Sermone: EDE E OPERE (ESSERE E FARE)

A che serve, fratelli miei, se uno dice di avere fede ma non ha opere? Può la fede salvarlo? Se un fratello o una sorella non hanno abiti e mancano del cibo quotidiano, e uno di voi dice loro: «Andate in pace, scaldatevi e saziatevi», ma non date loro ciò che è necessario al corpo, a che serve? Allo stesso modo è la fede: se non ha opere, è per sé stessa morta.  Anzi uno piuttosto dirà: «Tu hai la fede, e io ho le opere; mostrami la tua fede senza le tue opere, e io con le mie opere ti mostrerò la mia fede».  Tu credi che c’è un solo Dio, e fai bene; anche i demoni lo credono e tremano.  Insensato! Vuoi renderti conto che la fede senza le opere non ha valore?  (Giac 2,14-20)

Poco tempo fa un amico che ama leggere i miei numerosi scritti (quelli che definisco impietosamente i miei “sproloqui”) mi diceva che da essi traspare una chiara visione esistenzialista, un modo di approcciare la vita sulla fondamentale differenza tra “essere” e “avere” di frommiana memoria, potremmo anche dire più intuitivamente di una differenza tra “essere” e “fare”.

Su questo si è aperta una piacevolissima conversazione e ne sono scaturite alcune considerazioni che vorrei condividere con voi oggi, probabilmente, spero, trovando minori difficoltà a farmi comprendere rispetto al confronto con il mio amico il quale si palesa come un puro razionalista.

Se facciamo riferimento al passo di Giacomo che abbiamo sentito, potremmo assimilare la fede all’essere, in quanto la fede per la quale saremo salvati non è “visibile”. Eppure noi, da rigorosi riformati, diciamo a gran voce che la nostra giustificazione davanti a Dio avverrà per sola fede e non certo per il concorso delle nostre opere.

Ma cosa significa “giustificazione”? Cosa intendiamo quando diciamo che con la venuta del Signore Gesù, con il suo sacrificio per noi, siamo stati chiamati a giustificazione?

Significa che, a causa della nostra situazione di costante peccato nella quale viviamo, a prescindere dalle migliori intenzioni di condurci solidalmente e fraternamente nell’esistenza, siamo avvolti dai nostri piccoli e grandi egoismi, privilegiamo la nostra individualità, siamo poco o per nulla disponibili a dividere ciò che abbiamo e ciò che siamo con gli altri, con TUTTI gli altri (e non solo con coloro che ci piacciono); insomma, nonostante tutte le nostre migliori intenzioni, non siamo in grado di percorrere le vie dell’amore e così è che ci conduciamo nella vita in maniera assolutamente infedele agli insegnamenti di Dio, non riusciamo a rispettare la legge di Dio, la quale viene trasgredita in toto anche se non ne viene rispettata solo una parte.

Probabilmente fra noi non c’è chi ha ucciso, ma come ce la caviamo quando si parla di “non desiderare cosa alcuna del tuo prossimo”? Oppure come abbiamo risposto nella nostra vita a “onora il padre e la madre”? E ancora, come abbiamo risposto al comandamento “non rubare”, se per rubare non si intende soltanto rapinare un’altra persona delle sue cose, ma si intende anche ingannare l’altro per il proprio tornaconto, o trarre profitto dallo sfruttamento delle energie lavorative di altri? Ma ancora, come rispondiamo nella nostra vita al dettato “non avrai altri dei all’infuori di me” se facciamo una riflessione sui vari idoli che riusciamo a costruirci: denaro, carriera, prestigio? Non sono questi idoli del tutto simili al vitello d’oro?

Ecco allora che abbiamo assoluto bisogno della giustificazione per presentarci davanti al nostro Signore, perché, per quanto facciamo, la nostra vita testimonia contro di noi, trasgressori della legge divina.

È questa la giustificazione che noi diciamo si attua concretamente in una persona già nel momento in cui crede, cioè quando pone la sua fiducia in Cristo e nell’amore di Dio.

Una giustificazione del tutto incondizionata. L’uomo non deve fare nulla, deve “semplicemente” affidarsi a Dio, credere ciecamente in Lui, accettarne completamente l’opera sua, anche quando può diventare incomprensibile.

Su questo penso che, da credenti, possiamo essere d’accordo, però non possiamo certo relegare comodamente il tutto ad un sentimento, ad un convincimento sulla bontà dell’opera di Dio. Sarebbe troppo, troppo comodo!

Un approccio del genere giustificherebbe quanti magari possono dire “per voi protestanti è tutto più facile, perché basta avere fede e non tenete conto delle opere” (e vi garantisco che me lo sono sentita dire più di una volta).

Non è così, ovviamente.

Le opere sono molto importanti, sono assolutamente essenziali nella vita del cristiano.  E lo sono semplicemente perché il nostro operare testimonia ciò che siamo e ciò in cui crediamo. Giacomo è chiarissimo su questo: non ci può essere fede senza opere, perché il nostro “fare” discende da ciò noi siamo, dai convincimenti esistenziali che nutriamo, dall’idea di vita che abbiamo.

Le nostre opere testimoniano come noi intendiamo l’amore, come noi intendiamo la fratellanza, come noi interpretiamo i rapporti interpersonali, come noi vogliamo condurci nella vita.  Il nostro operare discende direttamente dal nostro essere, è lo specchio di ciò in cui diciamo di credere.

Ecco perché le opere sono importanti e lo sono soprattutto per coloro che dicono di credere nel Dio dell’amore.

Tutto ciò però nulla a che vedere con un nostro concorso in merito alla giustificazione, ma deve rimanerci come una costante spina nel fianco per interrogarci continuamente sul nostro modo di condurci nella vita.

Non c’è una bilancia sul piatto della quale al peso della fede si somma il peso delle opere per raggiugere l’obiettivo della salvezza al cospetto di Dio!  E, tra l’altro, ancorché questa bilancia esistesse, vorrei vedere come ce la caveremmo se, per equità, sull’altro piatto venissero pesate tutte le opere mancate, tutte le nostre trasgressioni, tutte le nostre infedeltà al messaggio dell’amore, tutte le nostre iniquità, tutte le nostre mancanze di carità. Una bilancia del genere, se esistesse, non ho dubbio da che parte penderebbe.

Ecco perché, nella nostra assoluta situazione di peccato, possiamo affidarci solamente alla benevolenza di Dio che, nel suo figliolo Gesù Cristo, ha già provveduto per noi, affinché possiamo presentarci al suo cospetto come esseri ingiusti quali siamo, ma giustificati per il sacrificio della croce.

Ciò non vuol dire che ci sia una taratura fra fede e opere, ma, più semplicemente c’è un unico peso: quello della fede, il dono che ci è stato fatto gratuitamente e che decidiamo di accogliere o rifiutare nella nostra assoluta libertà; ma una fede che deve essere palesata, deve trovare dimostrazione nelle nostre opere, in ciò che facciamo proprio in nome della fede che diciamo di avere.

Che il Signore ci aiuti a proclamare al mondo la buona novella anche mediante il nostro operare, affinché la nostra fede non rimanga uno sterile pronunciamento.

AMEN!

Liviana Maggiore