno (si riferisce alla morte del corpo) mentre stanno rispettando le tue volontà perché la seconda morte, non farà loro alcun male”. La seconda morte, ovvero la morte dell’anima. Dopo la morte del corpo, l’anima sopravvive ed aspetta il giudizio divino. E noi saremo giudicati non in base ai nostri peccati ma sull’Amore. Quanto amore avremo dato agli altri, quanto bene avremo fatto. Ti sei dato da fare o hai solo parlato? Questo ci chiederà nostro Signore al momento del giudizio finale. “Chi vince non sarà certamente colpito dalla seconda morte”. Dobbiamo quindi “vincere”. Vincere le nostre paure, le nostre perplessità ad uscire da quella che gli psicologi chiamano “area comfort” o “zona comfort”. Il nostro piccolo recinto che ci siamo creati per stare bene con noi stessi ma che, essendo appunto un recinto, tiene fuori gli altri. Li tiene lontani perché ci possono disturbare, ci danno fastidio. Non ci permettono di vivere in maniera confortevole.

Pensiamoci bene cari fratelli e sorelle. Diamoci da fare. Abbattiamo questo recinto e accogliamo empaticamente l’altro da noi. Ci aspetta il premio eterno!

Amen

Daniele Rampazzo

Sermone: LE PASSIONI DI PAOLO

Sono sempre stato affascinato dalla figura dell’apostolo Paolo. Un uomo sempre al limite, al limite tra culture diverse (lui ebreo e romano), tra terre diverse (quanto ha vagato tra i paesi che oggi si chiamano Israele, Siria, Turchia, Grecia, Italia), con un carattere dolce ma anche impetuoso (quanta tenerezza si rivela nelle sue lettere per le comunità da lui fondate o visitate, e quante tensioni con Barnaba o con altri apostoli).

Ma più di tutto, di Paolo, mi ha sempre colpito la sua passione per Dio, o meglio le sue due diverse, anzi opposte passioni per Dio. È questa una delle caratteristiche maggiori dell’apostolo Paolo, il fatto che nella sua vita, nella sua esperienza, ci sono state due passioni per Dio: la passione del fariseo Saulo e la passione dell’apostolo Paolo.

Tra queste due passioni c’è l’evento decisivo e misterioso di Damasco, cioè la sua conversione. Riacquistata la vista dopo tre giorni di cecità, Paolo ha ora una nuova visione di Dio e dell’uomo: vede finalmente quello che non aveva visto prima. Praticamente questa conversione è una morte e una risurrezione: muore una passione per Dio, la passione del fariseo, e nasce una nuova passione, diversa, anzi opposta a quella precedente, che è la passione dell’apostolo.

Noi dobbiamo prendere coscienza di queste due passioni, sono tutte e due passioni per Dio, ma sono l’una il contrario dell’altra. Non è che una sia la passione per il mondo e l’altra la passione per Dio; no, sono entrambe passioni per Dio, ma l’una è il contrario dell’altra. E la conversione di Paolo è la conversione da una passione all’altra.

Paolo racconta nella Lettera ai Filippesi questa morte e questa risurrezione. Leggo Fil 3,2-13:

«Guardatevi dai cani, guardatevi dai cattivi operai, guardatevi da quelli che si fanno mutilare; perché i veri circoncisi siamo noi, che offriamo il nostro culto per mezzo dello Spirito di Dio, che ci vantiamo in Cristo Gesù, e non mettiamo la nostra fiducia nella carne; benché io avessi motivo di confidare anche nella carne. Se qualcun altro pensa di aver motivo di confidarsi nella carne, io posso farlo molto di più. Io, circonciso l’ottavo giorno, della razza d’Israele, della tribù di Beniamino, ebreo figlio d’Ebrei; quanto alla legge, fariseo; quanto allo zelo, persecutore della chiesa; quanto alla giustizia che è nella legge, irreprensibile. Ma ciò che per me era un guadagno, l’ho considerato come un danno, a causa di Cristo. Anzi, a dire il vero, ritengo che ogni cosa sia un danno di fronte all’eccellenza della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho rinunciato a tutto. Io considero queste cose come tanta spazzatura al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui non con una giustizia mia, derivante dalla legge, ma con quella che si ha mediante la fede in Cristo: la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede. Tutto questo allo scopo di conoscere Cristo, la potenza della sua risurrezione, la comunione delle sue sofferenze, divenendo conforme a lui nella sua morte, per giungere in qualche modo alla risurrezione dei morti. Non che io abbia già ottenuto tutto questo o sia già arrivato alla perfezione; ma proseguo il cammino per cercare di afferrare ciò per cui sono anche stato afferrato da Cristo Gesù».

