Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 20 GENNAIO 2013 (Mt 17: 1-9, Sal 36: 5-9, 2 Cor 4: 5-6)

TRASFIGURAZIONE DI NOSTRO SIGNORE

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Il passo di Matteo riferisce meglio che può, perché qui Matteo, e con lui Marco e Luca, si trovano alle prese con l’esigenza di esprimere l’indicibile, quell’evento singolare e misterioso che è la trasfigurazione di Gesù. Di questo episodio evangelico, la Chiesa cattolica romana e le Chiese orientali fanno memoria il 6 agosto; il mondo protestante, invece, non gli dedica espressamente una commemorazione liturgica in una particolare domenica. È per questa domenica di gennaio, tuttavia, che il nostro lezionario ci propone la narrazione della Trasfigurazione tramandataci da Matteo. Mi sembra una collocazione tutt’altro che inopportuna, rispondente, anzi, a una logica interna del calendario liturgico che, da Natale all’Epifania, ci ha invitati a concentrare la nostra attenzione sul tema della manifestazione del Signore, della manifestazione della gloria divina tra gli esseri umani, in una serie di momenti, di tappe: la manifestazione ai pastori, la manifestazione ai magi, la manifestazione avvenuta sul fiume Giordano. Anche l’episodio della Trasfigurazione è una manifestazione, ma di carattere diverso dalle precedenti. Prima, l’Onnipotente si nascondeva sotto le spoglie di un neonato indifeso o di un uomo non diverso dai tanti altri che accorrevano al fiume per ricevere il battesimo di Giovanni, e per decifrarne la vera natura era necessario un messaggio angelico, o l’intervento dello Spirito Santo; mentre qui i tre discepoli sul monte ricevono una rivelazione diretta della natura divina di Gesù, una sorta di flash abbagliante che preannuncia lo splendore del Risorto. È per questo che alla fine della visione Gesù rivolge ai discepoli confusi e turbati l’esortazione “Non temete”, cioè l’invito che sempre nella Scrittura si accompagna a una manifestazione del divino. Matteo e gli altri sinottici, dicevo, nel narrare questo episodio cercano parole per comunicare un’esperienza che non può essere comunicata con parole umane. È un’impresa ardua ma affascinante, nella quale si sono cimentati anche tanti pittori: grandi maestri della pittura occidentale e innumerevoli autori di icone orientali, perché il tema della Trasfigurazione è particolarmente sentito nella spiritualità e, di conseguenza, nell’arte del mondo ortodosso. Ma torniamo al nostro testo. L’episodio della Trasfigurazione è immediatamente preceduto da un versetto misterioso: “alcuni di coloro che sono qui presenti non gusteranno la morte, finché non abbiano visto il Figlio dell’uomo venire nel suo regno” (Mt 16: 28). E poco prima c’era stata la confessione di Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16: 16). È dopo la confessione di Pietro e dopo l’annuncio della venuta del Figlio dell’uomo che Gesù prende con sé tre discepoli e si trasfigura davanti a loro. Matteo vuol farci capire che la parola di Gesù si è realizzata nella trasfigurazione. Dopo che Pietro lo ha riconosciuto come messia, Gesù offre una primizia del regno a tre discepoli, portandoli soli su un’alta montagna – e sappiamo bene che nella Bibbia l’“alta montagna” ha sempre un significato particolare. Che cosa è avvenuto, dunque, su quel monte? Per noi è impossibile descriverlo, così come è impossibile agli evangelisti. Si può dire soltanto che si è trattato di un’esperienza abbagliante: il volto di Gesù “risplendette come il sole e i suoi vestiti divennero candidi come la luce”. Marco, nel passo corrispondente a questo di Matteo (Mc 9: 2-7), diventa addirittura un po’ comico quando dice che le vesti di Gesù erano “di un tal candore che nessun lavandaio sulla terra può dare”. L’imbarazzo, la goffaggine perfino, degli evangelisti rivelano l’incapacità di dire ciò che gli occhi trasformati dei discepoli hanno visto in quella circostanza, hanno visto di Gesù e intorno a Gesù. Ho parlato di “occhi trasformati”, e non a caso: la lettura che di questo episodio fanno i Padri della chiesa d’Oriente dice infatti che in realtà non Gesù si trasfigurò, ma si trasfigurarono gli occhi dei discepoli, che riuscirono così a vedere il loro Maestro per quello che veramente era. Le icone orientali fanno partire dalla figura di Cristo dei raggi che vanno a colpire gli occhi dei discepoli. Certamente, i discepoli videro che Gesù aveva un’altra forma: “fu trasfigurato davanti a loro” equivale a “cambiò aspetto, subì una metamorfosi”. Videro, i discepoli, qualcosa di “totalmente altro” rispetto alla loro quotidiana esperienza di Gesù: videro un volto pieno di luce, videro vesti gloriose come quelle dei giusti secondo la Bibbia ebraica. Capirono in profondità, con una profondità che andava ben oltre la confessione che Gesù era il messia: come era avvenuto in occasione del battesimo. Ritorno a quanto dicevo prima: questa scena è uno sviluppo della scena del battesimo, è un momento eccezionale in cui Pietro, Giacomo e Giovanni riescono a sentire quello che Gesù ha sentito lui solo al battesimo. Ma lo sentono mentre accanto a Gesù vedono la Legge (Mosè) e i profeti (Elia), vedono cioè il Primo Testamento che testimonia di lui. Elia, il profeta atteso per la fine dei tempi, indica Gesù come il compimento delle Scritture, indica Gesù come Colui nel quale la Legge e i profeti si adempiono. E poi ecco la “voce dalla nuvola” (e sappiamo come nella Bibbia ebraica la nuvola racchiuda spesso una presenza divina). La voce non solo ripete le parole del battesimo, ma aggiunge qualcosa di molto importante: shemà, ascolta. È Gesù che ora bisogna ascoltare. In questa teofania noi abbiamo il cuore del vangelo: dalla confessione di Pietro si arriva alla confessione del Padre su Gesù a Pietro, Giacomo e Giovanni. D’ora in poi i discepoli dovranno vedere in Gesù colui che realizza la Legge e i profeti. Luca (cfr. Lc 9: 28-35) aggiungerà che Mosè ed Elia “parlavano” con Gesù “della sua dipartita che stava per compiersi in Gerusalemme”, gli stavano dicendo, cioè, quello che lo attendeva, la passione, la morte e la resurrezione. Il significato è sempre quello: la predicazione di Gesù, l’evangelo da lui annunciato, e la sua stessa vicenda terrena, ricevono ora l’avallo della Legge e dei profeti, di tutte le Scritture. Dunque la trasfigurazione radiosa, Mosè ed Elia, la voce dalle nuvole … e poi? Poi interviene Pietro. Il solito Pietro, verrebbe da dire: sempre pieno di amore per il suo Maestro ma anche sempre impulsivo, a volte inopportuno. Adesso parla di costruire tre tende. Parla a vanvera, parla tanto per dire qualcosa, sopraffatto da una situazione troppo nuova e troppo grande per lui: “non sapeva che cosa dire”, “non sapeva quello che diceva”, commentano infatti Marco (9: 6) e Luca (9: 33). Potremmo dire che qui, di nuovo, Pietro rappresenta una tentazione per Gesù: resta qui, nella gloria, non esporti a pericoli, non scendere a Gerusalemme. Ma, prima di tutto, Pietro