UNA FEDE ATTIVA, ANZI PRATICA

In verità, in verità vi dico che qualsiasi cosa domanderete al Padre nel mio nome, egli ve la darà. Fino ad ora non avete chiesto nulla nel mio nome; chiedete e riceverete, affinché la vostra gioia sia completa. Vi ho detto queste cose in similitudini; l’ora viene che non vi parlerò più in similitudini, ma apertamente vi farò conoscere il Padre. In quel giorno chiederete nel mio nome; e non vi dico che io pregherò il Padre per voi; poiché il Padre stesso vi ama, perché mi avete amato e avete creduto che sono proceduto da Dio. Sono proceduto dal Padre e sono venuto nel mondo; ora lascio il mondo, e vado al Padre». I suoi discepoli gli dissero: «Ecco, adesso tu parli apertamente, e non usi similitudini. Ora sappiamo che sai ogni cosa e non hai bisogno che nessuno ti interroghi; perciò crediamo che sei proceduto da Dio». Gesù rispose loro: «Adesso credete? L’ora viene, anzi è venuta, che sarete dispersi, ciascuno per conto suo, e mi lascerete solo; ma io non sono solo, perché il Padre è con me. Vi ho detto queste cose, affinché abbiate pace in me. Nel mondo avrete tribolazione; ma fatevi coraggio, io ho vinto il mondo».  (Giovanni 16, 23b-33)

Cari fratelli e care sorelle, nel testo dell’Evangelo di Giovanni che abbiamo appena ascoltato, è detto chiaramente “qualsiasi cosa domanderete al Padre nel mio nome, egli ve la darà”. Ad una lettura superficiale e letterale ci può quindi sorgere dinanzi l’immagine o comunque l’idea di un Dio con il quale stabilire una relazione puramente strumentale, ovvero io ti prego affinché tu mi dia. Qualcosa di simile al rapporto che gli antichi avevano con gli dei dell’antichità classica, sia greca che latina. Senza parlare poi di altre religioni dell’Oriente antico. Faccio un sacrificio o mi reco al tempio per partecipare ad una celebrazione in cambio di qualcosa, per ottenere, in cambio del mio dono o del tempo che ho dedicato al dio, un favore, un beneficio di varia natura.

Ecco, fratelli e sorelle, noi non siamo pagani, non abbiamo un Dio al quale chiedere qualcosa e se non ce la dà allora cambiarlo con un altro a cui rivolgere le nostre attenzioni nella speranza che sia migliore del precedente e più attento ad esaudire i nostri desideri. Noi siamo altro, radicalmente altro. “Signore, insegnaci a pregare” chiedono i discepoli a Gesù nel Vangelo di Luca letto in precedenza. E Gesù risponde con la preghiera che ben conosciamo e che spesso recitiamo in maniera automatica, non consapevoli appieno del suo messaggio. Sto parlando, chiaramente, del Padre Nostro. L’unica e sola preghiera che Gesù ci ha insegnato.

Il nocciolo della questione, pertanto, cari fratelli e sorelle, la soluzione a questo problema, sta negli ultimi passi di questa lettura evangelica di Luca: “chiedete con perseveranza, e vi sarà dato; cercate senza stancarvi, e troverete; bussate ripetutamente, e vi sarà aperto”. Mai stancarsi di chiedere o di cercare, dice Gesù. Mai.

Ma il punto, che ci distacca decisamente dal rapporto strumentale di cui parlavo all’inizio, che ci distingue da una religiosità pagana o comunque fasulla, infantile, superficiale è la frase evangelica successiva: “Se voi … che siete malvagi …” (perché noi esseri mortali e perfettibili siamo sempre esposti al male e vi cadiamo spesso per nostra natura, che lo vogliamo ammettere o no) dicevo: “Se voi che siete malvagi, sapete dare buoni doni ai vostri figli, quanto più (ovvero tanto più) il Padre celeste donerà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono!”. Ecco allora la soluzione tanto cercata, la chiave di volta del nostro problema. La fede che porta alle opere, una fede attiva e non solo contemplativa. Una fede che mi porta a compiere, quale ringraziamento a Dio per avermi salvato, le buone opere verso i fratelli e quindi ecco che Dio Padre ascolterà ed esaudirà le mie preghiere.

