Non temere, perché io ti ho riscattato, ti ho chiamato per nome; tu sei mio! (Isaia 43,1)

Infatti tu sei un popolo consacrato al Signore tuo Dio.
Il Signore, il tuo Dio, ti ha scelto per essere il suo tesoro particolare fra tutti i popoli che sono sulla faccia della terra. Il Signore si è affezionato a voi e vi ha scelti, non perché foste più numerosi di tutti gli altri popoli, anzi siete meno numerosi di ogni altro popolo, ma perché il Signore vi ama: il Signore vi ha fatti uscire con mano potente e vi ha liberati dalla casa di schiavitù, dalla mano del faraone, re d’Egitto, perché ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri.
Riconosci dunque che il Signore, il tuo Dio, è Dio: il Dio fedele, che mantiene il suo patto e la sua bontà fino alla millesima generazione verso quelli che lo amano e osservano i suoi comandamenti, ma a quelli che lo odiano rende immediatamente ciò che si meritano, e li distrugge; non rinvia, ma rende immediatamente a chi lo odia ciò che si merita.
Osserva dunque i comandamenti, le leggi e le prescrizioni che oggi ti do, mettendoli in pratica.
Se darete ascolto a queste prescrizioni, se le osserverete e le metterete in pratica, il Signore, il vostro Dio, manterrà con voi il patto e la bontà che promise con giuramento ai vostri padri.

(Deuteronomio 7,6-12)

Sorelle e fratelli, siamo il tesoro particolare di Dio. Prima il popolo di Israele, e poi noi con loro.
Certo, Dio con il popolo di Israele non ha avuto certo una bella esperienza: tradimenti, trasgressioni, idolatria, egoismo, sfiducia, dubbio… il rapporto tra Dio e il popolo che si è scelto, è stato veramente difficile.
Eppure, nonostante tutto, Dio, fedele al uso patto, non si lascia demoralizzare dalle risposte del popolo: il suo amore è più forte e vince ogni delusione. Per salvare questo popolo spesso ingrato e presuntuoso, manda addirittura suo figlio sulla terra per vivere con lui, perché lo conosca meglio e si fidi… ed è proprio la testimonianza di Gesù che fa riconoscere anche noi parte noi parte del popolo di Dio.
Certo, dopo la prima esperienza avrebbe potuto fare un po’ più di attenzione: poteva darsi un po’ di tempo in più per la scelta, poteva fare un test d’ammissione, una prova di fedeltà… E invece no, sembra che non aver imparato niente in migliaia di anni… almeno dal nostro punto di vista.
Dio viene ad abitare con noi, e si innamora di noi, proprio come si è innamorato di Israele, un vero colpo di fulmine che fa diventare anche noi parte del suo tesoro.

Ma cosa significa essere un tesoro?

Il tesoro è una cosa preziosissima: i pirati lo nascondono, i re costruiscono una stanza apposita per conservarlo, nell’antichità il tesoro di alcuni popoli era protetto da labirinti, trappole, custodi, cosa che, se ci pensate, accade anche oggi, in modi diversi.
Ma perché il tesoro deve essere difeso, protetto, riparato?
Perché appartiene a qualcuno, e qualcun altro non ce l’ha. Se un tesoro fosse alla portata di tutti, in mezzo alla strada, non sarebbe più un tesoro perché tutti potrebbero averlo.

È questa la sua prima caratteristica: appartenere a qualcuno.
Il versetto di questa domenica ce lo ricorda, Dio dice: Non temere, io ti ho riscattato, ti ho chiamato per nome, tu sei mio (Isaia 43,1).
Tu sei mio”. Non ci piace molto questa affermazione, anzi, più che rassicurarci fa paura. Basta pensare alle tante donne, figlie, fidanzate, compagne, mogli che subiscono violenze e soprusi perché considerate proprietà di mariti, fidanzati, padri, a volte dell’intera famiglia. Eppure questa frase, pronunciata da Dio, assume un significato completamente diverso. Sembra che Dio per trovarci reclamando la sua proprietà, abbia veramente seguito le indicazioni di una mappa del tesoro superando ostacoli, labirinti e trappole: Dio ci ha creato, ci ha ascoltato, ci ha liberato, ci ha dato un nome per entrare in relazione con lui… Per questo siamo suoi, non per aggiungere un oggetto alla sua collezione, ma perché come sua proprietà, ora lui può proteggerci, può nasconderci, può difenderci, proprio come si fa con un tesoro, un tesoro che si ama e a cui si tiene.

