IL DUBBIO E LA FEDE

Il tema che vorrei affrontare oggi, alla luce del brano biblico che fra poco leggerò, è quello del rapporto tra fede e dubbio.

Nella mentalità comune tra fede e dubbio esiste quanto meno una tensione, per non dire che sono in qualche modo alternative; dove c’è la fede non c’è il dubbio, e dove c’è dubbio non c’è la fede.

La figura biblica emblematica di questa alternativa è naturalmente l’apostolo Tommaso che, per primo, ha messo in discussione il fatto centrale della fede cristiana, cioè la risurrezione di Gesù, e quindi ha dubitato dell’evento costitutivo del cristianesimo. Però proprio lui, che ha incarnato questo dubbio radicale, è anche colui che sfocia nella prima grande confessione di fede, la più grande confessione di fede di tutta la Bibbia, chiamando Gesù non solo “mio Signore”, ma “Dio mio”. Tommaso è quindi l’emblema della transizione dal dubbio radicale alla fede suprema.

Un altro episodio evangelico che ci interroga sul rapporto tra dubbio e fede è quello che leggo adesso dall’evangelo di Marco, al capitolo 9,14-27

“E arrivando presso i discepoli, videro attorno a loro molta folla e alcuni scribi che discutevano con loro. E subito tutta la folla, al vederlo, fu presa da meraviglia e corse a salutarlo. Ed egli li interrogò: «Di che cosa discutete con loro?». E dalla folla uno gli rispose: «Maestro, ho portato da te mio figlio, che ha uno spirito muto. Dovunque lo afferri, lo getta a terra ed egli schiuma, digrigna i denti e si irrigidisce. Ho detto ai tuoi discepoli di scacciarlo, ma non ci sono riusciti». Egli allora disse loro: «O generazione incredula! Fino a quando sarò con voi? Fino a quando dovrò sopportarvi? Portatelo da me». E glielo portarono. Alla vista di Gesù, subito lo spirito scosse con convulsioni il ragazzo ed egli, caduto a terra, si rotolava schiumando. Gesù interrogò il padre: «Da quanto tempo gli accade questo?». Ed egli rispose: «Dall’infanzia; anzi, spesso lo ha buttato anche nel fuoco e nell’acqua per ucciderlo. Ma se tu puoi qualcosa, abbi pietà di noi e aiutaci». Gesù gli disse: «Se tu puoi! Tutto è possibile per chi crede». Il padre del fanciullo rispose subito ad alta voce: «Credo; aiuta la mia incredulità!». Allora Gesù, vedendo accorrere la folla, minacciò lo spirito impuro dicendogli: «Spirito muto e sordo, io ti ordino, esci da lui e non vi rientrare più». Gridando e scuotendolo fortemente, uscì. E il fanciullo diventò come morto, sicché molti dicevano: «È morto». Ma Gesù lo prese per mano, lo fece alzare ed egli stette in piedi”.

Qui, abbiamo letto, un ragazzo epilettico ha una crisi della sua malattia proprio davanti agli occhi di Gesù. Ne nasce un dialogo molto serrato tra Gesù e il padre di questo ragazzo, il quale lo incalza dicendo: “Se tu sei in grado di fare qualche cosa in questa situazione, ti prego aiutaci”. Egli non è sicuro che Gesù possa, la cosa, per lui, è dubbia. Gesù risponde in un modo che apre nuove prospettive, perché dicendogli: ”Ogni  cosa è possibile a chi crede” in qualche modo gli rimanda la palla della questione. E’ come se dicesse: “Il problema non è se io posso, il problema è se tu credi!

La risposta del padre è tanto famosa quanto sconvolgente: “Credo, ma vieni in aiuto alla mia incredulità”. Cosa vuol dire se non: credo, ma dubito; credo ma nello stesso tempo non sono sicuro di credere; credo ma … nel “ma” c’è il dubbio, quasi che alla fede dell’uomo sia congenito il dubbio. Io credo ma dubito, ci sono tante buone ragioni per non credere, non mi voglio affidare a una parola, a una promessa, soltanto tu puoi rendere la mia fede vittoriosa sul mio dubbio. L’opera nostra è il dubbio, l’opera di Dio è la fede , alla quale ci possiamo aprire, ma che non ci possiamo dare: possiamo solo riceverla.