Che cosa apprendiamo subito di molto importante da questo fatto?

Apprendiamo che c’è una passione per Dio che Paolo ad un certo punto considera spazzatura, zavorra, cose da eliminare dalla sua vita. E c’è una nuova passione che sconvolge, sì, la sua vita, ma nello stesso tempo diventa una fonte inesauribile di benedizione e di tribolazione. Sì, anche di tribolazione, perché benedizione e tribolazione vanno insieme. Una passione per Dio nella quale quello che costituiva il suo vanto, cioè la sua giustizia, il suo zelo, la sua appartenenza alla tribù del popolo eletto, la sua stessa fede vissuta come completa sottomissione alla Legge, tutto ciò Paolo lo ha abbandonato, e lo ha sostituito con un nuovo vanto, che non è più qualcosa di suo, ma è la croce di Cristo, che ha acceso la sua nuova passione per Dio.

Avviciniamoci ora un po’ di più a queste due passioni. Quella del fariseo Saulo la descriverei così: è la passione per Dio inteso come Legge, mentre la passione dell’apostolo Paolo è la passione di Dio inteso come Grazia. La differenza sostanziale tra queste due passioni sta appunto in questo: che la prima concepisce e vive la realtà divina come Legge (con la L maiuscola), mentre la seconda concepisce e vive la realtà di Dio come Grazia.

La prima passione, Dio come Legge, è una passione che troviamo sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento, ed una passione pericolosa, che condanna il peccatore assieme al peccato. Pensiamo alla Legge dell’interdetto che troviamo nel libro del Deuteronomio: «nelle città che Dio ti dà come eredità non conserverai in vita nulla che respiri, ma voterai a completo sterminio gli Hittiti, gli Amorrei, i Cananei, i Perizziti, gli Evei, i Gebusei, come l’Eterno, il tuo Dio, ti ha comandato di fare». Dio come Legge! La Legge era questa: per eliminare l’idolatria bisogna eliminare l’idolatra.

Oppure pensiamo al grande profeta Elia, che era rimasto il solo a seguire fedelmente il Dio d’Israele, mentre tutti gli altri erano diventati profeti del dio pagano Baal. Elia, dunque, dopo aver vinto il confronto con i 450 profeti di Baal, li fece arrestare e al torrente Kison, «li scannò». Dio come Legge, e la Legge era questa: «Il profeta che parlerà in nome di altri dèi sarà punito di morte».

La passione per Dio come Legge è quella che induce gli scribi e i farisei a raccogliere pietre per gettarle sull’adultera; e lo avrebbero fatto, se Gesù non avesse fatto il discorso che conoscete e non avesse impedito questa lapidazione. Dio come Legge! E La legge era questa: «Quando si troverà un uomo a giacere con una donna maritata ambedue morranno, così toglierai il male da mezzo di Israele». La passione per Dio che diventa passione per la Legge, una passione che per eliminare il male non si ferma neppure di fronte alla vita umana; come dicevo prima, si condanna il peccatore assieme al peccato. Questa passione malata per Dio come Legge è in realtà una bestemmia, ma questa era la passione di Saulo per Dio prima della sua conversione.