vuol dire a Gesù: resta qui, certo nella tua gloria, certo con Mosè e con Elia, ma anche con noi, con noi discepoli, che abbiamo bisogno di te, abbiamo bisogno di averti sempre vicino. Da un lato, è vero, questo è ancora una volta un “tentare” Gesù; ma in questo “tentare” il suo amato Maestro Pietro esprime una necessità umanissima, una necessità che, credo, tutti noi condividiamo. A ben pensarci, non parla poi tanto a vanvera. Nel Gesù trasfigurato Pietro ha riconosciuto, forse senza rendersene pienamente conto, la realizzazione del regno, la presenza del divino. Questo, logicamente, ha riempito lui e gli altri due discepoli di “gran timore”; ma si tratta di quello che potremmo chiamare un timore reverenziale, non dello spavento provocato da un Dio minaccioso. Non c’è nessuna minaccia in questa luce. Si tratta (Pietro e gli altri due lo percepiscono) di una luce buona, proprio perché viene da Dio; una luce che è quella stessa luce di cui parla spesso la Scrittura, per esempio nel salmo del quale abbiamo ascoltato alcuni versetti: la luce di Dio, la luce del regno – e “regno” significa pieno benessere materiale e spirituale, armonia di tutte le creature tra loro e di tutto il creato con Dio.C’è tanta nostalgia nascosta in queste parole di Pietro: nostalgia per un Dio “terrestre”, che stia con noi, che metta le sue tende in mezzo a noi, come dice Giovanni nel prologo del suo vangelo (1: 14), ma le metta per sempre, queste tende, non se ne vada, non ci abbandoni. E invece, talvolta, anzi troppo spesso, quegli uomini e quelle donne che si dicono credenti e che davvero vogliono esserlo, che con tanta fatica cercano di credere, si trovano di fronte a teologi, a ministri del culto, a coloro che potremmo definire i gestori dell’Evangelo, i quali talvolta, troppo spesso, cacciano Dio dalla terra per relegarlo nell’alto dei cieli, in modo tale che non si riesce più a vedere il suo volto splendente. Credo di non sbagliarmi affermando che questa è una difficoltà comune a tutte le chiese cristiane. Questa domenica cade nella settimana dedicata alla preghiera per l’unità dei cristiani: una ricerca di unità che, lo sappiamo, soprattutto nei tempi più recenti procede con grande fatica. Ma sappiamo, d’altra parte, che i cristiani sono già uniti sotto molti aspetti; ebbene, un ulteriore elemento di unità io lo riconosco proprio in questa nostalgia, che ci accomuna tutti, per un Dio che sia veramente l’Emmanuel, il Dio con noi, che ci illumini con la sua luce che altro non è che il suo amore, che ci sappia accarezzare, che asciughi le lacrime dai nostri occhi. Vorrei concludere con un’ultima considerazione. Il 6 agosto, per molte chiese giorno in cui si fa memoria di un Gesù che si trasforma in essere di luce, in sole radioso, è anche la ricorrenza di un sole di morte esploso il 6 agosto 1945 in Giappone. Nel 2006 il segretario generale della Conferenza delle chiese europee ha chiesto alle chiese membro di dedicare il 6 agosto alla preghiera per la pace. Mi sembra, questo, un forte richiamo a una presa di coscienza: il sole fabbricato dagli esseri umani è troppo spesso un sole creatore di morte. Solo se nei nostri cuori brillerà quella che Paolo chiama “la luce della conoscenza della gloria di Dio” potremo divenire veri testimoni della Trasfigurazione, e del regno che essa preannuncia. Solo nella via del servizio agli altri potremo “trasfigurare” la quotidianità che ci è stata affidata e farci, in ogni circostanza, portatori di pace.