E quanti altri innumerevoli testi nella Bibbia evidenziano questa lacerazione tra fede e dubbio, di quanti “perché” è pieno il testo biblico. Persino le ultime parole di Gesù sulla croce, che riprendono l’inizio del Salmo 22, sono un perché, anzi il perché più straziante di tutti i tempi:” Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” E i versetti successivi del Salmo 22 continuano così: “Te ne stai lontano, senza soccorrermi, senza dare ascolto alle parole del mio gemito! Dio mio, io grido di giorno, ma tu non rispondi, e anche di notte, senza interruzione”.

Perché c’è questa contraddizione tra quello che credo e quello che sto vivendo? Perché tu sei il Dio che mi ha chiamato e ora anche il Dio che mi ha abbandonato? Perché sei un Dio che si contraddice? Che fai il contrario di quello che prometti?

I Perché della Bibbia lasciano aperta la possibilità che Dio non risponda a queste domande, e anzi l’uomo moderno ha in un certo senso coltivato questo dubbio fino a sfociare nell’incredulità.

Ci sono però anche esperienze opposte, in cui il dubbio può essere invece l’anticamera della fede, nel senso che la ragione, mediante il dubbio, solleva dei quesiti ai quali essa non è in grado di rispondere. La fede SI. Il dubbio pone delle domande a cui la ragione umana non sa rispondere, e solo la fede può dare queste risposte: il dubbio può aprire la strada e preparare alla fede.

Quindi il dubbio ha queste due facce: propedeutico alla incredulità e possibile spazio per la fede.

Io penso che comunque il dubbio vada elogiato e coltivato, e questo perché il dubbio è parente stretto del pensiero. Un pensiero che non dubita è nella migliore delle ipotesi un pensiero infantile, elementare, e nella peggiore un pensiero paralizzato. Invece il dubbio ci permette di distinguere tra realtà ed apparenza, e in un certo senso è il migliore antidoto a tutte le illusioni. Il dubbio ha inoltre una funzione critica non soltanto verso la realtà che ci circonda, ma anche nei confronti di noi stessi: noi possiamo vagliare criticamente la nostra vita, le nostre scelte. Nella Bibbia il personaggio che evidenzia questo dubbio su sé stesso è il fariseo Paolo, il quale aveva impostato la sua vita secondo le rigide regole farisaiche, e a un certo punto, attraverso l’esperienza di Damasco, è stato travolto dal dubbio radicale di avere sbagliato tutto, e trascinato a una revisione radicale della sua esistenza: dal dubbio è nata una conversione.

La capacità, direi anzi la libertà, di dubitare di sé è la radice di ogni conversione.

E’ proprio il principio della Sapienza biblica questo essere capaci di farsi domande, rivedere criticamente la propria vita, le proprie abitudini, le proprie scelte, questo interrogare le scelte del mondo e interrogarsi sulle proprie scelte.

E anche nell’ambito della fede il dubbio, il pensiero critico della fede, ha un proprio valore. L’idea che la fede comincia la dove il pensiero finisce, o che la fede comporti una abdicazione della ragione, o che per credere bisogna rinunciare a pensare, o che per credere bisogna entrare nel territorio dell’assurdo, questa idea è completamente sbagliata. “La fede non è ignoranza ma conoscenza” dice Calvino. L’idea che la fede fiorisce e prospera lì dove prospera l’ignoranza è una idea sbagliata. La fede pensa; credere significa anche pensare. Non che pensare significhi credere – il pensiero può anche non credere – ma la fede non può non pensare. E’ indubbiamente vero che c’è una razionalità, un modo di ragionare, un modo di pensare completamente diverso da quello della fede, anzi addirittura antitetico da quello della fede, così come è vero – come dice l’apostolo Paolo – che c’è una ragione umana che deve diventare pazza per diventare savia, è verissimo che c’è una sapienza di Dio che sembra pazzia all’uomo, che c’è una sapienza del mondo che sembra pazzia davanti a Dio. Ma questo non significa che non ci sia una razionalità della fede, che ha le sue ragioni, che non sono le ragioni della ragione, ma sono ragioni.