Noi siamo preziosi, anche se il nostro valore è difficile da quantificare.
Ognuno di noi avrà una scatola dei ricordi, un insieme di fotografie, oggetti, messaggi… che ci ricordano persone, esperienze, piccole conquiste di autonomia, periodi che, belli o brutti, sono stati importanti per la nostra vita e che proprio per questo per noi valgono, sono preziosi. Eppure, se qualcuno vedesse questo nostro “tesoro”, probabilmente lo considererebbe solo un mucchietto di spazzatura.
Forse possiamo spiegare così il nostro valore per Dio: noi siamo il tesoro di Dio perché Dio ama ognuno di noi, non perché siamo più belli, più forti, più intelligenti, più buoni degli altri; ma perché con ognuno di noi Dio condivide un po’ del suo essere.
Ma se noi siamo il tesoro di Dio, perché Dio non ci tiene chiusi in una cassaforte, lontani da ogni minaccia di male?
La risposta la conosciamo: l’amore non costringe; amore non è rinchiudere ma, al contrario, è liberare, dalla paura, dall’in­si­curezza, dall’isolamento, dal male. Se amare è dar vita ad una storia condivisa, Dio non può che rendere stabile la nostra libertà… pur rimanendoci accanto; pur proponendosi come nostro punto di riferimento; pur chiedendoci di riconoscere il suo amore e rispondere con le nostre parole e le nostre scelte al suo giuramento d’amore.
Siamo salvati per grazia e in nessun modo potremo mai ripagare l’amore di Dio, ma questo amore lo possiamo, anzi, lo dobbiamo testimoniare; lo possiamo e dobbiamo condividere, perché Dio non ha scelto un popolo rifiutando tutti gli altri: ha scelto un popolo per avvicinare tutti gli altri, affinché possa essere conosciuto da tutti.

Ed ecco un’altra caratteristica del nostro essere tesoro: siamo un tesoro consacrato a Dio.
Certo, non siamo noi ad aver scelto di esserlo, ci ha scelti Dio, ma con la sua scelta Dio non ci costringe, anzi, ci rende liberi. Ecco perché Mosè invita il popolo a riconoscere nel Dio che lo ha amato, avvicinato, liberato, e che ha condiviso la sua storia, l’unico Dio; ed ecco perché Mosè insiste così tanto sulla fedeltà e su quello che Dio si aspetta dal popolo che si è scelto. Mettere in pratica la legge e i comandamenti è il modo in cui noi condividiamo e facciamo nostro il suo patto, il modo in cui riconosciamo il suo amore e ci riconosciamo preziosi ai suoi occhi, ma è anche un esercizio della libertà che ci viene donata: liberamente testimoniamo la nostra consacrazione. Dio ci ama, ci ha scelto come suo tesoro particolare, ma se ci avesse rinchiuso in una cassaforte avremmo subito il suo amore e non avremmo avuto la possibilità di viverlo, di condividerlo e farlo conoscere agli altri.

Accogliamo il dono di Dio, riconosciamoci suo tesoro, lasciamoci liberare dal suo amore e con gioia consacriamoci insieme come suo popolo.
Amen.

(Past. Daniela Santoro)