(Sermone a cura della nostra Pastora, Caterina Griffante)

Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 13 GENNAIO 2013 (Ebrei 13,14)

“Poiché non abbiamo qui una città stabile, ma cerchiamo quella futura”

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Il versetto dell’anno 2013 si presenta molto chiaro nella sua struttura: un’affermazione che contiene due idee tra loro in tensione. La prima parte del versetto ci invita a riflettere su una realtà che conosciamo bene: la nostra realtà, quella che passa, quella che scorre, quella che non è stabile (non solo nel senso che non è sicura, ma anche nel senso che non è eterna). “Non abbiamo quaggiù una città stabile…”: non possiamo sapere se l’autore della lettera agli Ebrei avesse in mente o ancora negli occhi la distruzione di una qualche città (forse, Gerusalemme stessa distrutta dai Romani) o se questo riferimento sia “casuale”, preso come esempio. Il fatto certo è che l’immagine di una città non stabile, l’immagine della città che può essere distrutta, abbattuta è qualcosa che afferra anche la nostra attenzione. Non c’è bisogno di ricorrere – per quanti di voi potrebbero averne il ricordo, anche se forse solo vago – alle città distrutte dai bombardamenti dopo la Seconda guerra mondiale; basta pensare alle immagini che solo pochi anni fa ci sono giunte dalla città di L’Aquila o all’inizio dell’anno passato dall’Emilia Romagna, che è ancora segnata dalla distruzione portata dal terremoto. Ricordo di essere passato con il treno nelle zone colpite dal terremoto poche settimane dopo che questo si era verificato: l’impressione che quegli edifici crollati mi hanno lasciato è troppo difficile da descrivere con le parole (e non vorrei neanche usarne troppe per evitare di sembrare cinico o per far credere di poter capire che cosa le persone colpite provino). Ma appunto, è un’impressione che, ancora a mesi distanza, mi fa pensare a quanto possa essere fragile la nostra esistenza, a quanto, anche e proprio quello che costruiamo con una prospettiva di lungo termine, possa rivelarsi passeggero. Dalle mie parti, dove i tetti, in particolare nel passato, venivano costruiti con lo gneiss lamellare, lastre di pietra grigia, c’è un detto: “Il tetto a losa (la pietra, appunto) riposa cent’anni”. Eppure, quante volte anche le baite costruite in questa prospettiva, per una valanga non prevista, sono durate molto meno non dei cento, ma anche solo dei dieci anni.

Non abbiamo quaggiù una città stabile…”: certo, ci verrebbe voglia di ripeterci, che questa verità la conosciamo fin troppo bene. Chi di noi non ha detto almeno una volta, nella sua vita: “Niente dura per l’eternità”? E oggi, probabilmente, in un tempo in cui avere un contratto di lavoro a tempo indeterminato sembra una prospettiva che si avvicina all’eternità, questo sentimento, questa consapevolezza della caducità di quanto realizziamo e di quanto riusciamo a raggiungere è in parte ancora più presente. Molti di voi hanno lavorato per l’intera vita (o quasi) per la stessa azienda o nello stesso settore: oggi, per la maggior parte dei giovani, la prospettiva è quella di cambiare prima ancora di aver capito bene tutti i propri compiti. Molti di voi hanno vissuto la propria vita pensando che avere delle radici, se era possibile metterle, fosse importante: oggi, sembra che avere delle radici, diventi quasi un impedimento, più che una ricchezza. Il motto è mobilità, mobilità, mobilità. Appunto, “non abbiamo quaggiù una città stabile…”. Eppure, anche di fronte a questa affermazione e a questa consapevolezza che condividiamo, perché dobbiamo prenderne atto, ci è imposto di farlo, un po’ ogni tanto, ci ribelliamo (forse, non solo un po’ e non solo ogni tanto!). Trovo interessante osservare come tante persone, non riescano ad accettare il fatto che esiste un limite: ci è difficile, diciamolo così, vivere nella prospettiva del limite, della nostra limitatezza, vivere accettando che noi e quello che realizziamo non siamo eterni. E così cerchiamo sempre un po’ di renderci eterni: intendiamoci, non penso in questo momento alle assurdità di chi vorrebbe rendersi eterno (o quasi) prolungando la vita fino a duecento anni. Penso a quei molti tentativi, che si esprimono nei vari modi della creatività umana e che cercano di prolungare il ricordo di un nome, di un fatto, di un’opera d’arte, di un brano musicale, dell’autore di azione virtuosa, molto oltre il tempo in cui queste cose sono state realizzate o le persone sono vissute. Se ci pensiamo bene quando noi raccontiamo qualcosa (per esempio legato alla storia della nostra chiesa o della piccola grande avventura dei protestanti in Italia), stiamo proprio lottando perché questo patrimonio non sfugga alla memoria, perché ne rimanga un ricordo “perenne”. Eppure, anche in questo nostro tentativo, che molto spesso non ha nulla di presuntuoso, dobbiamo fare i conti con il limite, con il fatto che anche questi ricordi saranno in buona parte fugaci, che quanto ancora oggi alcuni si ricordano, domani non sarà più ricordato. Neanche i ricordi possono essere rinchiusi in una città indistruttibile, stabile.

