Sermone: PREDICAZIONE DI MARTEDI’ 25 DICEMBRE 2012 (NATALE DEL SIGNORE) (Tit 3:4-7; Is 33:24; Mt 25:31-46)
Giustificazione per sola Fede mediante la Grazia: la conferma viene dalla Scrittura!
I versetti della lettera dell’apostolo Paolo a Tito, proposti oggi per la predicazione, si discostano un po’ dai tradizionali passi biblici che siamo soliti associare al tempo natalizio. Come molto spesso avviene nelle sue lettere, Paolo sintetizza qui, con grande efficacia, un profondo contenuto teologico. Densa, la riflessione dell’apostolo, ma tutt’altro che astrusa; al contrario, un validissimo aiuto a scoprire il significato più vero del Natale, a viverlo non superficialmente, non come una routine a volte gradita, a volte fastidiosa per gli impegni familiari e sociali che le feste portano con sé. Un aiuto a vivere il Natale come il Signore desidera che noi lo viviamo: cercando di comprendere a fondo il significato di ciò che nella festa chiamata Natale viene ricordato e celebrato, l’Incarnazione. Paolo, qui, non usa il termine “Incarnazione”. Allude, piuttosto, a questo evento parlando del tempo in cui agli esseri umani si sono manifestati la bontà e l’amore di Dio: un Dio che ha come proprio tratto distintivo la volontà salvifica nei confronti dell’umanità. “Dio, nostro Salvatore” lo definisce infatti Paolo, e inevitabilmente il pensiero corre a Maria il cui spirito “esulta in Dio, suo Salvatore” nel famoso cantico sul quale abbiamo riflettuto insieme domenica scorsa (Lc 1:47). Festeggiando il Natale noi facciamo memoria di questo kairòs, di questo tempo propizio in cui si è verificato l’evento determinante per la nostra salvezza: la venuta in terra del Figlio di Dio. E teniamo ben presente che secondo la concezione ebraica, fatta propria anche dal cristianesimo, questo far memoria non è un semplice ricordare ciò che è stato: è un ri-cordare – verbo che ha a che fare con il cuore, cioè con la parte più intima dell’essere umano – che significa riattualizzare, rendere presente. Siamo chiamati, insomma, a fare spazio dentro di noi al Salvatore che è venuto, che continua a venire, e che continuerà a venire fino alla fine dei tempi. Se davvero riusciremo a renderci consapevoli di ciò che questo significa per noi, allora anche il nostro spirito, come quello di Maria, non potrà fare a meno di esultare. Sì, proprio esultare, anche se questo verbo sembra un po’ incongruo nei tempi depressi e cupi che stiamo vivendo, in queste festività che si presentano cariche di inquietudine e di ansia: per noi o, se non proprio per noi personalmente, per tanti nostri conoscenti, parenti, o semplicemente per una moltitudine di sconosciuti che sono pur sempre nostri fratelli e sorelle; per nazioni intere, come la Grecia, la Spagna, ma anche tanta parte di questa nostra Italia, Paesi nei quali milioni di persone lottano per la sopravvivenza, Paesi nei quali tanti hanno perso, o stanno per perdere, il lavoro e la casa. Secondo criteri umani è molto comprensibile, e anche condivisibile, ciò che sentiamo spesso ripetere in questi giorni, che forse abbiamo ripetuto anche noi: questo sarà un Natale triste o, quanto meno, un Natale molto “sotto tono”. Sappiamo bene che questa affermazione non riguarda soltanto la forzata sobrietà che le difficoltà del momento impongono a tante famiglie: questo, in sé potrebbe anche essere un effetto positivo della crisi. Qui, però, non si tratta soltanto di limitare lo shopping; si tratta, per molte, per troppe persone, della perdita di ogni speranza per il futuro. Umanamente comprensibili, dunque, tristezza e pessimismo. Ma proprio qui sta il punto: al cristiano non è consentito indulgere a valutazioni basate su criteri meramente umani. Il cristiano – ricordiamolo sempre – è un uomo, una donna che non si conforma ai criteri di questo mondo: è anzi, o almeno dovrebbe essere, l’anticonformista per eccellenza, sul modello di Gesù e di sua madre (e ancora una volta mi richiamo a quel “sovversivo”, “scandaloso” cantico di Maria che è stato il testo di predicazione di domenica scorsa). Dunque, domandiamoci: può davvero un cristiano parlare di un Natale “triste”, “sotto tono”? La risposta, sorelle e fratelli, è un netto NO. Secondo uno spirito veramente cristiano, la parola “Natale” è del tutto incompatibile con parole come “tristezza” o “depressione”. Incompatibile sempre, anche nei momenti più tragici della storia e delle vicende umane. E questo perché? Non certo perché il Natale è quel tempo un po’zuccheroso nel quale tutti ci sentiamo tenuti a essere non solo buoni, ma anche allegri e felici – o, almeno, a fingere di esserlo. No, ciò che il Natale richiede ai cristiani non è un ottimismo lattemiele. Ciò che il Natale richiede è che vengano una buona volta prese sul serio queste parole della lettera a Tito: perché in Gesù Cristo Dio ci ha salvati, e ci ha “salvati non per opere giuste da noi compiute, ma per la sua misericordia […] affinché, giustificati dalla sua grazia, diventassimo, in speranza, eredi della vita eterna”. Questo altro non è che l’Evangelo della grazia, l’annuncio di ciò che Dio ha realizzato per noi con la venuta di Cristo: la salvezza per grazia – per sola grazia: perché altrimenti saremmo perduti – che a noi spetta soltanto accettare per fede, con un cuore ricolmo di gratitudine. È l’annuncio che costituisce