…però, secondo la tua parola, getterò le reti

Mentre egli stava in piedi sulla riva del lago di Gennesaret e la folla si stringeva intorno a lui per udire la parola di Dio, Gesù vide due barche ferme a riva: da esse i pescatori erano smontati e lavavano le reti. Montato su una di quelle barche, che era di Simone, lo pregò di scostarsi un poco da terra; poi, sedutosi sulla barca, insegnava alla folla. Com’ebbe terminato di parlare, disse a Simone: «Prendi il largo, e gettate le reti per pescare».
Simone gli rispose: «Maestro, tutta la notte ci siamo affaticati, e non abbiamo preso nulla; però, secondo la tua parola, getterò le reti». E, fatto così, presero una tal quantità di pesci, che le reti si rompevano. Allora fecero segno ai loro compagni dell’altra barca, di venire ad aiutarli. Quelli vennero e riempirono tutt’e due le barche, tanto che affondavano. Simon Pietro, veduto ciò, si gettò ai piedi di Gesù, dicendo: «Signore, allontànati da me, perché sono un peccatore». Perché spavento aveva colto lui, e tutti quelli che erano con lui, per la quantità di pesci che avevano presi, e così pure Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, che erano soci di Simone. Allora Gesù disse a Simone: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini». Ed essi, tratte le barche a terra, lasciarono ogni cosa e lo seguirono.

(Luca 5,1-11)

Un bel racconto con il lieto fine. Ci piace ricordare la folla che ascolta gli insegnamenti di Gesù, la richiesta di Gesù di salire sulla barca per poter parlare ed essere ascoltato meglio, ammiriamo la decisione dei pescatori di seguire le indicazioni di Gesù, prendere il largo e pescare e, dopo il miracolo, il coraggio di lasciare tutto e seguire Gesù.
In effetti gli insegnamenti di Gesù non sono solo delle belle o interessanti storie. Gesù è ascoltato perché ricorda a chi è disorientato, preoccupato, in ricerca, che esiste un punto di riferimento stabile,  Dio, che fa conoscere agli esseri umani la sua volontà in modo che essi possano valutarla e scegliere. Gesù, infatti, parla, ma, alla fine dei suoi discorsi, esige sempre una risposta, bisogna fare una scelta.
E sappiamo che scegliere non è mai facile. Gran parte delle nostre paure è determinata dal dover scegliere senza avere sicurezze sulle conseguenze delle nostre scelte. Ogni nostra decisione ha delle conseguenze, e alcune delle nostre scelte determineranno non solo la nostra vita e i nostri rapporti, ma anche i rapporti e la vita di altre persone.
La Parola di Dio può in qualche modo esserci accanto, sostenerci nelle nostre scelte, ricordandoci il fine verso cui tendere. Certo, non sempre questa Parola ci invita a fare cose che noi approviamo. Anzi, alcune volte le indicazioni che riceviamo ci sembrano completamente sbagliate, e preferiremmo cercare altre soluzioni… e in questo nei pescatori ritroviamo noi stessi.
I pescatori sono sulla riva, con la folla, e mentre riparano e puliscono le reti, ascoltano quella Parola che potrebbe confortarli, incoraggiarli, dopo una nottata di lavoro infruttuosa. E la Parola per Simone e i suoi compagni è: Prendi il largo e gettate le reti per pescare.
Alla fine di un insegnamento, di una predicazione, ci saremmo aspettati un appello alla conversione, una richiesta di impegno, un invito a fare la volontà di Dio… E invece Gesù dice ai pescatori di prendere il largo e a pescare, li invita a tornare al loro lavoro quotidiano.
È una richiesta che non ha niente a che vedere con l’annuncio del­l’a­mo­re di Dio, del suo Regno; ed è un invito che sicuramente Simone e gli altri rifiuterebbero senza esitazioni se a parlare fosse stata qualsiasi altra persona. Anche noi sappiamo che il tempo migliore per la pesca è la notte; intuiamo anche noi che, non avendo pescato niente durante la notte, è assurdo sperare di pescare qualcosa di giorno. E al posto di Simone, avremmo protestato con fermezza: perché rimettere in acqua la barca? Sarebbe una perdita di tempo. Perché Gesù non si limita a fare il maestro senza avere la presunzione di insegnare ai pescatori come pescare?
Maestro, tutta la notte ci siamo affaticati e non abbiamo preso nulla”. A che serve allontanarci nuovamente, ributtare le reti dopo che le abbiamo già pulite? Ciò che otterremo sarà dolo la derisione della gente che ci ha visti tornare dopo una nottata senza pesce e ora ci vede uscire nuovamente, di giorno. È da quando siamo piccoli che peschiamo, la pesca è il nostro lavoro… sappiamo come si fa, quando bisogna uscire, quando bisogna riposarsi, quando bisogna buttare le reti.