E, ciononostante, noi non ci diamo per vinti: continuiamo nella nostra ricerca, l’essere umano è sempre alla ricerca di qualcosa. Il nostro versetto non nega questa dimensione di ricerca neanche al credente, anzi, sembra proprio dirci che senza ricerca la fede perde vigore. Chi non cerca più commette forse con maggior facilità l’errore che si deve evitare: credere di avere già raggiunto tutto, credere di avere già una città stabile. Chi è in cammino di fede, invece, sa che la città che ci viene promessa, quella futura, deve essere ancora cercata. È una città che ci viene offerta, che non dobbiamo costruirci, ma che al tempo stesso non ha ancora per noi dei contorni così chiari, e proprio per questo ne siamo alla ricerca. Ma la ricerca che noi conduciamo, come credenti, non ci porta fuori dal mondo, non ci porta a vivere soltanto nel futuro beato: noi cerchiamo questo futuro camminando nel nostro presente, vivendo con i piedi ben piantati nel luogo in cui siamo. E questa ricerca ci dà energie per non essere indifferenti di fronte a quanto ora, nel presente, sembra essere stonato rispetto alla città futura. Questa ricerca ci dà la forza di essere attenti, attivi e reattivi perché la nostra città instabile possa godere almeno un po’ della luce della città futura, perché anche quanti non sono con noi alla ricerca possano chiedersi per quale ragione noi camminiamo nella certezza di vivere un giorno in una città che non dovrà temere il bombardamento o la distruzione; questa ricerca ci porta ad essere oggi sentinelle nella nostra città sapendo che nella città che cerchiamo non serviranno sentinelle. Con questa consapevolezza hanno camminato i puritani, che così spesso hanno sottolineato lo slancio verso la nuova Gerusalemme senza dimenticare che questo slancio passava anche attraverso la trasformazione del mondo da loro abitato. Oggi non parleremmo di welfare (stato sociale, se preferite) se un bravo teologo luterano del XVI secolo, Johann Eberlin, non avesse nei suoi scritti parlato della città ideale di Wolfaria, luogo di benessere e di ordine civile: certo, non una città stabile e sicura realizzata da qualche parte, ma l’immagine di una città futura, che pure ha dato energie per realizzare qualcosa di concreto.

La parola della lettera agli Ebrei che ci viene rivolta oggi non è quindi un invito alla rassegnazione, un modo per metterci il cuore in pace, sapendo che, comunque, quello che abbiamo è incerto e quello che ci si prospetta è indefinito. Noi camminiamo con decisione verso una città che è nella promessa di Dio, e quindi fa parte del futuro che lui ci promette. Lo facciamo sapendo che nel mondo siamo in una stazione di passaggio. Non l’unica stazione per la quale passiamo, come vuole suggerirci chi dice “si vive una volta sola”. La nostra vita ha un futuro nel futuro di Dio. È verso quel futuro che noi viaggiamo. E in quel futuro non dovremo più cercare di far vivere per l’eternità quello che non è eterno. Perché sarà l’eternità a farci vivere. Amen.