È ragionevole il perdono del peccatore? No, sarebbe più ragionevole la sua punizione. È ragionevole che l’innocente Gesù «muoia per gli empi»? No, sarebbe più ragionevole che gli empi muoiano e l’innocente viva. Che cosa vuol dire questo? Vuol dire che c’è una logica di Dio molto diversa da quella degli uomini. C’è una logica del Regno, che capovolge la logica del mondo. Ci sono due logiche, due razionalità, due modi di ragionare. Non è che chi non crede ragioni meglio o sia più intelligente di chi crede, o inversamente che chi crede ragioni meglio di chi non crede. Si tratta di due diverse visioni del mondo, dell’uomo e di Dio che comportano due logiche differenti. Io non penso che la scienza metta in pericolo la fede; ci sono scienziati atei e ci sono scienziati credenti. Non penso che l’intelligenza porti a non credere: né la fede né l’incredulità nascono da un ragionamento, anche se poi entrambe portano le loro ragioni; l’intelligenza entra in gioco dopo, non prima, sia per l’una che per l’altra.

Credere non significa entrare nell’irrazionale. Non solo la fede non ha nessun timore davanti al pensiero, ma volentieri lo incontra, e volentieri ne accetta la sfida. Dio, dice Giovanni, è Logos, e Logo significa Parola, ma significa anche pensiero. Dio è libertà, soprattutto libertà di amare, ma Dio è anche pensiero, Dio pensa, si potrebbe azzardare. Come si dice al salmo 92:” O Signore, come sono profondi i tuoi pensieri!; e al salmo 139: “Oh quanto sono preziosi i tuoi pensieri, o Dio! Quanto è grande il loro insieme” e in Isaia:” «Infatti i miei pensieri non sono i vostri pensieri, né le vostre vie sono le mie vie», dice il Signore. “Come i cieli sono alti al di sopra della terra, così sono le mie vie più alte delle vostre vie, e i miei pensieri più alti dei vostri pensieri”.

Ecco perché la fede pensa: la fede pensa perché Dio pensa. La fede pensa e osa affermare una verità ultima, definitiva, e cioè Dio. La fede sa benissimo che questa verità non può essere in alcun modo dimostrata, né che questa verità spieghi tutto, ma è una verità che illumina tutto. Non tutto diventa chiaro, ma tutto diventa illuminato. Al dubbio radicale, di cui comprendiamo le ragioni, noi affianchiamo una certezza radicale, che non è fondata su nessuna evidenza, ma è fondata su una Parola che è diventata storia umana nella vicenda di Gesù di Nazareth.

La fede è infatti figlia della Parola di Dio, non della ragione, ma non è di per sé ostile alla ragione. Fede e ragione possono entrare in conflitto, ma non sono necessariamente nemiche. Esiste, certo, una ragione che non crede, come esiste, purtroppo, una fede che non ragiona. Ma la fede può ampliare l’orizzonte della ragione, e la ragione può aiutare la fede a non diventare credulona, superstiziosa o fanatica.

Il dubbio resta fuori della fede anche se accanto alla fede. La fede è certezza. Il dubbio accanto alla fede serve a tenere vigile la fede, a mantenerla in dialogo con la realtà che la circonda, la obbliga a tenere aperte le questioni vitali. Nella lettera agli Ebrei c’è questa bellissima definizione della fede che è “certezza di cose che si sperano”, cioè le cose che si sperano a un certo punto sono incerte perché devono ancora accadere, è il paradosso della fede che è certezza dell’incerto, cioè attraverso la fede l’incerto diventa certo, questa è la fede. In questo senso il dubbio è più alleato che nemico della fede. E lo è anche in un altro senso: il dubbio preserva la fede dal diventare fondamentalista, cioè dal credere in un dogma, uno qualunque, anziché in Dio, cioè identificare la fede con un oggetto della fede che non è Dio. La fede che crede in sé stessa più che in Dio non è fede, perché la fede è proprio fede in Dio e non in qualcos’altro che non sia lui.

