Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 9 GIUGNO 2013 (Lc 14:15-24; At 13:32-39; testo di predicazione: Is 55:1-3)

ASCOLTATE E VENITE A ME

Davvero sorprendente, questo inizio del cap. 55 di Isaia. Una serie di inviti, ma inviti che suonano come ordini; per giunta, senza alcun contenuto religioso. Gli ascoltatori vengono esortati a comprare acqua, vino e latte e grano; e poi vengono esortati a mangiare di gusto, a saziarsi, a passarsela allegramente. Sembrano le grida di un venditore che cerca di attirare i passanti; in effetti, è probabile che questi versetti abbiano il loro modello proprio nelle grida dei venditori che reclamizzavano le loro mercanzie sulle piazze, usando formule fisse, familiari agli uditori. Quelli di noi che hanno una certa età forse potranno ricordare come anche nelle nostre città, in passato, le strade risuonassero di inviti di questo genere, provenienti da venditori ambulanti o dalle bancarelle al mercato. Dunque, una serie di richiami clamorosi, proprio “da mercato”. Ma l’altro fatto sorprendente è che questi richiami vogliono, sì, “piazzare” un insieme di generi alimentari di prima necessità e di larghissimo consumo; ma non li vogliono vendere. Vogliono offrirli gratuitamente, questi beni; vogliono regalarli. A chi? A tutti, a ogni categoria di persone; perché l’invito, questo invito perentorio, questo invito al quale sembra impossibile sottrarsi, è rivolto tanto a coloro che “non hanno denaro” quanto a quelli che denaro ne hanno, e lo spendono liberamente, ma rischiano di fare cattivi affari, di farsi imbrogliare acquistando, magari a caro prezzo, merci senza valore, alimenti che non soddisfano il palato e nemmeno nutrono. Quando mai ci capita di vederci rivolto un invito del genere? Mai, certamente. E se anche ci capitasse, credo che questo invito lo accoglieremmo con una certa diffidenza. Cibi squisiti offerti gratuitamente? Sì, certo, ne abbiamo esperienza in occasioni particolari: matrimoni per esempio, o inaugurazioni di mostre, o convegni importanti o altri eventi mondani o culturali, quando ricchi buffet colmi di cibi stuzzicanti e appetitosi e di bevande di ogni tipo vengono messi a disposizione degli invitati, i quali di solito non si fanno pregare e si avventano sui tavoli come cavallette affamate. Ma qui, è chiaro che l’offerta gratuita non è rivolta a un ristretto e selezionato gruppo di persone e non riguarda tartine, pasticcini e bicchieri di prosecco. L’offerta è rivolta all’intero popolo di Israele – e in esso all’intera umanità – e riguarda prodotti che sono fondamentali per la sussistenza umana, indispensabili addirittura, dato che fra questi c’è l’acqua, senza la quale non si sopravvive; e questi prodotti offerti in dono vengono garantiti come di primissima qualità. E allora, è inevitabile che scatti il sospetto: qui c’è qualcosa sotto. Nessuno offre qualcosa di importanza vitale senza richiedere un contraccambio. Che la merce propagandata con tanta insistenza sia davvero qualcosa di indispensabile alla vita, e quindi qualcosa di straordinariamente prezioso, ce lo fa comprendere il v. 3, con il brusco cambiamento di tono, lo scarto improvviso che ci porta dal vociare del mercato alla Voce per eccellenza, la voce solenne e autorevole di Dio che, come in tanti altri testi profetici, esige di essere ascoltata. Il tema dell’ascolto era già apparso alla fine del versetto precedente, con l’invito ad “ascoltare” (“ascoltatemi attentamente, e mangerete ciò che è buono”) che subentra all’invito a “comprare”. Ma ora ci viene detto che ciò che l’essere umano ricava dall’ascoltare non è più soltanto il mangiare, il mangiare di gusto, a sazietà; no, dall’ascoltare deriva il “vivere”. Il vivere, come viene subito precisato, nell’ambito di “un patto eterno”, un patto che offre all’intero popolo di Israele quelle stesse “grazie stabili” (cioè durature, imperiture) che Dio ha garantito a Davide (cfr. per es. 2 Sam 7: 8-16). Il venditore che propaganda le sue merci, dunque, altri non è che Dio; e la merce che Egli offre a costo zero è la sua grazia. In altre parole, Dio offre come merce gratuita null’altro che sé stesso. Ecco perché risuona così appassionato, così urgente il suo appello, questo appello nel quale Dio non chiede soltanto “ascoltatemi”; soggiunge anche “venite a me”. Da “comprate e mangiate” si passa dunque ad “ascoltate e venite a me”; dall’invito che è un ordine si passa all’invito che è una supplica. Sì: qui Dio quasi supplica il suo popolo – supplica ciascuno di noi – di degnarlo della sua, della nostra attenzione; di non passare oltre, di non lasciarlo lì come una merce rimasta invenduta sul banco, perché nessun possibile acquirente l’ha trovata utile né interessante. Notano gli esegeti che il grido di un venditore sul mercato non differisce dall’invito a un banchetto. Luca riporta la parabola, narrata da Gesù, di un uomo che aveva preparato “una gran cena” invitando una quantità di ospiti, e venuto il momento