Non basta quindi dire Signore, Signore. Ma fare, fare attivamente nei confronti dei nostri fratelli, degli altri. Chiunque essi siano. Gesù ci chiede di operare concretamente nel mondo, di mettere in pratica i suoi insegnamenti. Egli non vuole che noi facciamo semplici esercizi mentali, sfoggio di chissà quale cultura teologica o filosofica. Vuoi che io, il tuo Signore, esaudisca le tue preghiere? Vuoi che ascolti i tuoi lamenti e le tue sofferenze? Ebbene sii coerente con te stesso e applica concretamente i miei insegnamenti. Non basta dire “Io sono cristiano”. Non basta andare in chiesa la domenica o farsi vedere a qualche celebrazione o dare segni di una religiosità puramente esteriore. Bisogna applicare concretamente quanto nostro Signore ci ha comandato di fare. Prima comportati verso gli altri così come ti ho insegnato e poi, poi ti ascolterò.

E anche, quando chiedi, chiedi con fede. Credi fermamente in quello che chiedi. Credi che lo avrai sicuramente nel momento stesso in cui lo chiedi. “Se avete fede quanto un granello di senape, potrete dire a questo monte: “Passa da qui a là”, e passerà; e niente vi sarà impossibile”. Questo è quanto dice Gesù, attestato nell’Evangelo di Marco 17,20. Quindi, è parola di nostro Signore.

Fratelli e sorelle, prima la Fede e poi le opere. Credi fermamente che sarai esaudito e datti da fare. Gesù ci chiama quindi ad una “etica della reciprocità”. Ovvero, non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te. Sii coerente, dice il Signore. Se ti dichiari cristiano, comportati come tale. E io ti esaudirò. Anzi, solo allora ti ascolterò. Come è scritto nella Lettera dell’apostolo Paolo a Timoteo che abbiamo ascoltato oggi, il Signore “vuole che tutti gli uomini siano salvati e vengano alla conoscenza della verità”. Sì, noi verremo salvati se però crederemo, prima di tutto, e poi, come conseguenza, opereremo, metteremo in pratica la nostra fede. Quella fede che sola ci salva, “Sola Fide”, uno dei pilastri della nostra Riforma. Una fede che produce poi, come conseguenza, le opere. Le buone opere. Se vuoi essere esaudito fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te. “Vi ho detto queste cose, affinché abbiate pace in me. Nel mondo avrete tribolazione; ma fatevi coraggio, io ho vinto il mondo” dice Gesù nell’ultima parte del testo dell’odierno Evangelo di Giovanni. È chiaro e lampante, sotto gli occhi di tutti, che il mondo e la vita di tutti i giorni non siano facili e che i tormenti e le tribolazioni siano all’ordine del giorno ma, dice il Signore, fatti coraggio, abbi pace in me. Credi in me con tutte le tue forze e io ti salverò. Ti ascolterò e ti esaudirò. Non aver paura, non farti prendere dalle angosce quotidiane. Riponile in me. Fammene carico. Abbi fiducia in me, una fiducia convinta, e poi mettila in pratica. È infatti scritto “Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli” dice l’Evangelo di Marco 7,21. “Chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, è simile a un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia” dice il successivo versetto 24. Più chiaro e lampante di così!