E’ come abbiamo sentito prima risuonare dalla prima lettera di Pietro: “Per mezzo di Gesù credete in Dio che lo ha risuscitato dai morti e gli ha dato gloria, affinché la vostra fede e la vostra speranza siano in Dio”.

Dio lo voglia per tutti noi. AMEN

Fabio Barzon

Sermone: EPIFANIA: MANIFESTAZIONE DEL SIGNORE

Matteo 2:1-12   –   Luca 3,21-22

Abbiamo ascoltato il racconto della venuta dei Magi a Betlemme, tre sapienti che, ispirati dal Signore, intrapresero un lungo viaggio per conoscere e adorare il vero re, non solo il re dei giudei, ma colui che sarebbe stato il Re dei re. Un evento prodigioso, una stella “speciale”, una manifestazione eclatante, aveva condotto i tre saggi alla stalla di Betlemme. Il Signore si era palesato in modo assai particolare per costoro, tanto da indurli a intraprendere un lungo viaggio, alla ricerca di un bambino.

Dalle testimonianze contenute nella Bibbia vediamo che il Signore si è manifestato moltissime volte e in modi diversi per cercare di ricondurre l’uomo alla fede in lui, per farci comprendere come quel Gesù nato da una famiglia di Nazareth fosse Suo figlio, il Messia tanto atteso e non un semplice profeta. E questo avvenne anche sul fiume Giordano, quando Gesù si fece battezzare, come raccontano i tre vangeli di Marco, Matteo e Luca.

Ma ascoltiamo ora il racconto così come contenuto nell’evangelo di Luca al capitolo 3,21-22.

Ora, mentre tutto il popolo si faceva battezzare, anche Gesù fu battezzato; e, mentre pregava, si aprì il cielo, e lo Spirito Santo scese su di lui in forma corporea, come una colomba; e venne una voce dal cielo: «Tu sei il mio diletto Figlio; in te mi sono compiaciuto».

A Natale e anche oggi abbiamo letto della venuta dei Magi d’Oriente alla stalla di Betlemme. Queste tre persone colte e ricche, che non fanno parte del popolo giudeo e quindi non nutrono l’attesa fideistica del Messia preannunciato dai profeti, affrontano un lungo viaggio per portare preziosi doni a un re, al re di un popolo cui essi non appartengono.

Negli evangeli solo Matteo ci presenta questo racconto e potremmo anche pensare che tutto ciò non sia veramente accaduto, però nella Scrittura nulla è messo per caso, per cui, ancorché questo episodio non si fosse realmente verificato, il suo inserimento nella narrazione di Matteo ci presenta sicuramente un significato simbolico.

Il racconto di Matteo dice che i tre saggi hanno intrapreso il loro viaggio guidati da un segno particolare (la stella) che hanno ritenuto essere la manifestazione di una speciale regalità del nuovo nato. Colui che è venuto al mondo deve essere un re “speciale”, decisamente più importante del re socialmente riconosciuto: Erode.

Trovato il bambino, in una situazione certamente per nulla regale, i Magi si prostrano per adorarlo (atteggiamento non consono a persone di rango superiore) e gli porgono i loro ricchi doni:

  • ORO, simbolo della regalità riconosciuta a questo infante povero;
  • INCENSO, per simboleggiare la sua divinità;
  • MIRRA, una resina ricavata da una pianta tipica dell’oriente, utilizzata per aromatizzare e conservare le mummie, simbolo e preannuncio della morte sacrificale di quel bambino.

Che l’evento sia o meno avvenuto, col suo racconto però Matteo intende affermare che il Signore si è manifestato con un astro a persone che non fanno parte del popolo eletto, al popolo dei credenti del Dio unico, a Israele; e questo astro, questa speciale stella, si è fermata sopra un’umile dimora alla quale anche altre persone (i pastori) andavano per adorare, guidati da un’altra manifestazione: il coro di voci angeliche.

Ma qual è il collegamento fra questo racconto e quello del battesimo di Gesù su fiume Giordano, episodio questo invece raccontato da tre evangelisti?

