Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 31 MARZO 2013 (PASQUA DI RESURREZIONE) (Lc 24:33-34; 1 Cor 15:12-20; Gv 20: 11-18 testo di predicazione)

“Il Signore è veramente risorto

Credo sia accaduto a molti di noi di sentirsi dire da un familiare, da un amico, da un conoscente: sì, Gesù è un personaggio degno del massimo rispetto e della massima ammirazione nella sua qualità di maestro di vita; sì, il suo messaggio è un sublime insegnamento morale; ma non puoi pretendere di farmi credere che davvero sia risorto dai morti, perché “non c’è risurrezione dei morti”. Sappiamo tutti che dubbi di questo genere – dubbi che, come giustamente osserva l’apostolo Paolo, di fatto svuotano di ogni significato la nostra fede – serpeggiano anche all’interno delle comunità cristiane: accadeva ai tempi di Paolo, e accade ai giorni nostri. E allora può capitare che a questi dubbiosi e scettici interlocutori noi, con eccesso di zelo, ribattiamo che della risurrezione di Gesù esistono prove, che è un fatto dimostrabile, perchè è narrata da tutti e quattro i vangeli. In realtà, non è così. La risurrezione non è descritta in alcun testo appartenente al canone biblico, perché non ha avuto testimoni che potessero descriverla. Non avendo avuto testimoni, non è un fatto che possa essere dimostrato come storicamente avvenuto. I discepoli furono, sì, testimoni: non però della risurrezione, bensì del Risorto. Non di un fatto, ma di una serie di incontri, che li indussero ad affermare “il Signore è veramente risorto – è veramente risorto ed è apparso”. Incontri con una persona che tutti sanno essere morta e che pure ora si fa incontrare come inequivocabilmente vivente perché è una persona che si può vedere, si può toccare, è una persona che vive la quotidianità più concreta, che prende cibo. Soprattutto, i discepoli incontrano nel Gesù risorto una persona con cui si può nuovamente comunicare. A ben guardare, gli incontri dei discepoli con il Risorto, anche e innanzitutto lo straordinario incontro del quale ci parlano questi versetti di Giovanni, sono essenzialmente dei dialoghi. Se dunque la risurrezione è qualcosa che non può avere testimoni, perché accade nel silenzio, ecco che cosa invece ci viene inequivocabilmente testimoniato: che la risurrezione prende subito la parola, si comunica nella parola. Se la morte è il grande, eterno silenzio, il primo miracolo pasquale è la risurrezione della parola: la parola che risuona di nuovo, che riprende a vivere. Il silenzio introdotto dalla morte nei rapporti umani viene definitivamente infranto. Ecco il senso dell vittoria di Pasqua: essere vittoria della parola sul silenzio, sul silenzio della morte. Un primo suggerimento che può venire offerto dai racconti degli incontri con il Risorto è dunque questo: celebrare davvero la Pasqua significa riprendere i dialoghi interrotti. Nella vita di ciascuno di noi ce ne sono molti. Forse il più grande può essere proprio il dialogo con Dio. Allora, celebrare la Pasqua può significare in primo luogo riprendere o ricominciare il dialogo con Dio, un dialogo sul quale forse abbiamo steso una pietra tombale sostituendolo con la ripetizione distratta di formule stereotipate, o con letture della Bibbia che coinvolgono e stimolano la nostra mente ma non il nostro cuore, cioè la totalità della nostra persona. Ma poi anche nel piccolo, con le persone vicine, ci sono dialoghi interrotti che devono essere riaperti; e ci sono, per contro, dei silenzi mortali che devono essere rotti. Ecco: Pasqua significa rompere il silenzio e riprendere il dialogo interrotto, esattamente come è accaduto tra Gesù ed i discepoli. Si rimuove una pietra tutte le volte che si riprende un dialogo rimasto chiuso; tutte le volte che si vince l’incomunicabilità e si ricomincia a parlare, ecco che si rimuove quella pietra. Nel vangelo di Giovanni il primo di questi dialoghi pasquali è quello con Maria, una donna originaria di Magdala, una cittadina sulla costa occidentale del mare di Galilea. La tradizione ha identificato Maria di Magdala con la “peccatrice”, la donna di cattiva reputazione che, nel vangelo di Luca, silenziosamente entra in casa di Simone, si mette a piangere, bagna con le sue lacrime i piedi di Gesù e li unge con un olio preziosissimo. L’identificazione di queste due donne non ha alcun fondamento sui testi, è un equivoco; ma possiamo intuire come questo equivoco si è generato. Entrambe queste due donne piangono su Gesù; e piangono su Gesù perché hanno un forte sentimento di amore nei suoi confronti. Se Maria di Magdala corre al sepolcro prima di tutti gli altri discepoli, “la mattina presto, mentre era ancora buio”, è per poter godere ancora della presenza di quest’uomo per il quale provava un sentimento certamente ricco e complesso: gratitudine perché l’aveva guarita, devozione perché ne era diventata discepola, ma forse anche proprio l’amore che una donna sente per un uomo. Non ci sarebbe nulla di scandaloso in questo, perché non c’è nulla di scandaloso nell’amore umano. Proprio questo grande amore fa sì che Maria di Magdala voglia stare vicina a Gesù anche se lui è morto, perché la presenza, lo stare accanto, è il segno più grande e più autentico dell’amore. Ecco perché, secondo Giovanni, Maria è la prima