Chiunque ascolti le mie parole e le mette in pratica. Le mette in pratica. Pratica. Poniamoci quindi delle domande: ho fatto veramente la volontà di Dio? Ho messo in pratica quello che predico con la mia bocca o dico con la mia mente? Sono bravo a parlare ma poi non agisco di conseguenza? Beh, allora non posso pretendere che Dio mi ascolti seriamente. È difficile, lo sappiamo bene. La vita è difficile ed essere cristiani coerenti lo è ancora di più. Ma, fratelli e sorelle, abbiamo sempre la promessa di Dio davanti agli occhi: “Credi e sarai salvato”. “Credi e sarai salvato”. AMEN

Daniele Rampazzo

TABITA LA GAZZELLA

A Ioppe c’era una discepola, di nome Tabita, che, tradotto, vuol dire Gazzella: ella faceva molte opere buone ed elemosine. Proprio in quei giorni si ammalò e morì. E, dopo averla lavata, la deposero in una stanza di sopra. Poiché Lidda era vicina a Ioppe, i discepoli, udito che Pietro era là, mandarono due uomini per pregarlo che senza indugio andasse da loro. Pietro allora si alzò e partì con loro. Appena arrivato, lo condussero nella stanza di sopra; e tutte le vedove si presentarono a lui piangendo, mostrandogli tutte le tuniche e i vestiti che Gazzella faceva, mentre era con loro. Ma Pietro, fatti uscire tutti, si mise in ginocchio, e pregò; e, voltatosi verso il corpo, disse: «Tabita, àlzati». Ella aprì gli occhi; e, visto Pietro, si mise seduta. Egli le diede la mano e la fece alzare; e, chiamati i santi e le vedove, la presentò loro in vita. Ciò fu risaputo in tutta Ioppe, e molti credettero nel Signore. Pietro rimase molti giorni a Ioppe, presso un certo Simone conciatore di pelli.  (Atti 9, 36-43)

Care sorelle e cari fratelli,

dopo averci parlato della conversione di Paolo, Luca ci racconta due miracoli di Pietro: la guarigione di Enea e quello che abbiamo ascoltato, la resurrezione di Tabita.

Tabita è appena morta; dopo essere stata preparata viene deposta nella stanza di sopra. La stanza di sopra: quante memorie evoca questo luogo!

Ci ricorda il luogo dove Gesù e suoi discepoli hanno celebrato la Pasqua, l’ultima Pasqua di Gesù. Anche allora la disperazione e lo sconforto erano palpabili.

Tabita è una discepola. È l’unica volta che la parola discepola viene usata nel Nuovo Testamento. Non è quindi una discepola qualsiasi: il testo ci dice che faceva molte opere buone ed elemosine; ci racconta anche di una disperazione tale, tra i fratelli e le sorelle della sua comunità, da spingerli a raggiungere Pietro e a pregarlo di correre da Tabita: essi avevano fede che Pietro avrebbe potuto, con la sua parola, riportare alla vita Tabita. Questa donna che non sta al suo posto, che fa “molte opere buone ed elemosine”, secondo la società del tempo avrebbe dovuto starsene a casa, e lasciare che gli uomini progettassero un sistema di assistenza. Invece era probabilmente proprio lei a capo di un programma di aiuto tra i poveri di Ioppe. Nella sua azione, Tabita s’impegnava a gettare semi del Regno e, nel farlo, a costruire anche una nuova configurazione del potere … in cui Dio usa ciò che è umile e disprezzato nel mondo per ridurre a niente le cose che sono.

Con il suo servizio, Tabita ha messo in pratica il messaggio d’amore di Gesù. Ha annunciato una fede che rimette in piedi quanti sono piegati, schiacciati dalla vita. Ha mostrato alle vedove che le donne, quando solidarizzano e mettono in rete le proprie risorse, le proprie competenze, il loro sapere, possono acquistare autonomia e uscire dalla dipendenza sociale che le rende vulnerabili, ricattabili. Quante tuniche e quanti mantelli avrà tessuto Tabita, per offrire alle più deboli della comunità una via concreta di sostentamento!

Tabita nella sua vita ha aiutato a risorgere tante vedove: ora si alzano le preghiere delle sue sorelle e dei suoi fratelli perché questa risurrezione riguardi anche Tabita. E così è stato. Tabita, la mite e veloce gazzella, viene strappata dai lacci della morte e riconsegnata vivente fra la sua gente. Per le loro preghiere, per la loro audacia, e per la solidarietà di Pietro Tabita viene restituita alla vita. Nel nome di Gesù, che ha il potere di dare la vita. Il nome di Gesù che, come ci dice questo racconto, appartiene alle vedove e a coloro che non hanno nessuna speranza all’infuori di esso.

