Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 10 FEBBRAIO 2013 (Num 11:10-15; Lc 18:31-34; At 16:6-15 testo di predicazione)

Apriamo gli occhi ai sogni e alle vie nuove che il Signore ci indica nei sogni

Care sorelle e cari fratelli, tutti noi abbiamo dei progetti. Non importa quale sia la nostra età anagrafica, non importa quali siano le nostre condizioni sociali, economiche, culturali; non importa nemmeno che godiamo di buona salute, perché in qualsiasi circostanza, anche nelle più difficili, ci è data la possibilità di prefissarci delle mete, degli obiettivi e di impegnarci al massimo, pur nei limiti delle nostre forze e delle nostre possibilità, per realizzarli. Può trattarsi di obiettivi modesti, limitati, ma anche questo non ha importanza: l’importante è la consapevolezza che il “guardare oltre” per poter “andare oltre” sono, al tempo stesso, un dono concesso e un impegno assegnato a ciascun essere umano secondo il progetto del Signore: perché anche il Signore ha un progetto su ciascuno di noi. E qui sorgono i problemi: perché talvolta, anzi abbastanza frequentemente, i nostri progetti non coincidono con i progetti del Signore e questo riguarda anche quelli che sembrano corrispondere in tutto alla volontà del Signore che sembrano portarci a lavorare per il Signore. Ne abbiamo una conferma in questo passo degli Atti degli Apostoli. Anche Paolo e i suoi collaboratori avevano un progetto. Ma questo progetto lo veniamo a conoscere solo incidentalmente, in negativo, come un progetto abortito sul nascere, annullato. Ce lo dice quello che definirei il versetto chiave di questo passo, lo strano versetto “lo Spirito Santo vietò loro di annunziare la parola in Asia”. Paolo e i suoi intendevano probabilmente predicare l’Evangelo nelle regioni di Efeso, Smirne e Pergamo, prendendo contatto con le colonie giudaiche ma anche con i pagani del luogo. Che c’era di male? Si trattava, secondo ogni apparenza e secondo ogni criterio umano, di un progetto degnissimo, encomiabile, perfettamente in linea con quanto stabilito dalla conferenza di Gerusalemme, che aveva sancito l’apertura ai pagani. Eppure, lo Spirito Santo non lo permette. Paolo e gli altri puntano allora verso le grandi città della Bitinia sul Mar Nero, Nicomedia, Nicea; ma anche qui interviene a bloccarli lo Spirito. Certo, il gruppo di Paolo era animato dalle migliori intenzioni, e questi aspiranti missionari dovevano sentirsi estremamente frustrati vedendosi incapaci di raggiungere gli obiettivi che si erano prefissati e condannati a un vagabondaggio casuale, senza meta apparente. Credo che per molti di noi non sarà difficile riconoscersi nella loro delusione, nel loro sconcerto, nella loro perplessità. Avevano pianificato un perfetto itinerario, a gloria del Signore, e ora il Signore sembrava divertirsi a mettere loro i bastoni tra le ruote. Evidentemente il Signore voleva qualcosa di diverso da loro, ma che cosa? A rivelarlo a Paolo e ai suoi collaboratori è un sogno; un sogno al quale essi decidono di affidarsi senza esitazioni. Si tratta di un momento decisivo, gravido di conseguenze, un momento la cui importanza è sottolineata, nel testo, dal passaggio dalla terza alla prima persona plurale: forse per coinvolgere maggiormente i lettori, forse perché alla base di questo testo c’erano appunti, una sorta di “diario di viaggio” redatto dai protagonisti. L’invocazione del macedone apparso loro in visione spalanca strade nuove e impreviste; il fallimento dei progetti precedenti lascia libero campo al nuovo piano ideato e attuato dallo Spirito. Naturalmente i protagonisti umani non sono automi manovrati dall’alto; sono liberi esseri umani, liberi e abbastanza dinamici per seguire con elasticità e fantasia le nuove strade che le circostanze storiche lasciano aperte. Sono tanto liberi e ricchi di fantasia da affidarsi a un sogno. Chi potrebbe affidarsi a un sogno, oggi, se non per raccontarlo allo psicanalista? Invece, Paolo e i suoi disegnano il loro nuovo itinerario sulla base del sogno, e sulla base del sogno vanno a Filippi, allora una grande città che idealmente congiungeva Roma con l’Oriente. Lo Spirito dunque ha portato Paolo e i suoi amici in una metropoli pulsante di vita, in un luogo dove “le cose avvengono”, un luogo che offre molte possibilità. Eppure, essi non stabiliscono un piano di lavoro, non cercano dei collegamenti sul posto, sembrano addirittura non sapere bene dove andare. Cercano una sinagoga per cominciare ad annunciarvi l’Evangelo, ma a Filippi una sinagoga non c’è; c’è solo un luogo di preghiera a cielo aperto, lungo un fiume o torrente adatto per le abluzioni rituali. Ci vanno, a questo luogo di preghiera, e trovano una riunione di sole donne. Come mai? Forse la locale comunità giudaica era così esigua da non annoverare quasi nessun uomo? Certo è che altri, a questo punto, avrebbero salutato e se ne sarebbero andati altrove. Gli apostoli invece predicano a queste quattro donnette, ed è notevole che questa è l’unica volta nel NT in cui un gruppo di sole donne, riunito per un atto