Noi difficilmente saremmo andati al largo e avremmo gettato le reti. Quante volte ci siamo demoralizzati, scoraggiati, e abbiamo pensato che insistere non sarebbe servito a niente; quante volte ci ritiriamo, perché razionalmente, non c’è più niente da fare; quante volte ci convinciamo che Dio ha sbagliato, non ci ha indicato la strada giusta, non ha considerato bene la situazione? Quante volte abbiamo pensato che la nostra sapienza valeva più della pazzia di Dio?
Ma Simone prende una decisione importante: rinuncia, o meglio, mette da parte le sue conoscenze, le certezze che si era costruito durante anni e anni di lavoro sul mare, e getta le reti. “Maestro, tutta la notte ci siamo affaticati, e non abbiamo preso nulla; però, secondo la tua parola, getterò le reti”.

E contrariamente alle sue regole, quelle seguite e accettate da tutti come vere, le reti si riempiono di pesci, anzi, ci sono così tanti pesci che c’è bisogno dell’aiuto di altre barche per portarli a riva, e le barche quasi affondano per il peso.
Certo Gesù lo aveva annunciato, ma è difficile credere contro l’evi­denza della razionalità, è difficile sperare contro speranza. È difficile ed è anche umano.
Ma è proprio in questi opposti che si inserisce la fede, perché avere fede significa credere non basandosi sulle proprie forze, sulla propria esperienza, sulla propria razionalità; fede è riconoscere la distanza che esiste tra gli esseri umani e Dio, tra i nostri bisogni di sicurezze, di protezione, di conoscenza e il modo di fare di Dio, che dona, offre, si rende presente quando meno ce lo aspettiamo, quando pensiamo che tutto sia finito, quando avremmo solo voglia di sederci e riposare.

Quando Simone riconosce questa distanza, la gioia e lo stupore per la grande pesca, si trasformano in timore e in vergogna, perché pur avendo ascoltato, non ha avuto fede.
Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore”. Cosa altro avrebbe potuto dire Simone? Anzi, Simon Pietro? Si, perché da questo momento Simone sarà chiamato con il nome di Pietro, un cambiamento che rispecchia il cambiamento della sua vita, l’i­ni­zio di un rapporto nuovo fra lui, Dio, e gli altri. Simone diventa Pietro nel momento in cui riconosce i suoi limiti, le sue aspettative, le sue paure, e si abbandona a Dio. Si riconosce peccatore, incapace di credere e di accettare con gioia e riconoscenza quello che Dio gli offre. E Gesù non lo allontana, non lo rimprovera, né lo trasforma in modo da renderlo perfetto. Gesù accetta Pietro così com’è, ed è lui, così com’è, che diventerà pescatore di uomini. O, meglio, che da ora in poi pescherà per la vita.

Pietro è consapevole che il suo rapporto con Dio è cambiato e qualcosa cambierà inevitabilmente anche nel suo rapporto con gli altri. Pietro e i suoi amici, prima, pescavano per se stessi, per la loro sopravvivenza prendendo nelle loro reti pesci destinati a morire. Da ora in poi pescheranno uomini e donne ai quali offriranno la vita, la speranza, la gioia del cambiamento, quello stesso cambiamento che loro stanno vivendo con Gesù. Un cambiamento che li lascia apparentemente tali e quali, li lascia nel loro lavoro abituale, li lascia con i lo­ro dubbi, con le loro paure, con le loro incomprensioni, ma anche con la certezza che Dio è con loro. E incomprensioni ce ne saranno veramente tante fra Gesù e i suoi discepoli: abbandono, tradimento, delusione. Eppure Gesù ha chiamato proprio quegli uomini e quelle donne, nella loro umanità, con i loro difetti, con i loro limiti, per testimoniare ed offrire la vita così come loro sapevano fare.
Quale altro Dio sceglierebbe fra le sue creature i suoi collaboratori? Quale altro Dio inviterebbe le sue creature a seguirlo, senza schiavizzarle, senza cambiarle, senza porre delle condizioni?
Come Pietro, Giacomo e Giovanni, così anche noi siamo invitati a riconoscere e vivere la vita che Dio ci offre e a portarla agli altri e alle altre, ad essere pescatori per la vita. Non in azioni grandiose, non in seguito a trasformazioni eccezionali, non con discorsi perfettamente costruiti, ma nella nostra vita e nei nostri rapporti di ogni giorno, ma illuminati, sostenuti e guidati da Dio.