In realtà, al posto del battesimo di Gesù avremmo potuto leggere altri passi del Nuovo Testamento nei quali ci vengono riferiti episodi di “manifestazione” di Gesù come figlio di Dio, come Messia (es. Natanaele nel primo capitolo dell’evangelo di Giovanni, le inaspettate e cruente manifestazioni atmosferiche al momento della morte di Gesù, e molto altro ancora).

Ecco qual è il collegamento: il popolo tutto ha ricevuto numerosi segni della signoria di Gesù, segni che si sono palesati con simboli celesti (la stella, l’oscuramento del cielo alla morte, la voce dal cielo, i cori angelici) e con i numerosi miracoli raccontati nei vangeli, prodigi troppo numerosi per essere semplici e inventate costruzioni per indurre alla fede nel Messia.

Ecco perché l’Epifania del Signore è una grande festa. È la festa che ci ricorda che il SIGNORE SI È MANIFESTATO e lo ha fatto in molte occasioni, con segni diversi provenienti da Gesù stesso o dal Padre che lo riconosce come suo figlio prediletto, con quella bella immagine che abbiamo letto con la discesa della colomba su quell’uomo uscito dall’acqua del fiume, un uomo al quale Giovanni Battista dice di non essere degno nemmeno di legare i calzari.

Non possiamo dire di non aver ricevuto testimonianze sul fatto che colui in cui diciamo di credere è veramente il Cristo, il figlio di Dio fatto uomo, il Signore della storia che si è abbassato a diventare uomo fra gli uomini per riscattare ognuno dal peccato, per dare una volta di più l’opportunità di cambiare vita.

E questo farsi uomo lo ha fatto per tutti, per i ricchi e per i poveri, per i sapienti e per la gente non acculturata, per i fedeli e per gli increduli, per il popolo di Israele e per tutti gli altri popoli.

E noi, donne e uomini che ci professiamo cristiani, siamo convinti nel profondo del cuore e della mente di tutto ciò? Abbiamo saputo cogliere nella nostra vita l’epifania del Signore, il suo rendersi manifesto?  Oppure ci dichiariamo cristiani per tradizione, per abitudine, ma stentiamo a coltivare la nostra fede in Lui?

Siamo disposti a credere che il nostro Signore è vivente vicino a noi, è presente nella storia dell’umanità per tutti gli uomini e donne, senza distinzione di razza o di lingua, di cultura o abitudini sociali, perché tutti sono chiamati alla salvezza che è offerta gratuitamente a chiunque cerchi autenticamente la verità e consideri ogni essere umano suo fratello o sua sorella.

Certo, una volta di più vediamo che la manifestazione della signoria di Cristo comporta anche delle responsabilità da parte nostra, responsabilità esistenziali che non possono essere soddisfatte con precetti o dettami moralistici, ma con una reale conversione da parte nostra nell’esercizio della pazienza e del perdono, nel superamento dei nostri egoismi, nella condivisione e nella manifestazione d’amore a coloro che incrociano le loro strade con la nostra.

Voglia il Signore aiutarci nel riconoscere la sua manifestazione nella nostra vita.

AMEN

Liviana Maggiore

sermone: PREDICAZIONE IN CELEBRAZIONE ECUMENICA PER LA PACE 1.1.2019

Efesini 4:1-6

“Io dunque, il prigioniero del Signore, vi esorto a comportarvi in modo degno della vocazione che vi è stata rivolta, con ogni umiltà e mansuetudine, con pazienza, sopportandovi gli uni gli altri con amore, sforzandovi di conservare l’unità dello Spirito con il vincolo della pace.

Vi è un corpo solo e un solo Spirito, come pure siete stati chiamati a una sola speranza, quella della vostra vocazione. Vi è un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo, un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, fra tutti e in tutti.”