Ora è vero che Dio ha dato una legge, ma è altrettanto vero che Gesù ha riassunto “tutta la Legge e tutti i profeti” nel doppio comandamento dell’amore (“Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente, e il secondo – simile a questo – Ama il tuo prossimo come te stesso”), dicendo quindi che non c’è altra legge divina che la legge dell’amore. Dio dà la legge, ma non è legge. Nella Bibbia ci sono molte leggi, sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento, ma mai dice che Dio è Legge! Perciò la passione per Dio non può degenerare in passione per la Legge, come se Dio fosse Legge! Dio non è Legge, è Libertà; Dio non è Legge, è Misericordia; Dio non è Legge, è Amore. La passione per la Legge non può mai venire prima della passione di Dio per l’uomo, anche e ancora di più se peccatore.

E’ a questa verità cristiana elementare, che tutti conosciamo, che dobbiamo fare riferimento nelle nostre relazioni, nei nostri affetti, al lavoro, in casa, nel nostro annuncio di fede. Quante volte ho/abbiamo presentato Dio come Legge, così da trasformare il cristianesimo in una religione di permessi e di divieti, e il volto di Dio non è quello del Padre, ma quello del legislatore. Ma la Legge che Dio ci pone davanti, e che Gesù ha realizzato nella propria vita e morte, è quella Legge che l’apostolo Giacomo chiama «la legge perfetta, cioè la legge della libertà» – della libertà responsabile. Non dunque la legge che inchioda l’uomo nella sua colpa, reale o presunta, e lo condanna, ma la Parola che libera, l’evangelo che include.

Poniamoci con sincerità queste domande: di quale Dio sono/siamo appassionati? Del Dio legislatore o del Dio Padre? Qual è la caratteristica principale, il tratto saliente del Dio nel quale crediamo: la Legge o la misericordia? Riflettiamoci bene prima di rispondere. Siamo sicuri che il nostro Dio sia proprio Dio, o piuttosto una sua caricatura, e cioè la mia idea di Dio, quella che più mi piace, cioè quella del Dio giusto che punisce i malvagi e premia i buoni? Qual è il Dio che ci ha afferrato e che ci afferra oggi ancora? Qual è il Dio che ci ha vinto e convinto? Ancora una volta: di quale Dio siamo appassionati?

Ritorno al percorso di conversione di Paolo, così affascinante. Paolo aveva conosciuto e praticato con totale convinzione e dedizione la passione per il Dio-Legge. Poi era stato convertito, quasi a forza, suo malgrado e contro tutti i suoi piani, al Dio-Grazia, cioè al Dio amore e libertà, misericordia e accoglienza. C’erano nella Chiesa delle origini anche altri evangeli, altri modi di intendere il Dio di Gesù Cristo. Contro questi altri evangeli, che cercavano di combinare Legge e Grazia, salvezza per fede e salvezza per opere, amore gratuito di Dio e merito dell’uomo, rendendo irriconoscibile il vero volto di Dio, Paolo ha combattuto tutta la vita.

«Dio ha rinchiuso tutti nella disubbidienza per fare misericordia a tutti», dice Paolo ai cristiani di Roma. Misericordia di Dio non a qualcuno soltanto, o a molti ma non a tutti, come se qualcuno fosse fuori della misericordia di Dio. No, tutti stanno dentro questa misericordia, perché la misericordia di Dio è più grande della misericordia di tutti. E se è vero che tutti stanno dentro la misericordia di Dio, come posso io metterne fuori qualcuno? Tanto più che sono disubbidiente anch’io, come quelli che vorrei escludere: Dio ha infatti rinchiuso tutti «nella disubbidienza»! Anch’io lo sono, ed è soltanto perché io sono graziato che lo sei anche tu, soltanto perché lo sei tu che lo sono anch’io. La grazia è per me soltanto perché è anche per te, ed è per te soltanto perché è anche per me. Cioè Dio non vuole salvare me senza di te, e te senza di me.

Ecco perché la Chiesa non può essere altro che spazio di accoglienza e mai di esclusione. «Accoglietevi gli uni gli altri, come Cristo ha accolto voi per la gloria di Dio», ci dice sempre Paolo. Che cosa vuoi dire accoglienza? Vuoi dire fare posto all’altro, qui, vicino a me e a te, «come Cristo ha accolto noi». E’ cioè accoglienza senza misura, come nell’Ultima Cena, celebrata con Giuda. Quello è il modello di ogni accoglienza. Come la misericordia abbraccia tutti e non solo qualcuno, così l’accoglienza di Cristo è aperta a tutti; come siamo tutti graziati, così siamo tutti accolti. Questa è la profondità delle cose di Dio. Di questo Dio, Paolo era appassionato.