Ogni comunità, ogni famiglia, ogni chiesa, ognuno ed ognuna di noi esiste all’interno di ben definite strutture di potere o di debolezza, di vita e di morte. Ci sono esperienze di morte che avvengono prima di morire: gente piegata, umiliata, schiavizzata. Ci sono piccole risurrezioni che possono anticipare, quale caparra e primizia, la risurrezione finale. Ogni volta che l’evangelo è annunciato come esperienza di liberazione, ogni volta che chi è abbattuto viene risollevato, ogni volta che viene ridata ad un essere umano la dignità di figlia o di figlia di Dio … ogni volta che tendiamo la mano verso il fratello o la sorella: lì avviene una risurrezione!

Tabita, la Gazzella, è un’icona, una testimone dell’amore e della promessa di Dio; con la sua comunità sta a fianco di coloro che non hanno nessuno, così come il Signore sta loro a fianco. Non ha il potere del mondo, ma ha una risorsa: la parola, il nome di Gesù che trasforma le strutture di morte in strutture di vita. AMEN

Maria Paola Gonano

IL BUON PASTORE

“Io sono il buon pastore; il buon pastore dà la sua vita per le pecore.Il mercenario, che non è pastore, a cui non appartengono le pecore, vede venire il lupo, abbandona le pecore e si dà alla fuga, e il lupo le rapisce e disperde.  Il mercenario [si dà alla fuga perché è mercenario e] non si cura delle pecore.  Io sono il buon pastore, e conosco le mie, e le mie conoscono me, come il Padre mi conosce e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore.  Ho anche altre pecore, che non sono di quest’ovile; anche quelle devo raccogliere ed esse ascolteranno la mia voce, e vi sarà un solo gregge, un solo pastore.” (Giovanni 10,11-16)

Sicuramente è capitato a tutti noi di vedere un gregge e, se ci pensiamo, avremo potuto notare che il pastore, nel governare le sue pecore, si muove lentamente, guarda spesso il gregge, sosta a lungo assieme a loro quando trova un campo dove farle pascolare. Spesso manda segnali sonori rivolti a quelle che magari cercano di allontanarsi, affinché non si perdano, affinché rimangano nel gruppo e non cadano nei pericoli di eventuali dirupi.

Fin da piccola, lungo l’argine vicino a casa oppure in montagna, ero affascinata quando mi perdevo a guardare le pecore e ricordo che, conoscendo un pastore in Cadore, ero sempre molto colpita dalla sua calma, dai suoi movimenti lenti, dal fatto che io non riuscivo mai a capire a che cosa gli servisse il bastone che aveva, perché quando qualcuna delle pecore si allontanava un po’ dal gregge, chiamava semplicemente (sempre con calma, ma con autorevolezza) uno dei cani affinché provvedesse a riportarla nel gruppo.  Non so a voi, ma a me guardare un gregge al pascolo ha sempre dato un’impressione di grande calma.

Forse per questo senso di quiete (che non credo sia cambiato col trascorrere dei secoli) Gesù ha preso spunto per questa parabola, dove lui afferma di essere Dio (tutt’uno col Padre), ma dice chiaramente che è come un pastore, un proprietario del gregge e non un mercenario, e, per ciò stesso, passa la sua vita a porre attenzione alle sue bestie, le conosce una ad una, vive con loro ed è disposto a correre rischi se solo una è in pericolo.

E le pecore vanno con fiducia appresso a lui, riconoscono la sua autorità e lo seguono senza bisogno di manifestazioni violente (bastonate), ma semplicemente perché riconoscono in lui il capo di tutto il gregge e conoscono la sua voce.