Vanno fatte due premesse importanti sui versetti che abbiamo ascoltato:

  1. le esortazioni contenute non sono solamente per gli Efesini, ma anche per noi, cristiani di oggi. E questo è chiaro fin dal primo versetto dell’epistola, dove troviamo scritto: “Paolo, apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio, ai santi che sono in Efeso e ai fedeli in Cristo Gesù.”
  2. In Gesù Cristo non c’è differenza fra ebrei e pagani, fra circoncisi e incirconcisi, perché, come troviamo al cap. 2,14-16 “Lui che dei due popoli ne ha fatto uno solo e ha abbattuto il muro di separazione abolendo nel suo corpo terreno la causa dell’inimicizia, la legge fatta di comandamenti in forma di precetti, per creare in sé stesso, dei due, un solo uomo nuovo facendo la pace; e per riconciliarli tutti e due con Dio in un corpo unico mediante la sua croce, sulla quale fece morire la loro inimicizia.”

Per questo oggi siamo qui, insieme, in una preghiera ecumenica nella quale certamente portiamo il peso delle nostre differenze, ma soprattutto portiamo la gioia di essere tutti fratelli e sorelle in Dio, tutti uniti in un unico corpo mediante la croce di Cristo, tutti consapevoli che in quest’epoca di muri che si moltiplicano e respingimenti che si inaspriscono, siamo chiamati alla reciproca accoglienza ed alla fraternità, senza distinzioni di razza, religione, sesso, età e quant’altro possa causare divisioni fra gli esseri umani.

Noi, donne e uomini di oggi, siamo chiamati a rispondere alla vocazione ricevuta operando per la pace, mettendo a frutto i doni ricevuti, facendo scelte talvolta difficili, correndo il rischio di essere derisi, ma sempre sostenuti da quel Signore in cui diciamo di credere che è pietra angolare della chiesa universale e che per tutti noi ha patito la croce. E tutto ciò senza delegare ad altri le nostre responsabilità, perché se una goccia d’acqua non può dissetare, un bicchiere d’acqua è pieno di molte gocce che, insieme, possono sollevare dall’arsura.

Ma come possiamo essere degni di questa vocazione, come tradurla in azione, in vita concreta? L’autore ci dà delle indicazioni, tratteggiando, con poche ma efficaci parole, le caratteristiche di un’etica cristiana. Siamo infatti esortate e esortati a comportarci con umiltà, mansuetudine, pazienza, sopportazione reciproca e, superati i nostri condizionamenti, di avviarci sul cammino di una vita nuova, costruttiva e pacifica, vissuta con la consapevolezza di essere radicati nell’appartenenza al corpo di Cristo e illuminati dal soffio dello Spirito, adoperandoci per conservare l’unità nel vincolo della pace, quella pace che è diritto di ogni uomo e donna che calpesti questa terra.

E l’unità nella pace, dono di Dio, può essere nutrita, preservata, rinforzata solo se i credenti vivono nell’amore e nella pace forgiata dall’opera riconciliatrice di Cristo.

Nei versetti da 4 a 6, con enfasi, viene analizzato il significato dell’unità dello Spirito:

  • un solo corpo: la chiesa,
  • un solo Spirito: attraverso il quale si professa Cristo,
  • una sola speranza: la redenzione,
  • un solo Signore: Cristo,
  • una sola fede: Cristo è il Signore,
  • un solo battesimo: in un unico Spirito per formare un unico corpo.

Una vera e propria confessione di fede, suggellata dal versetto 6, UN SOLO DIO:

  • al di sopra di tutti: il Padre,
  • fra tutti: il Figlio,
  • in tutti: lo Spirito Santo.

Ecco perché è importante che, seppure appartenenti a diverse confessioni, oggi abbiamo marciato insieme per la pace, con uno spirito ecumenico per cui incontrarsi non è per ricercare l’unità a tutti i costi, ma sicuramente per riconoscere ciò che ci accomuna.

Che il Signore ci illumini ed ispiri le nostre azioni affinché, individualmente e collettivamente, possiamo essere autentici costruttori di pace.