Ma Paolo non era un ingenuo innamorato di Gesù, un sempliciotto senza fondamenta. La sua passione per Dio, che diventerà passione di evangelizzazione del mondo, sarà, come dicevo all’inizio, fonte inesauribile di benedizione ma anche di tribolazione.

Nella seconda Lettera ai Corinzi, al capitolo 6, Paolo scrive: «In ogni cosa raccomandiamo noi stessi come servitori di Dio, con grande costanza nelle afflizioni, nelle necessità, nelle angustie, nelle percosse, nelle prigionie, nei tumulti, nelle fatiche, nelle veglie, nei digiuni; con purezza, con conoscenza, con pazienza, con bontà, con lo Spirito Santo, con amore sincero; con un parlare veritiero, con la potenza di Dio; con le armi della giustizia a destra e a sinistra; nella gloria e nell’umiliazione, nella buona e nella cattiva fama; considerati come impostori, eppure veritieri; come sconosciuti, eppure ben conosciuti; come moribondi, eppure eccoci viventi; come puniti, eppure non messi a morte; come afflitti, eppure sempre allegri; come poveri, eppure arricchendo molti; come non avendo nulla, eppure possedendo ogni cosa!».

Portare l’evangelo nel mondo è una cosa bellissima, ma faticosissima, perché il mondo non è ben disposto, non è amichevole, non accoglie volentieri la parola della croce. Come nella vita di Gesù, così anche in quella di Paolo, la passione per Dio è diventata un reale patire in mezzo ad una umanità, tutto sommato, ostile e refrattaria. Annunciare e vivere l’evangelo è fatica stupenda, ma costosa. Gesù è finito in croce, Paolo termina il suo ministero da solo, a Roma, abbandonato da tutti (anche dalla Chiesa, che cominciava a trovare eccessivo l’evangelo della grazia annunciato da Paolo), e in catene. La parola di Dio è vincente, ma crocifissa. Nella croce è la vittoria: è questo il paradosso della condizione cristiana in questo mondo. Ed è in questo modello di esistenza che si compie la passione per Dio di Paolo e di ogni cristiano.

Dio ci aiuti a coglier la sapienza di questa Parola, e ci aiuti a portare avanti, oggi, in questo nostro mondo, con i nostri limiti e la nostra passione per Lui, la sua volontà di amore per i suoi fedeli e per tutta l’umanità. Dio lo voglia per tutti noi.

Amen

Fabio Barzon

Sermone: LA RESURREZIONE DI LAZZARO

Appena Maria fu giunta dov’era Gesù e l’ebbe visto, gli si gettò ai piedi dicendogli: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto».

Quando Gesù la vide piangere, e vide piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, fremette nello spirito, si turbò e disse: «Dove l’avete deposto?» Essi gli dissero: «Signore, vieni a vedere!»

Gesù pianse. Perciò i Giudei dicevano: «Guarda come l’amava!»

Ma alcuni di loro dicevano: «Non poteva, lui che ha aperto gli occhi al cieco, far sì che questi non morisse?»  Gesù dunque, fremendo di nuovo in sé stesso, andò al sepolcro. Era una grotta, e una pietra era posta all’apertura.  Gesù disse: «Togliete la pietra!» Marta, la sorella del morto, gli disse: «Signore, egli puzza già, perché siamo al quarto giorno».  Gesù le disse: «Non ti ho detto che se credi, vedrai la gloria di Dio?»  Tolsero dunque la pietra. Gesù, alzati gli occhi al cielo, disse: «Padre, ti ringrazio perché mi hai esaudito. Io sapevo bene che tu mi esaudisci sempre; ma ho detto questo a motivo della folla che mi circonda, affinché credano che tu mi hai mandato».  Detto questo, gridò ad alta voce: «Lazzaro, vieni fuori!»  Il morto uscì, con i piedi e le mani avvolti da fasce, e il viso coperto da un sudario. Gesù disse loro: «Scioglietelo e lasciatelo andare».  Perciò molti Giudei, che erano venuti da Maria e avevano visto le cose fatte da Gesù, credettero in lui.  Ma alcuni di loro andarono dai farisei e raccontarono loro quello che Gesù aveva fatto. (Giovanni 11,32-46)

 

In questi giorni, passando davanti ai cimiteri, vediamo un gran brulicare di gente e se ci entriamo, vediamo una grande infiorata.

