Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 23 DICEMBRE 2012 (Lc 1:39-55, 1 Sam 2:1-10, Fil 4:4-7)
IL CANTICO DI MARIA
Come tutti sappiamo, le nostre chiese sono dotate di un ricco patrimonio di inni, spesso antichi e molto belli. Particolarmente suggestivi sono gli inni che siamo soliti cantare in tempo di Avvento. Eppure, nessuno di questi inni pur così cari alla nostra tradizione e, credo, a ciascuno di noi può competere, per potenza e per profondità teologica, con il più antico tra gli inni dell’Avvento, il cosiddetto Cantico di Maria: il più appassionato, il più impetuoso, direi il più rivoluzionario cantico di Avvento che mai sia stato cantato. Un cantico sconvolgente perché non ha nulla di pio, di devoto, come ci aspetteremmo da una composizione poetica collegata al tempo natalizio e, soprattutto, scaturita dalla labbra di una donna. Fuori dagli schemi e dalle convenzioni questo inno, fuori degli schemi e delle convenzioni la sua autrice: Maria, colei che sta per diventare la madre del Signore. La Maria del cantico è una vera figura biblica, una figura che poco o nulla ha in comune con la Maria della successiva tradizione cristiana: una Maria che l’iconografia, la letteratura, la devozione popolare – soprattutto, ma non esclusivamente, in ambito cattolico – hanno trasformato in una creatura tenera, sognante, soave, quando non addirittura sdolcinata. La Maria del vangelo di Luca è tutt’altra persona: una donna appassionata, vigorosa, fiera, entusiasta. E nel suo canto non c’è nulla della dolcezza, malinconica o gioiosa, dei nostri inni di Natale; è un canto duro, forte, inesorabile, che parla di troni che crollano e di signori di questo mondo umiliati, parla di potenza divina e di impotenza umana. È un canto intessuto di riferimenti alla Bibbia ebraica, e Maria stessa è una diretta discendente delle eroine e delle profetesse del popolo di Israele. Sulle sue labbra rivivono gli accenti di Debora, di Giuditta, di Maria sorella di Mosè, e soprattutto di Anna, il cui canto di gioia per la nascita del figlio Samuele anticipa in modo impressionante i toni del canto di Maria. Ella magnifica il Signore perché ha fatto di lei una creatura “beata”. Perché beata? Lo spiega per prima Elisabetta, la sua anziana parente: anche lei, insieme al marito Zaccaria, è stata oggetto di uno straordinario intervento divino, è stata destinata a una maternità impossibile secondo la ragione umana. Come Maria (cfr. Lc 1: 35), anche Elisabetta è ricolmata di Spirito Santo, e lo Spirito le fa fiorire sulle labbra parole che sono anch’esse una sorta di piccolo cantico: “cantico di Elisabetta”, potremmo chiamarlo. Lo Spirito ha donato a Elisabetta una lucidità e una profondità di visione spirituale che le consentono di riconoscere in Maria una creatura “benedetta fra le donne” e “beata” in quanto “ha creduto che quanto le è stato detto dal Signore avrà compimento”. È poi la stessa Maria a offrire una seconda motivazione del perché “da ora in poi tutte le generazioni” la chiameranno beata: “perché grandi cose le ha fatte il Potente”.Dio, dunque, ha fatto grandi cose a Maria; e lei, Maria, che cosa ha fatto per essere beata, per essere chiamata beata da tutte le generazioni a venire? Non ha fatto assolutamente nulla, se non ciò che viene richiesto a ciascun essere umano, a ciascuno di noi: ha creduto alle promesse del Signore, e si è resa disponibile ad essere lo strumento della realizzazione di queste promesse. Ha avuto fede, nel senso che si è totalmente affidata al Signore. Null’altro che questo era ciò che il Signore le richiedeva, null’altro che questo era ciò che a lei spettava fare. Perché il vero fare, l’unico agire veramente efficace, è ciò che viene operato dal Signore. Di questo, Maria è perfettamente consapevole. Chiamarla beata significa imparare ad adorare nello stupore le grandi cose che Dio ha compiuto in lei; scoprire in lei che Dio volge il suo sguardo a ciò che è basso e lo innalza, che la gloria e la potenza di Dio consistono nel far grande ciò che è piccolo. Chiamare beata Maria non significa edificarle altari o santuari, ma insieme con lei adorare il Dio che guarda e sceglie ciò che è basso, che fa cose grandi e il cui Nome è santo. Chiamare beata Maria significa condividere la sua consapevolezza che la misericordia di Dio “si estende di generazione in generazione su quelli che lo temono”: e sappiamo che “temere” il Signore non significa averne paura come si può avere paura di una divinità collerica e capricciosa, significa piuttosto lasciare, come Maria, che in noi si compia ciò che lo Spirito ordina; significa lasciarci ricolmare da questo Spirito – come Maria, come Elisabetta – e ricolmi di questo Spirito annunciare alle sorelle e ai fratelli che Dio è venuto e viene e continuerà a venire nel mondo. Maria testimonia – perché lo ha sperimentato di persona, nel proprio corpo – che è per vie prodigiose che Dio viene all’uomo, che Egli non agisce secondo le opinioni e le vedute umane, anzi queste opinioni e vedute le ribalta, le sovverte radicalmente. Maria sa che Dio non segue le vie che gli uomini gli vogliono prescrivere, ma che la sua via resta, al di là di ogni comprensione, libera e sovrana. Dio ama essere là dove non ci aspetteremmo di trovarlo, là dove noi stessi non vorremmo mai essere, là