(Sermone a cura del pastore William Jourdan, della Chiesa Evangelica Metodista di Vicenza)

Eventi: DOMENICA 13 GENNAIO 2013 ALLA CHIESA DI PADOVA SPAZIO AI GIOVANI !!!

fgei
Domenica 13 gennaio, la Chiesa Evangelica Metodista di Padova (Unione delle Chiese Evangeliche Valdesi e Metodiste) è orgogliosa di ospitare la:
GIORNATA FGEI (FEDERAZIONE GIOVANI EVANGELICI ITALIANI) DEL TRIVENETO
Ritrovo dei partecipanti alle 10:30  in chiesa
Ore 11 Culto (a cura del Pastore William Jourdan, della comunità di Vicenza)
A seguire: Agape  e attività pomeridiane (Studio biblico,  riflessioni, attività di gruppo….. e naturalmente l’allegria di stare insieme)
Conclusione:  ore 17 (ufficialmente, poi …)
Per qualsiasi informazione, contattare i responsabili del nostro Gruppo Giovani:
Alberto Ruggin (Cell. 3494950356; Mail: alberto.ruggin@email.it; oppure tramite Facebook)
Federico Tirindelli (Mail: federico-tirindelli@alice.it; oppure tramite Facebook)

News: RIPRENDONO I NOSTRI STUDI BIBLICI (Ospite PAOLO RICCA!!!)

              

PAOLO RICCA                                Don CARLO MOLARI

Dopo la pausa natalizia, riprendono i nostri Studi Biblici

– Venerdì 11 gennaio, alle ore 21, presso i locali sociali, STUDIO BIBLICO INTERCONFESSIONALE (aperto come sempre a tutti i fratelli cristiani di qualsiasi confessione, denominazione o anche semplici vaganti senza chiesa). Prosegue l’esame del Qohelet (o Ecclesiaste)

ATTENZIONE! ATTENZIONE! NOTIZIA DELL’ULTIMO MINUTO:

SARANNO PRESENTI I TEOLOGI PAOLO RICCA (Pastore Valdese) e CARLO MOLARI  (Sacerdote cattolico)

Di passaggio ambedue per Padova, dove, nella giornata di sabato 13 gennaio, saranno ospiti presso la Facoltà Teologica del Triveneto per un Convegno dedicato ai cinquant’anni dal Concilio Vaticano II.

Per chi fosse interessato:

“Per ritrovare il Concilio”

Sabato  12 gennaio 2013 h 9.00-12.30
Convegno: La ricezione del Concilio Vaticano II nella teologia e nel cammino Ecumenico
Carlo Molari teologo cattolico
Paolo Ricca pastore e teologo valdese

c/o Facoltà Teologica, via del Seminario 7, PADOVA

– Sabato 12 gennaio, alle ore 17, presso la famiglia Angeleri di Padova, STUDIO BIBLICO della nostra Comunità. Incentrato sulla lettura e sullo studio dei Salmi. Se volete partecipare, mettetevi in contatto con la nostra Pastora (vedi pagina Contatti).

Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 6 GENNAIO 2013 (EPIFANIA DI NOSTRO SIGNORE) (Is 60:1-6; Mt 2:1-12, Ef 3:1-7)

“Gli stranieri sono eredi con noi, membra con noi di un medesimo corpo e con noi partecipi della promessa fatta in Cristo Gesù mediante il Vangelo”

