Sermone: PASQUA IN AGOSTO?

Giovanni 6,55-65

Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue è vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me, e io in lui. Come il Padre vivente mi ha mandato e io vivo a motivo del Padre, cosí chi mi mangia vivrà anch’egli a motivo di me. Questo è il pane che è disceso dal cielo; non come quello che i padri mangiarono e morirono; chi mangia di questo pane vivrà in eterno». Queste cose disse Gesú, insegnando nella sinagoga di Capernaum. Perciò molti dei suoi discepoli, dopo aver udito, dissero: «Questo parlare è duro; chi può ascoltarlo?» Gesú, sapendo dentro di sé che i suoi discepoli mormoravano di ciò, disse loro: «Questo vi scandalizza? E che sarebbe se vedeste il Figlio dell’uomo ascendere dov’era prima? È lo Spirito che vivifica; la carne non è di alcuna utilità; le parole che vi ho dette sono spirito e vita. Ma tra di voi ci sono alcuni che non credono». Gesú sapeva infatti fin dal principio chi erano quelli che non credevano, e chi era colui che lo avrebbe tradito. E diceva: «Per questo vi ho detto che nessuno può venire a me, se non gli è dato dal Padre».

Il testo biblico di quest’oggi può apparire strano per questo periodo dell’anno. In altri lezionari, appartiene a quei cicli di testi che accompagnano la chiesa nel cammino verso la Pasqua. È vero che ogni domenica ricorda alle chiese cristiane il giorno della risurrezione del Signore, ma una “pasqua” nel bel mezzo dell’estate è quanto meno anomala per il ritmo dei nostri calendari! Eppure, proprio questo testo ci offre una chiara presentazione di ciò che la Pasqua significa per la nostra fede. Lo fa con termini che per il nostro orecchio moderno – che è anche l’orecchio di persone che hanno già udito l’annuncio dell’Evangelo e lo hanno fatto proprio – suonano strani; tuttavia, facciamo attenzione, perché queste parole non suonano strane solamente a noi. Gesù, l’abbiamo sentito, fa un riferimento al mangiare la sua carne e al bere il suo sangue: è chiaro che siamo portati a pensare alla condivisione del pane e del vino nella Cena del Signore, ma, al tempo stesso, queste parole hanno in sé un qualcosa di brutale, qualcosa che ci colpisce con la sua violenta concretezza. Questa medesima percezione ci accomuna, in qualche misura, agli ascoltatori nella sinagoga di Capernaum. Pensateci bene: quale schiaffo per la religiosità ebraica il sentir parlare di bere del sangue! Tra i divieti fondamentali della legge ebraica, che regola e regolava l’alimentazione degli Ebrei osservanti, vi è proprio il divieto di consumare il sangue dell’animale ucciso; questo perché nel sangue si ritiene che sia contenuta la vitalità stessa dell’animale e quindi non ci si può “appropriare” della vita di un’altra creatura. L’evangelista Giovanni precisa che queste parole sono state pronunciate in un luogo in cui l’attenzione per ciò che Gesù avrebbe detto era garantita: tanto maggiore sarà quindi stato lo sconcerto dei presenti.