Certo, viviamo in un paese a maggioranza cattolica, una forma di cristianesimo nella quale è previsto e praticato il culto dei morti. Ma quello che mi colpisce è che a questa sorte di rito partecipano anche persone che magari si definiscono agnostiche e che non frequentano le chiese. Ma allora, perché un siffatto comportamento? Per tradizione e per abitudine, forse, ma forse non solo per questo.

Solo qualche giorno fa una persona si è stupita perché, chiedendomi quando sarei andata al cimitero così che lei avrebbe potuto venire con me ed accedere alla cappella della mia famiglia per portare dei fiori per i miei genitori e per mio marito, si è sentita rispondere che se proprio lo gradiva le avrei dato le chiavi, ma che io certamente non vado al cimitero se non molto raramente e solo per mantenere il decoro della tomba di famiglia, per dare una ripulita e magari togliere le erbacce, ma assolutamente mai per “andare a trovare” i miei familiari che sono trapassati. E lo stupore di costei è stato tanto più grande in quanto sa bene che io sono una persona di fede cristiana dichiarata.

Ma allora, perché, mi sono chiesta, in questi giorni tanto affanno intorno ai cimiteri?

Lascio intenzionalmente perdere il rispetto di una tradizione, perché sono ben felice anch’io di nutrire alcune tradizioni, purché abbiano un significato che riconosco come valido, che mi consente magari di rinnovare ricordi e riflessioni su fatti accaduti o su particolari significati. Ad esempio, per le nostre chiese valdesi e metodiste, il falò del 17 febbraio o il festeggiamento della giornata della Riforma. Oppure ancora l’accensione progressiva delle candele sulla corona d’Avvento.

Ma i morti nei cimiteri ci sono sempre e sempre dobbiamo confrontarci con il problema della morte, quella di coloro che ci sono stati cari, quella di coloro che non conosciamo, e anche la nostra. E non sono certo le infiorate che ci sollevano da una riflessione in merito, perché ciascuno di noi ha il dovere di porsi delle domande e di darsi delle risposte, anche sulla morte.

Fra i miei numerosi amici ce n’è uno che mi è molto caro, nonostante si professi assolutamente ateo. Parlo volentieri con lui e stimo molto la sua coerenza, soprattutto da quando mi ha detto che, proprio per il suo ateismo, ha formalizzato la richiesta di essere sbattezzato. Proprio da lui mi è arrivata una frase sulla morte che mi ha fatto riflettere: “Per chi ha fede è la vita, per un ateo è il paradiso del Nulla”.

Ma veniamo ora al nostro passo dell’evangelo di Giovanni, la resurrezione di Lazzaro.

Se ci pensiamo bene la resurrezione di Lazzaro è totalmente inutile (o almeno solo temporaneamente utile), ma potrebbe essere considerata anche ingiusta. Inutile perché Lazzaro, da essere umano, è comunque destinato a morire, come tutti noi. Ingiusta perché, con molto rispetto per il grande amico di Gesù, possiamo ritenere che nel medesimo periodo vi fossero altre buone persone che erano morte e non hanno avuto la medesima “fortuna” di Lazzaro di essere resuscitati.

Ma allora, che cosa vuol dirci Giovanni con questo episodio? Perché rappresentarci questa vittoria sulla morte? Certamente, come abbiamo sentito prima nella lettura di Matteo, Gesù è drastico sul concetto di morte corporale (“lascia che i morti seppelliscano i morti”). Quindi l’episodio della resurrezione di Lazzaro ha un’altra valenza.