Perché mi soffermo sulla quiete?  Dobbiamo vedere il contesto in cui si sviluppa questa parabola: siamo a Gerusalemme e i farisei sono molto agitati per la venuta di questo tizio, con un seguito, che opera perfino prodigi e che predica di essere colui che il popolo attende: il Messia, il figlio di Dio.  Bestemmia!  Stravolgimento dell’ordine costituito per i farisei che, ligi alla legge, non possono tollerare un simile atteggiamento proprio a Gerusalemme, la città fulcro di coloro che credono.  E di fronte a tanta agitazione, ecco la parabola che richiama la calma, perché i grandi annunci non necessitano di grandi urla.

Il passo che abbiamo letto è titolato “il buon pastore” e Giovanni riferisce chiaramente che le pecore siamo noi e Gesù è il pastore, non uno che “fa” il pastore, bensì uno che “è” pastore, non un mercenario che svolge un lavoro e che, di fronte al pericolo, privilegia la propria vita rispetto a quella della pecora, ma uno che è disposto a rischiare, a donare la propria vita per salvare anche una sola pecora, perché quella pecora è conosciuta ed amata come ciascuna delle altre.

In questo senso il gregge non viene interpretato come un insieme omogeneo di creature “allineate e coperte”, senza individualità, senza caratteristiche peculiari, ma come un gruppo di individui diversi, alcuni più miti, altri più trasgressivi. E il pastore lo sa, perché conosce le sue pecore una a una, perché lui “è” il pastore, non “fa” il pastore.

E fin qui l’interpretazione direi che è chiara. Ma c’è di più in questo racconto; almeno due aspetti sui quali dobbiamo porre la nostra attenzione:

1.“Io conosco le mie pecore e loro conoscono me, come il Padre mi conosce e io conosco il Padre”.

Accettato il fatto che il pastore conosce le sue pecore, il fulcro di questa frase però sta nella similitudine che segue, parlando di conoscenza. Gesù ci dice chiaramente che lui conosce il Padre, conosce quel Signore che, anche in quell’epoca, appariva forse distante, come spesso appare distante a noi.  È una conoscenza intima quella che ci viene detta: io conosco Lui e Lui conosce me, con una totale similitudine alla conoscenza che il pastore ha con le sue pecore.

Con questa affermazione Gesù dice che lui non ha solo sentito parlare del Padre, ma LO CONOSCE.  E chi può conoscere Dio, quell’Altissimo così lontano, così evanescente, direi quasi irreale, se non Dio stesso? Certo, la Scrittura ci racconta di altri che lo hanno conosciuto, ma lo hanno visto sotto altre sembianze (un roveto ardente, una presenza testimoniata da eventi prodigiosi come un forte vento, come una voce nel sonno, ecc.), ma qui Gesù ci dice “io conosco il Padre e lui conosce me”, dichiarando quindi uno stretto rapporto fra i due, fra le due manifestazioni del medesimo Dio: Gesù, uomo fra gli uomini, Dio incarnato per tentare una volta di più di prendere contatto con gli esseri umani, visto che i profeti non erano stati sufficienti perché gli uomini capissero.

In questa riflessione, però, c’è qualcosa di più: una sorta di triangolazione fra Dio Padre, Gesù e il gregge che segue Gesù. Come io conosco il Padre e sono da Lui conosciuto, così conosco le mie pecore (una ad una) e sono da loro conosciuto, quindi, come riportato in altri passi dell’evangelo di Giovanni, chi conosce me conosce anche il Padre che mi ha mandato e come Lui ha mandato me, così io mando voi, perché siamo un tutt’uno.  Non so voi, ma spesso mi è capitato di sentirmi lusingata o addirittura, talvolta, atterrita, di far parte di questo triangolo con due figure così grandi: il Padre e il Figlio.  Eppure è così, noi siamo parte di questo rapporto intimo con Dio, sempre che accettiamo di farne parte.

2. Secondo aspetto su cui riflettere: Gesù dice: “Ho anche altre pecore, che non sono di quest’ovile; anche quelle devo raccogliere ed esse ascolteranno la mia voce, e vi sarà un solo gregge, un solo pastore”.

Ma chi sono le altre pecore che non sono dello stesso ovile? Dove sono le altre greggi?