Luce, luce, luce. Un’inondazione di luce. In questa prima domenica dell’anno che coincide con la festa dell’Epifania, cioè della manifestazione del Signore, la liturgia continua a riversare su di noi la luce del Natale, la luce che è venuta nel mondo con l’Incarnazione: quella luce che durante le feste natalizie noi cerchiamo di simboleggiare alla meglio con i nostri poveri mezzi umani, con le candele, con le lucette dell’albero di Natale. Quella di Dio come luce è metafora universale, poi ripresa ampiamente nel NT, in particolare nel vangelo di Giovanni nel quale ricorre con insistenza la contrapposizione, la lotta tra luce e tenebre; contrapposizione che percorre però tutta la Scrittura, fin dal primo capitolo della Genesi. Parla dunque di luce e di tenebre anche questo passo del cosiddetto Terzo Isaia, un passo di straordinaria potenza evocativa. La luce è presentata qui come strettamente associata a Dio, come manifestazione visiva della Sua gloria – e questo può aiutarci a comprendere perché il lezionario ci proponga questa lettura per questa domenica, la domenica appunto della Manifestazione. Per contro, le “tenebre”, in Isaia come in Giovanni, contraddistinguono tutto ciò che è altro rispetto a Dio: cioè “la terra”, “i popoli”; in altre parole, tutti gli esseri umani, tutti noi esseri umani. Tutti noi siamo, per natura, coperti dalle tenebre, avvolti in una fitta oscurità; ciechi, di conseguenza, e incapaci da soli di trovare la nostra strada. Questo è lo stato originario delle cose; ma questa condizione di partenza appare, in Isaia, ormai completamente superata. Di conflitto tra luce e tenebre, infatti, qui nemmeno si parla, perché la luce ha già vinto al suo primo apparire, al suo primo manifestarsi, espandendosi su tutto ciò che prima era dominio delle tenebre; quindi anche, anzi in primo luogo, sulla città santa, Gerusalemme. Sottratta all’oscurità, messa in grado di guardarsi intorno e di vedere ciò che il Signore ha preparato per lei, Gerusalemme vedere snodarsi davanti ai suoi occhi una visione meravigiosa. Le visioni ricorrono nella letteratura profetica; ma spesso sono visioni che preannunciano duri giudizi e punizioni divine. Qui, nulla di tutto questo. Is 60 e i due capitoli successivi sono dall’inizio alla fine null’altro che un annuncio di salvezza da parte di un Dio che a sua volta non ha più nulla di severo, di terribile, ma è un Dio “evangelizzatore”, portatore di liete notizie per Israele. Ci sarà un cambiamento, una svolta salvifica all’interno della storia di questo popolo. Non solo avverrà il ritorno in patria dei figli di Israele esiliati e dispersi; si svilupperà un movimento infinitamente più ampio, un imponente e spontaneo confluire dei popoli tutti verso Sion. Popoli che porteranno con sé i loro tesori per la glorificazione di Gerusalemme e, attraverso Gerusalemme, del “nome del Signore, suo Dio, del Santo d’Israele” (v. 9). Questa sarà la piena manifestazione della gloria del Signore: un solenne e insieme entusiastico dirigersi dei popoli verso Sion per cooperare, tutti insieme, alla sua gloria e alla sua prosperità, in un grande progetto collettivo nel quale finiranno per perdere ogni significato le tradizionali distinzioni tra figli di Israele e stranieri. Che dire di questa visione – o, meglio, che cosa Dio vuole dire a noi attraverso questa visione? Intanto: cosa dobbiamo pensarne, di questa visione? È utopia, è possibilità, è realtà, è compito che ci viene assegnato? Direi che è un po’ tutte queste cose insieme; certo, non è un semplice sogno privo di contenuto teologico. Anzi, direi che questa visione vuole innanzitutto ribadire un concetto teologico basilare, eppure spesso sottovalutato dai credenti: la salvezza non viene dalla comunità, non viene da noi, non possiamo costruircela con le nostre mani; la salvezza viene da fuori, viene da Dio; Dio stesso salverà il suo popolo – cioè tutti noi – irrompendo su di