Il fatto avviene a Betania, proprio nei pressi di Gerusalemme e Gesù coi discepoli non era lì quando è stato informato della morte dell’amico. Non era lì perché non solo non era ben accolto nella città santa, ma rischiava di essere vittima di lapidazione da parte dei Giudei. Insomma, andando verso Gerusalemme la sua sorte poteva dirsi segnata, come poi infatti è stato. E in proposito dobbiamo notare che Giovanni pone l’episodio di Lazzaro appena prima del racconto della congiura del sinedrio nei confronti di Gesù.

Notiamo anche che il racconto non ci riferisce di alcun culto del morto, non olii, non fiori, non preghiere sulla tomba di Lazzaro. Certo, parecchia gente e amici che si recavano a casa sua per portare consolazione alle sorelle, a coloro che vivevano quel momento di separazione, a coloro che erano ancora in vita!

Lazzaro sta nel sepolcro, un cadavere puzzolente, un corpo destinato a decomporsi, un inutile involucro dove non soffia più lo spirito della vita, non più una persona.

Gesù avrebbe potuto portare la propria consolazione a Marta e Maria. Oppure avrebbe potuto far resuscitare altre degne persone defunte. No, lo fa solo per Lazzaro. E lo fa non certo per lui, per il suo amico, bensì per coloro che sono ancora vivi, per coloro che, come spesso siamo noi, hanno bisogno di vedere un prodigio, un miracolo per credere. Gesù opera un segno prodigioso affinché coloro che sono con lui possano credere, infatti, una volta detto di liberarlo dai panni e dal sudario, non ci viene raccontato della gioia delle sorelle o della felicità del redivivo. No, cosa accade una volta operato il miracolo? Il focus del racconto si sposta, non più Marta, Maria e Lazzaro, bensì coloro che stanno attorno (compresi magari i discepoli di Gesù). Accade che alcuni si stupiscono e si convertono, credendo che Egli sia veramente il messia atteso, il figlio di Dio promesso, altri, seguendo il pensiero della loro incredulità e considerandolo quindi una minaccia per l’ordine costituito, corrono dai farisei, dai dotti della Scrittura e ligi alla stessa, per riferire del prodigio che, evidentemente, nel loro pensiero trova ragione in altro tipo di magia.

Credo quindi che il significato che noi dobbiamo trovare in questo episodio sia questo: Gesù che invoca il Padre per vincere la morte, ma non tanto la morte corporale (alla quale siamo condannati per il solo fatto di essere nati), bensì la vittoria sulla morte perché questo evento sia il momento della resurrezione a nuova vita e non sia il termine di un percorso in fondo al quale c’è solo il nulla. Ed è di questa vittoria sulla morte eterna che parliamo noi credenti, dandola forse talvolta per scontata, senza rifletterci troppo, magari per paura della morte stessa e per esorcizzare la realtà della fine.

Ma allora, sorelle e fratelli, chiediamoci: noi come ci poniamo di fronte a tutto ciò?

Non diamo quindi per scontato e non ripetiamo a memoria (oppure per tradizione religiosa) che dopo la morte c’è una nuova vita, ma riflettiamo seriamente e, pur nel travaglio del pensiero doloroso, chiediamo a noi stessi: “Credo io davvero che con la morte non termina tutto? Credo io che anche quel miracolo fa sì che la mia fede sia rinforzata, perché credo che Gesù sia il figlio di Dio, il Salvatore, oppure sarei fra coloro che corrono dai farisei? Credo io che il mio Signore, come abbiamo sentito nella lettura del profeta Osea, è colui che, nonostante le nostre infedeltà, ci ha riscattati dal soggiorno dei morti, perdonandoci prima che noi riusciamo a pentirci?”

Voglia il Signore che la nostra risposta individuale sia chiara e illuminata dalla fede.

Ma, se così non fosse, nell’assoluta nostra libertà, dobbiamo avere il coraggio e la coerenza di non professarci credenti, perché il CREDO recitato a memoria e per tradizione non ci pone su un piano di merito superiore a coloro che si professano atei e magari, con coerenza, hanno il coraggio di dirlo.

AMEN

Liviana Maggiore