Ora, il nostro compito non è quello di fermarci allo sconcerto degli ascoltatori di Capernaum o di immedesimarci in esso. Possiamo piuttosto provare ad ascoltare con maggior attenzione la spiegazione che Cristo stesso offre delle sue parole, per comprendere meglio quale sia la sua intenzione. Che cosa mangiare la carne e bere il sangue significhi, viene spiegato ancora nella prima parte del nostro testo. Gesù usa l’espressione “dimorare in me”, rimanere in lui si potrebbe anche dire. Mangiare la carne e bere il sangue di Cristo significa essere partecipi della sua vita, del suo modo di vivere; condividere in profondità la nostra esistenza con la sua, vivere in una profonda comunione, il che non significa limitarsi a sfiorare ciò che sta alla base della nostra vita, ma vedere rinnovata e addirittura cambiata questa base. Si potrebbe dire che questa dimensione del dimorare in Cristo ci invita ad una comunione spirituale con lui, ma è necessario precisare questa parola “spirituale”. Una comunione spirituale non è qualcosa che non si intreccia con la nostra vita concreta; se comprendiamo in questo modo la comunione con Cristo allora la fiducia che riponiamo in lui, la fede che ci guida in questo rapporto non sarà altro che una caricatura, qualcosa che diciamo di considerare importante, ma che in realtà mettiamo sempre in disparte quando si tratta di prendere delle decisioni importanti per la nostra esistenza. In questo senso, l’immagine forte usata da Gesù (il verbo usato per dire mangiare significa letteralmente “masticare”) ci riporta a tutta la concretezza della comunione spirituale con Cristo: quella medesima concretezza che noi abbiamo in mente quando pensiamo all’affetto o all’amore che ci lega ad una persona. Una concretezza di questa comunione spirituale che proprio e anche la celebrazione della Cena del Signore intende confermare: nella condivisione del pane e del vino la comunità cristiana si confronta con il fatto che in questo segno concreto, c’è un riflesso di quella comunione profonda che promette e dona vita in Cristo. Chi mangia di questo pane, chi dimora in Cristo, chi vive spiritualmente con lui, vive in eterno.

Qual è la reazione di fronte ad un discorso di questo tipo? Come possono reagire delle persone di fronte ad un discorso che non le invita soltanto a nutrirsi di qualche bel pensiero, ma esprime con tale forza una pretesa concreta sulla loro vita? Come si reagisce quando qualcuno ti spiega che l’impegno che ti è richiesto non è solo una volta ogni tanto ed esclusi, ovviamente, tutti i giorni festivi? Si dice spesso che le persone nella nostra società sono allergiche di fronte alle proposte che sembrano richiedere un impegno continuativo. In questo, mi pare di poter dire, possiamo individuare una seconda somiglianza con la reazione degli ascoltatori di Gesù. Che cosa rispondono quanti l’ascoltano nella sinagoga. “Questo parlare è duro; chi può ascoltarlo?”. È opportuno dividere questa frasetta in due momenti: “Questo parlare è duro” non significa che sia duro da capire. A Capernaum hanno capito benissimo quanto Gesù diceva e chiedeva. Questo parlare è duro da ascoltare e quindi, “chi può ascoltarlo?”. In questa espressione il verbo ascoltare significa anche ubbidire. Chi può ubbidire a quanto Gesù dice, chi può mangiare questa carne che è difficile da digerire, chi può dimorare in Cristo vivendo quella comunione che impegna tutta la vita? Credo che queste domande interpellino anche la nostra coscienza di credenti.

Ciò che suscita queste domande che ci rendono inquieti è la parola esigente che Gesù ci rivolge; una parola che come viene detto poco dopo è spirito e vita, cioè dona vita in abbondanza, dona questa comunione vivente con Cristo e con il Padre. Ma è anche una parola che chiede ubbidienza nella concretezza della vita. Quando penso a questa dimensione esigente della Parola che ci viene rivolta, di questa parola che vivifica, mi sembra tanto più ingiusto il giudizio che abbastanza spesso si sente da parte di persone che rimangono al di fuori della chiesa nei confronti di quanti vivono la vita di una comunità cristiana. Spesso ci sono persone che partono dal presupposto che il vivere come cristiani sia fondamentalmente un atteggiamento, che non necessita di tante parole. Forse questo modo di pensare deriva da delusioni che hanno vissuto con dei cristiani che si riempivano solamente la bocca dei buoni propositi della loro fede. Eppure chi pensa che l’essere cristiani sia solo un modo di comportarsi, banalizza molto questa parola esigente e concreta che cambia la vita di chi la incontra, perché crea quella comunione vivente con Gesù Cristo, la quale non si può esprimere solamente in una serie di “buoni comportamenti”. Un pastore racconta di aver fatto una volta una visita in una famiglia di persone che non frequentavano la chiesa. Sentendosi in obbligo di giustificare questa assenza costante, un membro di quella famiglia disse: «Sa, pastore, noi non veniamo in chiesa, ma siamo comunque delle brave persone: quelli che sono tutte le domeniche seduti allo stesso posto non sono necessariamente migliori di noi!». Il pastore ha saggiamente risposto: «Avete ragione, quelli che vengono in chiesa la domenica non sono automaticamente migliori di voi per il fatto di venire in chiesa. Ma quelli che vengono in chiesa e ascoltano, quelli sì che lo sono!». L’ascolto – che in questo caso significa anche ubbidienza – della parola esigente di Cristo ci rende migliori, sorelle e fratelli, anche quando questo non si può tradurre in un comportamento da mostrare con un po’ di orgoglio. E la parte migliore che ci viene offerta è la maggiore profondità di comunione con Cristo.