ad arrivare al sepolcro, assolutamente la prima. Non deve stupirci questo primato che le viene attribuito, e che fa di lei in certo modo la prima tra i discepoli, la colloca in una posizione di superiorità rispetto ai maschi, a Pietro, a Giovanni; non deve stupirci, se teniamo presente il comportamento di Gesù nei confronti delle donne, caratterizzato da una libertà e da una novità assolutamente eccezionali. Per il diritto ebraico, le donne non potevano testimoniare nei tribunali; la loro voce non contava, non aveva peso. Le donne vicine a Gesù, invece, sono testimoni della più grande opera di Dio, del più grande evento che in tutta la storia della salvezza sia accaduto, la risurrezione. Proprio l’annuncio di questo evento unico viene affidato a una donna: perché in Maria di Magdala è riconoscibile non soltano il modello del discepolo, ma anche la prima donna apostolo. Gesù, infatti, fa di lei l’apostola inviata agli apostoli. Maria, però, sulle prime non riconosce Gesù. Questo fatto può avere diversi significati, ma direi che vuol dirci, innanzitutto, che Gesù non è un miraggio di Maria, che non è lei a risuscitare Gesù nella sua immaginazione, che la figura che le sta davanti non è un prodotto della sua fantasia. Quando Gesù le si presenta, Maria viene colta assolutamente di sorpresa: è lontanissimo da ogni suo pensiero che quello possa essere Gesù risorto. E qui appare la doppia valenza della risurrezione. Da un lato si tratta sempre, come accennavo all’inizio, di quell’uomo Gesù che percorreva le strade della Palestina, come nel vangelo di Giovanni sarà sottolineato molto concretamente nel successivo incontro di Gesù risorto, quello con Tommaso. Eppure si tratta, al tempo stesso, di un Gesù che è, per così dire, “in altro modo”. Ricorrendo a un’espressione cara alle chiese ortodosse, potremmo parlare di un Gesù trasfigurato: perché il Gesù risuscitato non è un corpo rianimato, riportato alla vita, è una “cosa nuova”, un Gesù diverso da quello che Maria era abituata a conoscere, perché si trova in un nuovo modo di essere. “Risurrezione”, infatti, equivale in certo senso a una nuova creazione: non è un semplice tornare allo stato precedente, è un essere “ri-creati”. E a noi che festeggiamo la Pasqua oggi, questo ricorda che in Cristo anche noi siamo stati ri-creati, che anche in noi è stato introdotto il germe, l’embrione di una vita nuova. Noi possiamo partecipare alla risurrezione di Gesù perché siamo stati chiamati da lui, perché – potremmo dire usando questa volta un’espressione cara alla tradizione protestante – Gesù a ciascuno di noi ha “rivolto vocazione” proprio come ha fatto con Maria di Magdala. Maria, che non ha riconosciuto Gesù dall’aspetto, lo riconosce dalla parola – da quella parola, dal suo nome pronunciato da Gesù. E chiamare qualcuno per nome, lo sappiamo, significa stabilire la più intima delle relazioni. È una cosa meravigliosa, questa, proprio perché ci fa capire come, in fondo, la Parola di Dio si concentra nel nostro nome, come nome di colei o di colui che è stato chiamato sia alla vita sia alla fede. E quando Maria sente il proprio nome, allora capisce che quell’uomo è Gesù. Il riconoscimento di Lui come risorto non avviene dunque attraverso la visione della figura, ma attraverso l’ascolto della Parola. Poi c’è quell’ordine misterioso di Gesù, quello che nella Vulgata viene tradotto come “Noli me tangere”. Ma, piuttosto che “non toccarmi”, il verbo greco sarà da rendere come “non trattenermi”. Evidentemente Maria vuole abbracciare Gesù; questo è naturale, ma lui pone un freno, un limite. Dice: non è il momento della piena comunione, questo; non ancora. Perché la piena comunione richiede che, prima, io salga al Padre, per preparare a voi un posto. Ma in questo “non trattenermi” c’è anche qualcos’altro. Gesù vuole ricordare a Maria, e a noi con lei, che lui, sì, si dona a noi, ma non si mette a nostra disposizione; noi non possiamo impossessarcene, tenerlo nelle nostre mani, considerarlo nostra proprietà. E, ancora: Gesù non vuole che Maria si aggrappi a lui, che resti ferma, aggrappata a lui. Maria deve mettersi in movimento, deve andare dagli altri apostoli, a comunicare loro che Gesù sta per ascendere a Colui che egli chiama “Padre mio e Padre vostro”. Di qui l’espressione che Gesù usa nell’investire Maria del mandato missionario: “Va’ dai miei fratelli”. È la prima volta che nel vangelo di Giovanni risuona questa parola, “fratelli”; prima, i suoi discepoli li chiamava “amici”, mentre ora vuole ribadire che la paternità di Dio si estende a comprendere anche i discepoli. Certo, secondo modalità diverse: Gesù infatti non parla di “Padre nostro”, parla di “Padre mio e Padre vostro”, a sottolineare che egli è Figlio di Dio “per natura”, i discepoli lo sono “per vocazione”. Eppure resta questa parola, “i miei fratelli”. Ed è con questa parola che nasce la comunità cristiana. Questa parola è lì, a ricordarci – nella nostra vita comunitaria spesso difficile, travagliata – che la categoria della “fraternità” e della “sororità” affonda le sue radici nella Pasqua, nella risurrezione; che la comunità cristiana è la comunità di coloro che Gesù risorto chiama fratelli e sorelle.

 Sermone a cura della nostra Pastora, Caterina Griffante