il fondamento della gioia e della speranza del cristiano, l’annuncio che la Riforma ha riproposto con vigore all’attenzione dei credenti. Ecco perché per il cristiano in nessuna circostanza il Natale può essere vissuto nella tristezza: perché questa festa fa memoria della salvezza che ci è stata donata. Ma per esultare a questo annuncio di salvezza, come Maria, dovremmo essere veramente convinti di averne un disperato bisogno, di questa salvezza. Dovremmo, cioè, saperci riconoscere nel quadro desolato tracciato da Paolo allorché descrive la condizione spirituale nella quale versavano i cristiani “un tempo”, prima cioè di essere rigenerati dalla fede: erano tutti, senza eccezione (l’apostolo non esclude certo sé stesso, dal momento che usa il “noi”), macchiati da ogni sorta di vizi, di difetti, di sentimenti negativi; quanto meno, erano “insensati”, cioè moralmente e spiritualmente ottusi. Questo radicale pessimismo antropologico dovrebbe essere un atteggiamento più o meno ovvio per noi, cristiani che si riconoscono nella tradizione della Riforma; eppure non è affatto così. Credo sia ben difficile per noi riconoscerci sinceramente in questa descrizione impietosa, così come credo che ben difficilmente qualcuno di noi possa far proprio sinceramente il grido di cui si fa portavoce Isaia: “Io sono malato”. Questo perché ciascuno di noi, in fondo, si ritiene una persona moralmente sana, una persona “a posto”, una gran brava persona. E questo è il nostro guaio, questo è ciò che ci impedisce di provare la vera, genuina, profonda gioia natalizia: perché di questa salvezza che ci viene offerta come dono del tutto gratuito, noi nel nostro intimo non crediamo affatto di avere bisogno. Un dono natalizio non sgradito, certo, ma non compreso; un dono da ricevere educatamente, ma che può apparire addirittura inutile, superfluo: ecco, è così che noi, troppe volte, riceviamo l’evangelo della grazia. Ho usato il verbo “ricevere”, non “accogliere”: perché accoglierlo veramente, questo evangelo, può solo chi si sappia riconoscere malato, come il popolo di Sion. Il grande rischio che tutti noi corriamo è che questo dono ci raggiunga senza che da noi venga una vera risposta, un vero coinvolgimento, e in questo modo resti per noi inefficace. Per “accoglierlo” davvero, questo dono, noi dobbiamo renderci disponibili all’azione dello Spirito Santo, a quella “rigenerazione”, a quel “rinnovamento” di cui parla Paolo, e che solo lo Spirito può operare. Solo lo Spirito può avere la meglio sulla nostra ottusità, sulla nostra “insensatezza”. Pensiamoci: in questi pochi versetti, Paolo concentra non solo la teologia della salvezza per grazia, ma anche la teologia trinitaria. Ecco un’altra peculiarità di questa densa pagina scritturale: essa ci invita a vivere il Natale anche come festa trinitaria. Nel pensare al Natale, nel vivere il Natale, noi siamo abituati infatti a concentrare la nostra attenzione sul Figlio, sul Figlio di Dio venuto tra noi nella forma indifesa di un bambino. Ma il Bambino di Betlemme non ci sarebbe, non ci sarebbe mai stato, senza l’amore del Padre e senza l’azione potente dello Spirito. Paolo è qui in linea con tutte le narrazioni neotestamentarie, nelle quali l’intera vicenda dell’Incarnazione è messa in moto dall’impulso dello Spirito. Già lo dicevamo nella predicazione di domenica scorsa: è lo Spirito che rende Maria docile e disponibile alla volontà del Signore annunciatale dall’angelo; è lo Spirito che fa di Elisabetta una profetessa. Vivere pienamente il Natale significa, dunque, anche lasciarsi trasportare, e trasformare, dalla forza rigeneratrice dello Spirito Santo. Significa riuscire a intravedere nel Natale un anticipo di Pentecoste. “Eredi della vita eterna”, noi cristiani – afferma Paolo – viviamo “in speranza”. Come si fa a vivere “in speranza”? Direi che vive in speranza chi resta umilmente e tenacemente fedele alla vocazione ricevuta, ricordando in ogni giorno, in ogni momento della propria vita la necessità di essere rigenerato e rinnovato dallo Spirito. Necessità nostra e di tutta la chiesa, un tempo riformata eppure sempre bisognosa di continua riforma: perché nulla è scontato, nulla si acquisisce una volta per sempre. Se riusciremo a imparare tutto questo, allora potremo davvero vivere il Natale come una festa, godendoci anche le strade illuminate, l’albero, i regali. A patto però che non dimentichiamo mai l’esistenza di quei minimi con i quali Cristo si identifica nel passo di Matteo che abbiamo ascoltato, un passo famoso ma anche questo, all’apparenza, tutt’altro che “natalizio”. All’apparenza: perché, invece, coloro che in questo grande affresco del giudizio finale il re colloca alla sua destra altri non sono se non coloro che hanno saputo fare del Natale il loro stile di vita, che hanno saputo tradurre il Natale in prassi quotidiana impegnandosi per la giustizia e il rispetto del diritto, mettendosi al servizio di chi ha bisogno di aiuto. Perché solo così, incamminandoci sulla strada della diaconia vissuta nell’amore per gli altri e accogliendo nella fede l’immeritato dono della grazia e il soffio rigenerante dello Spirito Santo, potremo diventare nuove creature. È questo il mio augurio natalizio per tutti voi, per tutti noi, per la nostra Chiesa.
(Sermone a cura della nostra Pastora, Caterina Griffante)