cultuale, diventa destinatario della predicazione dei missionari. Tra queste donne che ascoltano la predicazione di Paolo c’è Lidia, che oltre ad essere donna è per giunta non ebrea, è una pagana, sebbene spiritualmente vicina al giudaismo. Ma è non è una donnetta qualunque: è una signora di buona condizione sociale e, diremmo noi, “in carriera”; è un’imprenditrice, una donna d’affari che commercia in un genere di lusso quale la porpora e dispone di una casa sufficientemente grande per dare ospitalità ai missionari ed accogliervi il primo nucleo della comunità cristiana. Perché a Lidia “il Signore aprì il cuore” e, per volontà e opera dello Spirito (non certo per merito di Paolo) questa pagana chiede di essere battezzata insieme con la sua famiglia. Perché proprio lei, tra tutte le donne che avevano ascoltato le parole di Paolo? Non sappiamo dirlo. Anche questo è uno “scherzo” dello Spirito. Comunque sia, questa donna diventa la prima europea cristiana. È l’antenata nella fede di tutti noi. Senza Lidia, oggi noi non saremmo qui. Non saremmo qui con i nostri progetti, progetti spesso frustrati e vanificati, proprio come i progetti di Paolo e dei suoi amici. Non saremmo qui a lamentarci, perché questo è uno dei tanti elementi che ci distinguono da Paolo e dagli altri primi membri della comunità cristiana e primi evangelizzatori: che loro non si lasciavano scoraggiare da nulla, mentre per noi sconforto e recriminazione sono atteggiamenti abituali. Il nostro ritratto lo troviamo non tanto in questi versetti degli Atti che ci dipingono il gruppo guidato da Paolo, un gruppo animoso, instancabile, fiducioso a dispetto di tutto e di tutti; il nostro ritratto lo troviamo piuttosto nel passo dei Numeri nel quale il popolo di Israele che “piagnucolava in tutte le famiglie, ognuno all’ingresso della propria tenda” ha ridotto all’esasperazione e quasi alla disperazione un Mosè che non sa più dove sbattere la testa. Anche noi piagnucoliamo, ci lamentiamo, ognuno nella propria chiesa e della propria chiesa. Siamo in pochi, una volta eravamo molti di più (basta guardare le vecchie foto di gruppo, basta ascoltare i ricordi dei più anziani tra i membri di chiesa…). Lavoriamo tanto, come lavoravano i nostri padri nella fede, eppure quelli mietevano successi mentre noi non troviamo ascolto… Credo sia un po’ il destino dei cristiani, questo faticare per l’opera del Signore e trovarsi poi, troppo spesso, con un pugno di mosche in mano. In particolare, almeno in Italia, credo sia questo il destino dei protestanti. Tanti protestanti in passato, fin dal ‘500, hanno avuto progetti luminosi che non sono andati in porto: costruire il regno dei santi, convertire l’Italia alla Riforma… Ciò che hanno ottenuto in passato è stata la persecuzione; ciò che ottengono, ciò che otteniamo adesso, non di rado è l’indifferenza. Tutto questo non ci piace. Non è quello che noi avremmo desiderato, che noi desideriamo; ma, soprattutto, ci sembra che ciò non corrisponda alla volontà del Signore. In altri termini: noi non riteniamo credibile che nel progetto del Signore possa rientrare anche un fallimento: che sia proprio lo Spirito a non consentirci di raggiungere la nostra Efeso, la nostra Smirne, la nostra Pergamo, la nostra Nicomedia, la nostra Nicea. Eppure, il passo di Luca che abbiamo ascoltato dovrebbe farci capire che nei piani del Signore può rientrare il fallimento più terribile, più inaccettabile di tutti, quello della croce. È possibile che anche per le nostre chiese, anche per noi, in un determinato momento o periodo storico, sia proprio nella croce e con la croce che tutto ciò che doveva compiersi viene portato a compimento. Ma questi stessi versetti di Luca ricordano che la croce non si esaurisce, non si può esaurire in sé stessa. La croce in sé non ha senso, e certo non può rientrare nel progetto di Dio. Del progetto di Dio, invece, fa parte la croce seguita dalle resurrezione; dunque, se solo avessimo fede saremmo certi che ogni nostro apparente fallimento porta alla resurrezione. Certo, porta alle resurrezione per vie misteriose e oscure, come misterioso e oscuro suona ai discepoli il discorso di Gesù: “non capivano ciò che Gesù voleva dire”. Anche per noi è molto difficile capire ciò che Gesù e il suo Spirito vogliono dirci attraverso le croci, i fallimenti che incontriamo sul nostro cammino. Non lo capiamo, e quindi piagnucoliamo e ci lamentiamo, come il popolo di Israele. E non teniamo conto che forse questi fallimenti avvengono perché noi non siamo liberi e disponibili come Paolo e i suoi collaboratori. Perché restiamo attaccati al nostro progetto, senza accorgerci che il Signore non vuole che lo mettiamo in esecuzione e vuole, invece, che anziché al progetto ci affidiamo al sogno, per cercare e trovare tutte le Lidie che il Signore vuole farci incontrare, tutti coloro che per qualche motivo sono “marginali”. Apriamo gli occhi, sorelle e fratelli; apriamo gli occhi ai sogni e alle vie nuove che il Signore ci indica nei sogni.

(Sermone a cura della nostra Pastora, Caterina Griffante)