dove la ragione e spesso anche la nostra pietà di persone religiose si scandalizzano e si tengono pavidamente a distanza. Là egli confonde la ragione dei sapienti e sfida la nostra tiepida religiosità. Là egli vuol essere, e nessuno glielo può impedire. Solo gli umili gli prestano fede e si rallegrano che Dio sia tanto libero e tanto sovrano da fare miracoli là dove l’uomo dispera, da compiere meraviglie là dove l’uomo è piccolo e insignificante. Questo è il miracolo dei miracoli. “Dio ha guardato alla bassezza della sua serva”. Alla “bassezza” o, secondo altre traduzioni, alla “piccolezza”, o all’“umiltà”, o addirittura alla “miseria” della sua serva. Il significato non cambia: Dio si rivolge a ciò che è irrilevante a occhi umani. Questa è la parola rivoluzionaria, appassionata dell’Avvento. Maria ne è la testimone: proprio nella sua irrilevanza, nella sua inconsistenza agli occhi degli uomini, Maria viene fatta oggetto dello sguardo e dell’elezione di Dio, per essere madre del Salvatore del mondo; non per qualche suo merito, ma solo ed esclusivamente perché la volontà di Dio ama, elegge e fa grande ciò che è basso, insignificante e piccolo. L’Incarnazione dimostra che Dio non si vergogna della piccolezza dell’uomo, anzi vi si lascia coinvolgere totalmente: sceglie un essere umano, lo fa suo strumento e compie il suo miracolo là dove meno lo si attende. Quando gli uomini dicono “no”, egli dice “sì”. Ecco perché il “segno” che Dio darà agli esseri umani per mezzo di Maria null’altro sarà che “un bambino […] in una mangiatoia” (Lc 2: 12). Un “segnoinsignificante” secondo i criteri umani, un segno che è fin troppo facile trasformare in un quadretto devoto, dinanzi al quale la commozione e i buoni sentimenti sono tanto facili e immediati quanto superficiali e di breve durata. Ma non è certo una cartolina natalizia il messaggio che questa nascita vuole trasmetterci. Questa nascita vuole ribadire ciò che è stato annunciato da Maria nel suo cantico: che il Dio dell’universo, il Signore e creatore di tutte le cose, vuole incontrarci e stare con noi nella debolezza e nella condizione inerme di un bambino. E questo proprio per mostrare chi è Dio, dove Dio sceglie di essere, con chi Dio sceglie di stare. Il trono di Dio nel mondo non è un trono simile a quelli umani: è una mangiatoia. E intorno a questo trono non ci sono alti dignitari, ci sono individui poco raccomandabili e di pessima reputazione, come i pastori, i quali però – non diversamente da Maria – si rivelano attenti e pronti dinanzi all’annuncio dell’angelo. Dio si nasconde in Maria “la serva del Signore”, operando in lei cose tanto “grandi” quanto silenziose e difficili da discernere per chi non sia illuminato dallo Spirito. È proprio in questo abbassarsi di Dio che avviene la più radicale contestazione di tutti coloro che il mondo e la natura umana giudicano degni di rispetto, di deferenza, di considerazione in virtù della loro posizione nella società, delle loro possibilità economiche e, soprattutto, del potere che agli occhi umani sono in grado di esercitare. È dinanzi a questo Dio il cui trono si identifica dapprima con una mangiatoia, poi con una croce, che i troni vacillano, che i potenti cadono, che coloro che stanno in alto precipitano, perché Dio è con coloro che stanno in basso. È qui che vengono ridotti a nulla i ricchi e i sazi, perché Dio è con i poveri e gli affamati, e ricolma di beni gli affamati perché i ricchi li manda a mani vuote.Sorelle e fratelli: il cantico di Maria è cantato anche per noi. E quando dico che è cantato per noi, non intendo dire che noi siamo un pubblico il cui compito si limita all’applaudire. No, non siamo invitati ad assistere a una sacra rappresentazione edificante; siamo invitati a sentirci direttamente chiamati in causa, coinvolti nell’operato del Dio sovversivo che ribalta tutti i criteri di valutazione, tutti i ruoli che il mondo ritiene sacri e intoccabili. Siamo invitati a essere noi stessi annunciatori di questo capovolgimento generale: il basso che diventa alto, il piccolo che diventa grande. Solo così potremo dirci evangelizzatori, perché in questo consiste l’Evangelo della grazia. La vocazione che ci viene rivolta attraverso il cantico di Maria è di fare totalmente nostro questo modo di pensare così alieno dalla natura umana, perché è il modo di pensare di Dio; e di darne testimonianza in ogni occasione. Anche il nostro agire, allora – l’agire di noi credenti, di noi chiesa –, dovrà essere un agire che sovverte i criteri del mondo. Certo, ci sarà chi ci esorterà alla prudenza, chi ci consiglierà di osservare maggiore discrezione, di non dare nell’occhio, di comportarci “come fanno tutti”; ci sarà chi ci metterà in guardia dal rischio di creare malintesi e scandali. Ebbene, io vi dico che non dobbiamo dare ascolto a queste voci apprensive e timorose, sorelle e fratelli. Diamo piuttosto ascolto all’energica, fresca, decisa voce di Maria. Allora – e solo allora – potremo dire di vivere pienamente il Natale. Allora – e solo allora, solo a queste condizioni – potremo sentire il nostro cuore pervaso di pace, quella pace annunciata da Paolo ai Filippesi, la pace che custodisce cuori e pensieri in Cristo Gesù, e che altro non è se non la pace del Natale.
( Sermone a cura della nostra Pastora, Caterina Griffante)