Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 13 GENNAIO 2013 (Ebrei 13,14)

“Poiché non abbiamo qui una città stabile, ma cerchiamo quella futura”

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Il versetto dell’anno 2013 si presenta molto chiaro nella sua struttura: un’affermazione che contiene due idee tra loro in tensione. La prima parte del versetto ci invita a riflettere su una realtà che conosciamo bene: la nostra realtà, quella che passa, quella che scorre, quella che non è stabile (non solo nel senso che non è sicura, ma anche nel senso che non è eterna). “Non abbiamo quaggiù una città stabile…”: non possiamo sapere se l’autore della lettera agli Ebrei avesse in mente o ancora negli occhi la distruzione di una qualche città (forse, Gerusalemme stessa distrutta dai Romani) o se questo riferimento sia “casuale”, preso come esempio. Il fatto certo è che l’immagine di una città non stabile, l’immagine della città che può essere distrutta, abbattuta è qualcosa che afferra anche la nostra attenzione. Non c’è bisogno di ricorrere – per quanti di voi potrebbero averne il ricordo, anche se forse solo vago – alle città distrutte dai bombardamenti dopo la Seconda guerra mondiale; basta pensare alle immagini che solo pochi anni fa ci sono giunte dalla città di L’Aquila o all’inizio dell’anno passato dall’Emilia Romagna, che è ancora segnata dalla distruzione portata dal terremoto. Ricordo di essere passato con il treno nelle zone colpite dal terremoto poche settimane dopo che questo si era verificato: l’impressione che quegli edifici crollati mi hanno lasciato è troppo difficile da descrivere con le parole (e non vorrei neanche usarne troppe per evitare di sembrare cinico o per far credere di poter capire che cosa le persone colpite provino). Ma appunto, è un’impressione che, ancora a mesi distanza, mi fa pensare a quanto possa essere fragile la nostra esistenza, a quanto, anche e proprio quello che costruiamo con una prospettiva di lungo termine, possa rivelarsi passeggero. Dalle mie parti, dove i tetti, in particolare nel passato, venivano costruiti con lo gneiss lamellare, lastre di pietra grigia, c’è un detto: “Il tetto a losa (la pietra, appunto) riposa cent’anni”. Eppure, quante volte anche le baite costruite in questa prospettiva, per una valanga non prevista, sono durate molto meno non dei cento, ma anche solo dei dieci anni.

Non abbiamo quaggiù una città stabile…”: certo, ci verrebbe voglia di ripeterci, che questa verità la conosciamo fin troppo bene. Chi di noi non ha detto almeno una volta, nella sua vita: “Niente dura per l’eternità”? E oggi, probabilmente, in un tempo in cui avere un contratto di lavoro a tempo indeterminato sembra una prospettiva che si avvicina all’eternità, questo sentimento, questa consapevolezza della caducità di quanto realizziamo e di quanto riusciamo a raggiungere è in parte ancora più presente. Molti di voi hanno lavorato per l’intera vita (o quasi) per la stessa azienda o nello stesso settore: oggi, per la maggior parte dei giovani, la prospettiva è quella di cambiare prima ancora di aver capito bene tutti i propri compiti. Molti di voi hanno vissuto la propria vita pensando che avere delle radici, se era possibile metterle, fosse importante: oggi, sembra che avere delle radici, diventi quasi un impedimento, più che una ricchezza. Il motto è mobilità, mobilità, mobilità. Appunto, “non abbiamo quaggiù una città stabile…”. Eppure, anche di fronte a questa affermazione e a questa consapevolezza che condividiamo, perché dobbiamo prenderne atto, ci è imposto di farlo, un po’ ogni tanto, ci ribelliamo (forse, non solo un po’ e non solo ogni tanto!). Trovo interessante osservare come tante persone, non riescano ad accettare il fatto che esiste un limite: ci è difficile, diciamolo così, vivere nella prospettiva del limite, della nostra limitatezza, vivere accettando che noi e quello che realizziamo non siamo eterni. E così cerchiamo sempre un po’ di renderci eterni: intendiamoci, non penso in questo momento alle assurdità di chi vorrebbe rendersi eterno (o quasi) prolungando la vita fino a duecento anni. Penso a quei molti tentativi, che si esprimono nei vari modi della creatività umana e che cercano di prolungare il ricordo di un nome, di un fatto, di un’opera d’arte, di un brano musicale, dell’autore di azione virtuosa, molto oltre il tempo in cui queste cose sono state realizzate o le persone sono vissute. Se ci pensiamo bene quando noi raccontiamo qualcosa (per esempio legato alla storia della nostra chiesa o della piccola grande avventura dei protestanti in Italia), stiamo proprio lottando perché questo patrimonio non sfugga alla memoria, perché ne rimanga un ricordo “perenne”. Eppure, anche in questo nostro tentativo, che molto spesso non ha nulla di presuntuoso, dobbiamo fare i conti con il limite, con il fatto che anche questi ricordi saranno in buona parte fugaci, che quanto ancora oggi alcuni si ricordano, domani non sarà più ricordato. Neanche i ricordi possono essere rinchiusi in una città indistruttibile, stabile.