AMEN

Liviana Maggiore

Sermone: RINNOVO DEL PATTO

Giovanni 12, 44-50

Ma Gesù ad alta voce esclamò: «Chi crede in me, crede non in me, ma in colui che mi ha mandato; e chi vede me, vede colui che mi ha mandato.  Io son venuto come luce nel mondo, affinché chiunque crede in me, non rimanga nelle tenebre.  Se uno ode le mie parole e non le osserva, io non lo giudico; perché io non son venuto a giudicare il mondo, ma a salvare il mondo.  Chi mi respinge e non riceve le mie parole, ha chi lo giudica; la parola che ho annunciata è quella che lo giudicherà nell’ultimo giorno.  Perché io non ho parlato di mio; ma il Padre, che mi ha mandato, mi ha comandato lui quello che devo dire e di cui devo parlare; e so che il suo comandamento è vita eterna. Le cose dunque che io dico, le dico così come il Padre le ha dette a me».

Cari fratelli e sorelle,

Come sappiamo, rinnoviamo oggi il nostro Patto con Dio. E come ogni patto che si rispetti, anche questo si basa sulla fiducia. E fiducia, vuol dire credere, aver fede, con la effe maiuscola. Affidarsi totalmente al volere di Dio, facendoci guidare, senza paura, come se fossimo tornati bambini, da Dio nostro Padre. Come possiamo quindi affidarci a Dio? Leggendo e meditando la Sua Parola anzitutto, pregandolo, nella certezza che quanto gli stiamo per chiedere sicuramente ce lo darà. Sta infatti scritto in Matteo 17,20 “in verità io vi dico: se avete fede quanto un granello di senape, potrete dire a questo monte: “Passa da qui a là”, e passerà; e niente vi sarà impossibile”. E come dice il Salmo 54 che abbiamo ascoltato in apertura a questo Culto: “Dio è il mio aiuto; il Signore è colui che sostiene l’anima mia. Egli farà ricadere il male sui miei nemici”. Seguire quindi ciecamente Gesù, come ci esorta il testo della nostra predicazione di oggi: “Chi crede in me, crede non in me, ma in colui che mi ha mandato”. Gesù, il Cristo, il Figlio di Dio, è quindi l’inviato, il messaggero, il tramite tra Dio e noi, suoi figli, il suo popolo. Dio parla per mezzo suo. Come infatti dice il testo biblico della nostra predicazione odierna: “Le cose dunque che io dico, le dico così come il Padre me le ha dette”. Egli è quindi il mediatore del patto che oggi siamo chiamati, fratelli e sorelle, a rinnovare come ogni anno. Un nuovo patto, che supera e perfeziona la legge dell’Antico Testamento, il vecchio Patto. Sta infatti scritto in Matteo 5,17: “Non pensate che io sia venuto per abolire la legge o i profeti; io sono venuto non per abolire ma per portare a compimento”. Il vecchio Patto Dio lo fece con la nazione d’Israele, non con i cristiani. Alcune leggi dovevano far sapere agli Israeliti come ubbidire e piacere a Dio (ad esempio i Dieci Comandamenti) altre dovevano mostrare loro come adorare Dio (vedi il sistema sacrificale) mentre altre dovevano semplicemente rendere gli Israeliti diversi dalle altre nazioni (vedi le regole sul cibo e sull’abbigliamento). Nessuna legge dell’Antico Testamento, eccettuati i Dieci Comandamenti, si applica a noi, oggi. Possiamo quindi anche lavorare nel giorno del riposo settimanale senza timore di essere messi a morte come comandava Esodo 35, 2 nonché mangiare tranquillamente lepri e maiali nonostante il divieto in Levitico 11, 6-7. Per non parlare delle belle bistecche al sangue espressamente proibite in Levitico 17, 14 mentre i nostri figli possono dormire sonni tranquilli anche se a volte ci contestano e sono ribelli evitandoci il problema di farli lapidare a morte come prescritto in Deuteronomio 21, 18-21. Fratelli e Sorelle, quando morì sulla croce, Gesù, pose fine alla legge dell’Antico Testamento. Sta infatti scritto nella Lettera ai Galati 3, 23-25: “ma prima che venisse la fede eravamo tenuti rinchiusi sotto la custodia della legge, in attesa della fede che doveva essere rivelata. Così la legge è stata come un precettore per condurci a Cristo, affinché noi fossimo giustificati per fede. Ma ora che la fede è venuta, non siamo più sotto precettore”. Quindi ora Dio, per mezzo di Cristo, fratelli e sorelle, unisce Giudei e stranieri (i “gentili”) in Cristo: “Lui, infatti, è la nostra pace; lui che dei due popoli ne ha fatto uno solo e ha abbattuto il muro di separazione abolendo nel suo corpo terreno la causa dell’inimicizia, la legge fatta di comandamenti in forma di precetti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo facendo la pace e per riconciliarli tutti e due con Dio in un corpo unico mediante la sua croce, sulla quale fece morire la loro inimicizia”. Efesini 2, 14-16. Noi quindi siamo ora sotto la legge di Cristo: “‘Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente’. Questo è il grande e il primo comandamento. Il secondo, simile a questo, è: ‘Ama il tuo prossimo come te stesso’. Da questi due comandamenti dipendono tutta la legge e i profeti” (Matteo 22, 37-40). Fratelli e Sorelle, se faremo queste due cose, allora staremo adempiendo a tutto quello che Cristo vuole da noi: “Perché questo è l’amore di Dio: che osserviamo i suoi comandamenti; e i suoi comandamenti non sono gravosi” (1 Giovanni 5, 3). A questo punto, però, visto che non siamo più sotto la Legge dell’Antico Testamento, qualcuno potrebbe dire che anche i Dieci Comandamenti non sono applicabili ai cristiani. In realtà essi sono tutti ripetuti nel Nuovo Testamento (eccettuato il comandamento di osservare il giorno di Sabato). Ovviamente, se staremo amando Dio non staremo adorando altri dei o degli idoli. Se staremo amando il nostro prossimo, non lo uccideremo, non gli mentiremo, non commetteremo adulterio né ne desidereremo ciò che gli appartiene. Perciò, noi non siamo sottoposti ad alcun requisito della legge dell’Antico Testamento. Noi dobbiamo amare Dio e amare il nostro prossimo. Se faremo fedelmente queste due cose, tutto il resto comincerà ad avere un senso. E questo perché è Parola di Dio dataci tramite Gesù Cristo. Come abbiamo sentito in precedenza dalla lettura dell’Evangelo di Matteo: “Non di pane soltanto vivrà l’uomo, ma di ogni parola che proviene dalla bocca di Dio”». La Parola di Dio quindi come pane spirituale, pane che ci dà la forza per vivere ed andare avanti, pane che crea la vita come abbiamo ascoltato dalla lettura del Prologo del Vangelo di Giovanni: “Ogni cosa è stata fatta per mezzo di lei; e senza di lei neppure una delle cose fatte è stata fatta. In lei era la vita e la vita era la luce degli uomini”.