Ecco, dunque, nel bel mezzo dell’estate, ritorniamo verso la Pasqua, ricordandoci che il messaggio centrale della nostra fede ci parla di vita nuova, non immaginata o semplicemente sognata da qualcuno. È una vita piena e fatta di legami concreti, innanzitutto con Gesù Cristo, che si rivolge a noi per offrirci ciò che niente e nessuno possono strapparci. E la Parola che ci annuncia questo, è anche capace di creare questa realtà. Questo ha insegnato Gesù a Capernaum e insegna anche a noi oggi.

Amen.

Pastore William Jourdan

 

 

 

 

 

 

Matteo 13, 1-9.18-23

In quel giorno Gesù, uscito di casa, si mise a sedere presso il mare; e una grande folla si radunò intorno a lui; cosicché egli, salito su una barca, vi sedette; e tutta la folla stava sulla riva.  Egli insegnò loro molte cose in parabole, dicendo: «Il seminatore uscì a seminare. Mentre seminava, una parte del seme cadde lungo la strada; gli uccelli vennero e la mangiarono. Un’altra cadde in luoghi rocciosi dove non aveva molta terra; e subito spuntò, perché non aveva terreno profondo; ma, levatosi il sole, fu bruciata; e, non avendo radice, inaridì. Un’altra cadde tra le spine; e le spine crebbero e la soffocarono. Un’altra cadde nella buona terra e portò frutto, dando il cento, il sessanta, il trenta per uno. Chi ha orecchi oda».

«Voi dunque ascoltate che cosa significhi la parabola del seminatore! Tutte le volte che uno ode la parola del regno e non la comprende, viene il maligno e porta via quello che è stato seminato nel cuore di lui: questi è colui che ha ricevuto il seme lungo la strada.  Quello che ha ricevuto il seme in luoghi rocciosi, è colui che ode la parola e subito la riceve con gioia, però non ha radice in sé ed è di corta durata; e quando giunge la tribolazione o persecuzione a motivo della parola, è subito sviato. Quello che ha ricevuto il seme tra le spine è colui che ode la parola; poi gli impegni mondani e l’inganno delle ricchezze soffocano la parola che rimane infruttuosa. Ma quello che ha ricevuto il seme in terra buona è colui che ode la parola e la comprende; egli porta del frutto e, così, l’uno rende il cento, l’altro il sessanta e l’altro il trenta».

 

Care sorelle e cari fratelli,

eccoci di fronte a una famosa parabola, che molti di noi ricordano sin dalla Scuola Domenicale!

Ascoltandola ci torna subito alla mente il famoso ritratto di Vincent Van Gogh, il seminatore al tramonto. Un’immagine oggi non abituale per noi; oggi fatichiamo a vedere anche i mezzi meccanici intenti alla semina, e la semina manuale è un’attività che avviene solo negli orti.

Era un’immagine abituale, invece, per le folle che stavano ascoltando Gesù: secondo le usanze agricole palestinesi la semina avveniva prima che il terreno fertile venisse arato. Il contadino spargeva il seme con abbondanza per ogni dove, in un modo che certamente ci stupisce: così – dice Gesù – una parte del seme cade lungo la strada, dove viene divorata dagli uccelli; un’altra parte cade tra i sassi e subito germoglia ma poi, allo spuntare del sole, secca per mancanza di radici; un’altra parte cade tra le spine, che ben presto la soffocano; un’altra parte cade infine sulla terra buona e porta frutto, dove il cento, dove il sessanta, dove il trenta.