Che il nostro agire possa veramente essere per la vita; che le nostre azioni possano testimoniare la nostra gioia nel partecipare alla vita di Dio come peccatori e peccatrici da lui accolti e accolte, scelti e scelte come suoi collaboratori per diffondere il suo amore, la sua grazia, la sua speranza. Amen.

(Past. Daniela Santoro)

Lettera ai Romani 12,17-21

Non rendete a nessuno male per male. Impegnatevi a fare il bene davanti a tutti gli uomini.
Se è possibile, per quanto dipende da voi, vivete in pace con tutti gli uomini.
Non fate le vostre vendette, miei cari, ma cedete il posto all’ira di Dio;
poiché sta scritto: «A me la vendetta; io darò la retribuzione», dice il Signore.
Anzi, «se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare; se ha sete, dagli da bere;
poiché, facendo così, tu radunerai dei carboni accesi sul suo capo».
Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene.
(Romani 12,17-21)

Male, bene, vendetta, ira, pace…
Per quanto ognuno di noi ricerchi una vita tranquilla, in pace con tutti e tutte, ci sono momenti in cui, anche per banalità, ci ritroviamo in disaccordo, litighiamo, siamo costretti a subire dei torti, o dobbiamo lottare per evitare di essere oggetto di violenza, di abuso, di prevaricazione.
Quante volte ci siamo detti: lascia perdere, perdona, fa’ finta di niente… e quante altre volte non ce l’abbiamo fatta e abbiamo reagito, anche solo chiedendo spiegazioni ed esigendo delle scuse… non ci piace essere presi in giro, non ci piace essere considerati degli ingenui e soprattutto non ci piace che il nostro perdonare o evitare lo scontro sia considerato debolezza.

Le parole di Paolo ci interrogano su un aspetto molto concreto della nostra fede: in che modo la nostra fede determina il nostro rapporto con gli altri e le altre, e il nostro comportamento? In che cosa ci differenziamo dagli altri?
In effetti Paolo inizia questa parte della sua lettera sottolineando che siamo in tutto e per tutto uguali agli altri umani: tutti e tutte sperimentiamo il male. Un male che a livelli diversi invade le nostre vite senza distinzioni. Un male che mette in dubbio la bontà del genere umano e a volte anche dell’amore che Dio ci dona e a cui ci chiama. Ci sentiamo minacciati, e non solo dagli estranei, ma anche da chi conosciamo e da chi ci conosce; abbiamo paura, paura di essere ingannati, sfruttati, danneggiati, delusi… E così per lo più stiamo sulla difensiva, pronti a reagire al minimo accenno di prevaricazione, attenti a non oltrepassare la soglia di sicurezza.

Paolo ci conosce bene. Non a caso sottolinea: “Per quanto dipende da voi”. Perché è vero, a volte noi vorremmo, avremmo le migliori intenzioni di vivere in pace, ma sono gli altri che ci frenano o ci ostacolano. E questa sottolineatura, per quanto dipende da voi, scritta per incoraggiarci, diventa la nostra scusa ideale: io vorrei, ma gli altri me lo impediscono.
Ma è proprio vero che facciamo tutto il possibile per vivere in pace? Per costruire situazioni e rapporti giusti? Ci impegniamo a non rendere male per male e, anzi, a mettere in pratica le indicazioni di Gesù ad amare chi ci fa del male e pregare per chi ci perseguita? O mettere in pratica le indicazioni dell’Antico Testamento, citate da Paolo, mettendoci al servizio dei nostri nemici?
Umanamente non ce la possiamo fare. È praticamente impossibile, è una lotta contro noi stessi e contro la razionalità dare fiducia a chi ci ha più volte traditi e ha approfittato della nostra buona fede; o fare il primo passo per aiutare chi non esiterebbe a metterci i bastoni fra le ruote; o rispondere amichevolmente a chi non perde occasione di metterci in ridicolo e parlare male di noi mentendo, facendo insinuazioni, minacciando… Testimoniare diventa allora una lotta. E anche Paolo ne è convinto. La fede per quanto sia consolazione, speranza, sostegno, è anche un andare contro: “Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene”.