Amen

Daniele Rampazzo

A seguito della predicazione, l’impegno della comunità e del singolo per rispondere al rinnovo del patto con il Signore:

CULTO DI RINNOVAMENTO DEL PATTO

Quanto a me, ecco, stabilisco il mio patto con voi, con i vostri discendenti dopo di voi. (Genesi 9:9)

IL NOSTRO IMPEGNO COMUNITARIO

Signore, per mezzo di Gesù Cristo tu ci hai chiamati a vivere in questo patto di grazia; con gioia rinnoviamo la nostra consacrazione e, per amor tuo, ci impegniamo a ricercare e a compiere la tua perfetta volontà. Non apparteniamo più a noi stessi, ma a te. Amen

IL MIO IMPEGNO PERSONALE

Signore, io non appartengo più a me stesso, ma a te. Impegnami in ciò che vuoi, mettimi a fianco di chi vuoi; che io sia sempre tuo testimone, sia nella pienezza delle forze, sia quando le forze vengono meno, sia che io mi trovi nella gioia, sia che io mi trovi nel dolore. Liberamente e di pieno cuore mi sottopongo alla tua volontà e metto ogni cosa al tuo servizio. Amen

Ma le loro menti furono rese ottuse; infatti, sino al giorno d’oggi, quando leggono l’antico patto, lo stesso velo rimane, senza essere rimosso, perché è in Cristo che esso è abolito. (2 Corinzi 3:14)