Ci sentiamo interrogati in molte maniere da questa parabola: ci interroga sul nostro essere testimoni della Parola, sulla nostra capacità di superare la delusione di una testimonianza apparentemente inefficace, sulla nostra capacità di porre ogni nostra fiducia sulla Parola.

Ci interroga anche sulla nostra capacità di ricevere la Parola.

Su questo vorrei porre la mia attenzione oggi, e vorrei farvi una domanda: quale terreno vi sentite di essere oggi? Quale terreno pensate di essere, voi, oggi?

Ecco, io credo che i quattro terreni di cui parla Gesù siano tutti rappresentati, di volta in volta, nel nostro unico cuore, siano quattro possibili risposte alla Parola che ciascuno, ciascuna di noi ha sperimentato nella propria vita!

Non siamo un terreno lastricato, un terreno sabbioso, o un terreno coperto di rovi; eppure ciascuno, ciascuna di noi ha sperimentato la difficoltà di rispondere pienamente alla Parola di Dio.

Quante volte ascoltiamo la Parola di Dio, ma è come non l’avessimo ascoltata; incontra in noi una sorta di impermeabilità. Succede quando la misuriamo sui nostri pensieri: se va bene col nostro pensiero l’accettiamo, se va male la eliminiamo, la accantoniamo; succede quando ascoltiamo la Parola, però ci diciamo “Siamo concreti, la vita è un’altra cosa”, come se la Parola di Dio non c’entrasse con la vita. Questo è perfettamente umano, è normale, eppure è diabolico: “viene il maligno e porta via quello che è stato seminato nel cuore di lui: questi è colui che ha ricevuto il seme lungo la strada”.

Altre volte, invece, accogliamo la Parola con gioia, con entusiasmo, almeno sul momento, poi di fronte alle difficoltà, ripieghiamo. Di fronte alle preoccupazioni del mondo, di cosa vivremo, di cosa mangeremo, di cosa vestiremo, cadiamo. La difficoltà vera è che la Parola entri nella quotidianità della vita, che diventi quell’amore vincente che poi norma l’esistenza quotidiana. La difficoltà vera è che riuscire a rispendere alla Parola con la nostra vita; saper vivere secondo la Parola, anche, e soprattutto, quando questo significa fare scelte difficili, scelte che non seguono i valori del mondo. Perché le preoccupazioni del mondo sono in tutti e tutte noi. La mondanità è dentro di noi, anche quella brama di avere, di potere, di apparire, quelle garanzie, quelle sicurezze che in fondo sostituiscono un po’ Dio.

Occorre interiorizzare la Parola, «ruminarla» con attenzione; occorre perseverare nell’ascolto: è facile accogliere la Parola con gioia per breve tempo, lasciare che essa porti frutto per un attimo, come il seme tra i sassi; ma così si è persone «di un momento», prive di radici, incapaci di fare fronte alla prova del tempo e alle tribolazioni che un ascolto autentico comporta. Occorre lottare contro gli idoli mondani che ci seducono; eppure in questo cammino, che sicuramente sarà fatto di cadute, di strade sbagliate, di momenti in cui ci fermiamo, su una cosa possiamo contare, su una cosa possiamo fare affidamento: su un seminatore che sparge il suo seme su ogni terreno, che non calcola quanto il terreno è produttivo, e che torna a seminare di nuovo, e di nuovo ancora.

Il nostro Signore è un Dio che ci ha amati e amate sino al punto di dare il suo unico figlio per la nostra salvezza; è un Dio che ci rialza ad ogni nostra caduta, che ci viene a cercare quando ci smarriamo.

Allora credo che la parabola del seminatore più che distinguere i veri credenti dagli increduli, coloro che perseverano nella fede rispetto a quanti accolgono la Parola in maniera superficiale, vuol farci comprendere che anche nelle avversità della vita, anche quando la terra sembra essere oscurata dal male, non bisogna temere: la parola di Dio farà il suo corso, perché “Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza aver annaffiato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, affinché dia seme al seminatore e pane da mangiare, così è della mia parola, uscita dalla mia bocca: essa non torna a me a vuoto, senza aver compiuto ciò che io voglio e condotto a buon fine ciò per cui l’ho mandata” (Isaia 55, 10-11).

Amen

Maria Paola Gonano