Direi che a noi non è dato di sapere, possiamo solo fare delle supposizioni.

Altri ovili possono essere intesi come altri gruppi, appartenenti ad altre culture lontane dal cristianesimo, ma mi piace pensare che possano essere anche altri insiemi di persone che, pur avendo conosciuto il messaggio cristiano, non lo riconoscono come vero oppure ritengono che gli insegnamenti di fratellanza annunciati nella Scrittura e vivacemente confermati da Gesù nella sua vita possano essere ridotti ad una pura visione orizzontale di solidarietà umana, senza scomodare Dio.

Non lo sappiamo e, in fin dei conti, vale la pena che indaghiamo su chi possano essere?

Talvolta parlo con un mio amico che fa parte delle Assemblee di Dio e spesso percepisco il suo disagio perché, per l’amore che mi porta e per la fede in Dio che mi riconosce, mi dice che lui è certo di essere salvato perché crede in ciò che la sua chiesa gli dice, cioè che chi crede in Gesù e rispetta i dettami della “vera” chiesa (ovviamente per lui le ADI) sarà SICURAMENTE salvo, mentre gli altri credenti dovranno affidarsi alla misericordia del Signore, sperando che gli vada bene, quindi con un certo margine di incertezza.  Sappiamo che una visione del genere è presente anche nei testimoni di Jeova e in altri movimenti fondamentalisti che pur si ispirano alla medesima Scrittura.

Personalmente mi sento molto più vicina ad altri miei due amici, di fede islamica, con i quali spesso mi sono confrontata e dai quali mi sono sovente sentita dire che “Dio è uno solo ed è uno per tutti, comunque lo si chiami”.

Ma, per parlare di altri ovili, cosa dire di coloro che cristiani non sono o addirittura non sono monoteisti?

Nell’ultimo anno, per lavoro, mi sono avvicinata allo studio della devozione e della religiosità indiane, dove, in varie religioni, si contano innumerevoli figure divine e sono quasi certa che se io fossi nata e cresciuta in quel paese, non sarei cristiana, ma buddista, induista, altre forme religiose.

Allora mi chiedo: se vi sono altri ovili, se vi sarà un unico pastore per tutte le pecore, significa che il gregge al quale appartengo è quello giusto per me, ma non è giusto in assoluto, perché, quantomeno per rispetto, la stessa verità può essere interpretata diversamente, nella limitatezza della conoscenza e delle esperienze umane. Quindi: nessuno può dire di avere la verità in tasca, nessuno può dire “io sarò salvato perché sono di questo gregge, mentre gli altri ….. boh?”

Concludendo, noi possiamo dire che abbiamo ricevuto una chiamata, una vocazione, un messaggio di vita e di speranza, ma questo non ci rende migliori degli altri, né che noi siamo nel pieno della verità e gli altri sono fra coloro che saranno dannati, perché un simile ragionamento sarebbe basato unicamente sul timore di cosa avviene dopo e non sulla fiducia che un unico pastore provvederà a tutte le sue pecore, a qualsiasi ovile appartengano, perché non siamo noi coloro che devono giudicare la bontà e la veridicità di un ovile. Noi non siamo Dio!  Siamo certamente in cuore a Dio e, proprio per questo, dovremmo avere Dio nel cuore e rispondere alla sua chiamata improntando la nostra vita ai suoi insegnamenti, cercando di conoscerli per quanto ci sono stati annunciati, ben sapendo che ad altri possono essere stati annunciati in modo diverso, in una sorta di fratellanza universale che va ben oltre le barriere di tradizioni e culture differenti.

Per la vocazione che abbiamo ricevuto e nel rispetto della Bibbia e di coloro che ben prima di noi ci hanno dato le loro interpretazioni, noi crediamo nel Signore della misericordia, del perdono e della salvezza gratuiti. A questo siamo chiamati a credere e ai suoi insegnamenti dobbiamo improntare la nostra vita, perché è questo il gregge al quale apparteniamo.

Quel che accadrà negli altri ovili non è affare nostro. AMEN

Liviana Maggiore