È una lotta vera, non simbolica. E Gesù ce lo ha dimostrato. Il proposito di vivere in pace, di amare i nemici, di testimoniare la speranza certa di una nuova vita e di nuovi rapporti, lo ha portato alla morte. Eppure, nonostante non si sia ribellato e non abbia risposto al male ricevuto, Gesù non è mai apparso passivo o rassegnato, anzi, ha sempre reagito spiazzando i suoi interlocutori, testimoniando fino in fondo la volontà di Dio, e spingendo alla riflessione; non ha evitato le persone indesiderabili, ma le ha accolte, indistintamente; è stato tradito e abbandonato non solo da coloro che ce l’avevano con lui, ma anche da chi gli era stato più vicino… eppure proprio a queste persone si è rivolto dopo la resurrezione; le sue ultime parole sono state di perdono e intercessione per chi non aveva saputo scorgere nella sua testimonianza la presenza di Dio. Fino alla fine ha mostrato che è possibile un mondo in cui i rapporti fra le persone siano improntati non al tornaconto personale, ma alla pace; siano guidati dall’amore. Gesù ha vinto il male con il bene. Ha vinto il male proprio dell’umanità, testimoniando il bene che Dio dona all’umanità.
È questa la nostra carta vincente, la nostra arma segreta. Per qualsiasi male dobbiamo affrontare, Dio ci fornisce una riserva di amore e speranza. Ci invita a demolire, pezzettino per pezzettino, il male che ci circonda; e a costruire, pezzettino per pezzettino, un bene universale che oltrepassa il tempo e lo spazio, per raggiungere il regno di Dio già adesso.

Eppure queste parole, le parole di Paolo, e prima ancora di Gesù, e prima ancora di Dio nell’Antico Testamento, continuano a lasciarci incerti, potrebbero sembrare un invito a subire il male e a perdonare nella speranza che non reagendo, amando e perdonando, chi ci ferisce possa pentirsi e cambiare atteggiamento… Ma sappiamo per esperienza che se lasciamo correre, la prossima volta la batosta sarà più grande.
E ancora una volta Paolo sembra prevedere le nostre obiezioni: “miei cari, non fate le vostre vendette, ma cedete il posto all’ira di Dio”.
Testimoniare la volontà di Dio, non significa far finta di niente, dimenticare, prestarsi come bersaglio. Noi non rendiamo male per male, viviamo in pace, rinunciamo alla vendetta, per lasciare posto all’ira di Dio. Perché se è vero che Dio è misericordioso, è anche vero che Dio è un Dio geloso, è un Dio che non dimentica il male che chi crede in lui subisce a causa della giustizia. E questo male lui lo annienta, come ha annientato il potere della sofferenza, del tradimento, della paura, della morte nella resurrezione di Gesù. Noi siamo chiamati a testimoniare nuovi rapporti sapendo che Dio vendicherà smascherando e distruggendo quello che si oppone al suo progetto di pace e amore. D’altra parte è l’amore che rende evidente l’odio; è la lealtà che rende evidente la slealtà; è la fiducia che rende evidente la sfiducia; è la mano tesa che rende evidente la mano tenuta in tasca. Ed è a questo che noi siamo chiamati: rendere visibile il male per poterlo insieme combattere.
Non demoralizziamoci. Non rassegniamoci. Non temiamo di testimoniare l’amore e la pace che Dio ci dona. Mostriamo al mondo i tanti aspetti del male che ci circonda e agiamo con speranza confidando nella promessa di Dio. Amen.

Past. Daniela Santoro

Il Dio della pazienza e della consolazione
vi conceda di aver tra di voi un medesimo sentimento secondo Cristo Gesù,
affinché di un solo animo e d’una stessa bocca
glorifichiate Dio, il Padre del nostro Signore Gesù Cristo.
Or il Dio della speranza vi riempia di ogni gioia e di ogni pace nella fede,
affinché abbondiate nella speranza, per la potenza dello Spirito Santo.

(Lettera ai Romani 15,5-6.15)