aveva inviato il suo servo a cercarli, uno per uno, per condurli nella sua casa, al banchetto. Naturalmente questo ricco e generoso padrone di casa è figura di Dio, ed è singolare che anche qui, come nel testo di Isaia, Dio si presenti in atteggiamento di umile ricerca di attenzione: si offre alla sua creatura, all’essere umano, andando addirittura a cercarlo per mettergli liberamente a disposizione i suoi beni, la sua casa, tutto sé stesso. Isaia non accenna alla risposta di Israele all’invito divino, mentre il punto nodale della parabola di Luca sta proprio nelle varie risposte degli invitati, che consistono tutte in più o meno motivati ed educati rifiuti. Gli invitati reagiscono appunto come saremmo portati, credo, a reagire tutti noi dinanzi a un’offerta troppo generosa, troppo eccezionale rispetto ai modesti e mediocri standard ai quali siamo abituati. I casi sono due: o sotto a tanta liberalità c’è un imbroglio, o questo padrone di casa è un riccone eccentrico, che vuole introdurci in un ambiente che non è il nostro. In ogni caso, non abbiamo bisogno di lui. Meglio lasciarlo perdere e ripiegarci sulla nostra routine, sulle occupazioni e sulle incombenze che ci sono familiari, sul nostro grigiore quotidiano. Nel testo di Isaia, Dio dichiara che l’acqua e il grano e il vino e il latte e tutti i “cibi succulenti” da lui gratuitamente offerti al suo popolo si identificano con le “grazie stabili promesse a Davide”. Nel discorso riportato dagli Atti degli apostoli, Paolo indica la piena realizzazione di queste promesse fatte a Davide nel perdono dei peccati altrettanto gratuitamente offerto da Dio per mezzo della morte e risurrezione di Gesù. Perdono offerto da Dio a “chiunque crede”: “chiunque crede” dice infatti Paolo ai suoi ascoltatori, gli appartenenti alla comunità ebraica di Antiochia, “è giustificato di tutte le cose, delle quali voi non avete potuto essere giustificati mediante la legge di Mosè”. Tanto gli inviti che risuonano in Isaia quanto la parabola di Luca adombrano dunque null’altro che il cuore della fede cristiana: l’annuncio della salvezza per grazia. Per sola grazia, come sottolineò Lutero. Perché la grazia è un dono che va, sì, comprato; ma comprato in modo paradossale, comprato senza denaro, in quanto non ha prezzo. Va comprato semplicemente ascoltando l’invito, andando verso il padrone di casa, accettando ciò che ha da offrirci. Va comprato solo pronunciando un “sì”. Se accettiamo l’invito rivoltoci dalla parola di salvezza di Dio, la pienezza della sua benedizione ci attende. Ma il problema resta sempre lo stesso: noi tendiamo a non ascoltare l’invito. Perché? Sostanzialmente, direi, per due motivi. Il primo: noi non riusciamo a credere che la grazia possa essere “comprata senza denaro”, senza che noi, in qualche modo, ci diamo da fare per meritarla – perché tutto ciò che ha veramente valore bisogna, in qualche modo, guadagnarselo, e una grazia che ci piove addosso, che ci investe senza alcun nostro sforzo o merito non può essere vera grazia. Lo abbiamo dipinto con tratti un po’ sommari e grossolani, ma in sostanza questo è il modo di rapportarsi a Dio comune a tanti cristiani, non soltanto a coloro che si riconoscono nella tradizione della chiesa di Roma; e qui, allora, si profila in tutta la sua urgenza, per le chiese nate dalla Riforma, il dovere di riscoprire e di testimoniare con coerenza e vigore l’annuncio – che è davvero un lieto annuncio, un evangelo – della giustificazione per sola grazia. Parlo di riscoprire, perché si tratta di un annuncio che anche nell’ambito del protestantesimo si è un po’ appannato, tende ad essere relegato in secondo piano, come se fosse semplicemente un’arida questione dottrinale e non un caso di vita o di morte (“ascoltate e voi vivrete”, abbiamo letto in Isaia). E qui arriviamo al secondo motivo per cui noi tendiamo a non ascoltare l’invito di Dio: perché “la merce non interessa”. Giustificazione? Chi ha bisogno di giustificazione? Noi ci sentiamo a nostro agio con noi stessi, non ci sentiamo in condizione di peccato. Perché la nostra coscienza è diventata pressoché impermeabile alla nozione stessa di “peccato”, e di conseguenza non sente alcun bisogno del perdono di Dio, che è l’essenza stessa della sua grazia. E quello che per noi fa testo è ciò che noi sentiamo di essere, non ciò che la parola di Dio dice che noi siamo. Sorelle e fratelli, facciamocene una ragione: non è da noi che viene la salvezza. Ciò di cui abbiamo bisogno è imparare di nuovo ad ascoltare “attentamente”, come dice Isaia – che cosa? Non certo la nostra coscienza, che è ingannevole, perché la nostra è una coscienza addomesticata che ci porta a respingere l’invito, a lasciare sul banco la merce preziosa senza degnarla di uno sguardo; ma la parola di Dio, che ci svela la nostra vera identità di peccatori sempre di nuovo bisognosi della sua grazia. Ascoltiamo questa parola, e vivremo. Amen.

Sermone a cura della nostra Pastora, Caterina Griffante