E, ciononostante, noi non ci diamo per vinti: continuiamo nella nostra ricerca, l’essere umano è sempre alla ricerca di qualcosa. Il nostro versetto non nega questa dimensione di ricerca neanche al credente, anzi, sembra proprio dirci che senza ricerca la fede perde vigore. Chi non cerca più commette forse con maggior facilità l’errore che si deve evitare: credere di avere già raggiunto tutto, credere di avere già una città stabile. Chi è in cammino di fede, invece, sa che la città che ci viene promessa, quella futura, deve essere ancora cercata. È una città che ci viene offerta, che non dobbiamo costruirci, ma che al tempo stesso non ha ancora per noi dei contorni così chiari, e proprio per questo ne siamo alla ricerca. Ma la ricerca che noi conduciamo, come credenti, non ci porta fuori dal mondo, non ci porta a vivere soltanto nel futuro beato: noi cerchiamo questo futuro camminando nel nostro presente, vivendo con i piedi ben piantati nel luogo in cui siamo. E questa ricerca ci dà energie per non essere indifferenti di fronte a quanto ora, nel presente, sembra essere stonato rispetto alla città futura. Questa ricerca ci dà la forza di essere attenti, attivi e reattivi perché la nostra città instabile possa godere almeno un po’ della luce della città futura, perché anche quanti non sono con noi alla ricerca possano chiedersi per quale ragione noi camminiamo nella certezza di vivere un giorno in una città che non dovrà temere il bombardamento o la distruzione; questa ricerca ci porta ad essere oggi sentinelle nella nostra città sapendo che nella città che cerchiamo non serviranno sentinelle. Con questa consapevolezza hanno camminato i puritani, che così spesso hanno sottolineato lo slancio verso la nuova Gerusalemme senza dimenticare che questo slancio passava anche attraverso la trasformazione del mondo da loro abitato. Oggi non parleremmo di welfare (stato sociale, se preferite) se un bravo teologo luterano del XVI secolo, Johann Eberlin, non avesse nei suoi scritti parlato della città ideale di Wolfaria, luogo di benessere e di ordine civile: certo, non una città stabile e sicura realizzata da qualche parte, ma l’immagine di una città futura, che pure ha dato energie per realizzare qualcosa di concreto.

La parola della lettera agli Ebrei che ci viene rivolta oggi non è quindi un invito alla rassegnazione, un modo per metterci il cuore in pace, sapendo che, comunque, quello che abbiamo è incerto e quello che ci si prospetta è indefinito. Noi camminiamo con decisione verso una città che è nella promessa di Dio, e quindi fa parte del futuro che lui ci promette. Lo facciamo sapendo che nel mondo siamo in una stazione di passaggio. Non l’unica stazione per la quale passiamo, come vuole suggerirci chi dice “si vive una volta sola”. La nostra vita ha un futuro nel futuro di Dio. È verso quel futuro che noi viaggiamo. E in quel futuro non dovremo più cercare di far vivere per l’eternità quello che non è eterno. Perché sarà l’eternità a farci vivere. Amen.

(Sermone a cura del pastore William Jourdan, della Chiesa Evangelica Metodista di Vicenza)