lui, su di noi come una irresistibile fiumana di luce, dandogli/dandoci in dono quel futuro imprevedibile quanto indicibile che la visione tenta in qualche modo di raffigurare mediante un linguaggio metaforico. Qualcuno potrebbe dire che questa visione è utopia pura; in realtà è l’utopia della fede, l’utopia della speranza, l’utopia che deve coltivare chiunque guardi al futuro con fiducia, e a maggior ragione un cristiano. Credo che questo sguardo di fiducia sia molto adatto a noi in questa prima domenica dell’anno; credo che sia in questo spirito di “fiducia nonostante tutto” che Dio ci chiede anche di celebrare, come è tradizione nelle chiese metodiste all’inizio del nuovo anno, il rinnovamento del patto. Ma ciò che più immediatamente colpisce in questa visione narrata da Isaia è il suo universalismo, che rinuncia a qualsiasi immagine di un Dio “nazionale” e allarga il concetto di “popolo di Dio” a tutti i popoli. È un messaggio pregno di Evangelo; non a caso, secondo il giudizio di molti, Isaia è il più “evangelico” di tutti i profeti. E infatti queste moltitudini di stranieri che riconoscono la gloria del Signore e ne sono attratti al punto di convergere verso Gerusalemme, per onorare il Signore onorando Gerusalemme e offrendole i loro tesori, richiamano irresistibilmente alla mente i protagonisti di un altro episodio evangelico, indissolubilmente legato nella tradizione liturgica delle chiese cristiane alla festa dell’Epifania: l’episodio dell’adorazione dei magi. Anche questi sapienti lasciano il loro paese e intraprendono un lungo viaggio per onorare il Dio di Israele nella persona di quel bambino insignificante nel quale tuttavia essi sanno riconoscere “il re dei Giudei”. Anche loro offrono i loro tesori, tra i quali quell’“oro” e quell’“incenso” che Isaia annovera tra i doni offerti a Gerusalemme. Anche nella storia dei magi c’è una luce, la luce della stella che li guida. Ma, soprattutto, anche questi ragguardevoli personaggi venuti da imprecisate terre orientali sono stranieri, non fanno parte del popolo di Israele. Isaia e Matteo ci trasmettono così un unico messaggio, un messaggio che è veramente un “evangelo”, un lieto annuncio, e che trova la sua formulazione più esplicita nel passo della lettera agli Efesini che, molto giustamente, il lezionario ci propone accanto alle altre due letture, a formare quello che potremo chiamare un “trittico della Manifestazione del Signore”: “è stato rivelato”, dice Paolo, “che gli stranieri sono eredi con noi, membra con noi di un medesimo corpo e con noi partecipi della promessa fatta in Cristo Gesù mediante il vangelo”. Sorelle e fratelli: se il profeta propone queste visioni alla comunità di Israele non è per farla sognare ad occhi aperti, è per mobilitarla. Il terzo Isaia è il profeta di un nuovo inizio: nuovo inizio in senso storico, ma anche in un senso più ampio, più grande, più definitivo, e vuole che Israele capisca di essere chiamata a suscitare una novità sulla base di questa visione che il profeta le prospetta. Ma questa chiamata è rivolta anche a noi. E quali sono queste novità che siamo chiamati a suscitare? Direi che sono essenzialmente due. La prima: la nostra fede non riguarda una terra (la nostra terra), riguarda il mondo intero. Ricordiamoci che fin dall’inizio i cristiani si sono sentiti stranieri in ogni terra, e hanno sentito ogni terra come la loro patria. Ecco perché uno dei più grandi peccati dei quali i cristiani si sono macchiati nella storia è stato il nazionalismo, peggio ancora se associato alla fede. Una fede intrisa di qualsiasi forma di nazionalismo contrasta radicalmente con il messaggio evangelico. Seconda novità: l’essere cristiani ci porta a trascendere tutti i legami “naturali” di qualunque tipo: legami di sangue, di lingua, di cultura, di appartenenza etnica… E nemmeno la famiglia, nel cristianesimo, ha l’ultima parola: ricordiamo che i discepoli sono stati strappati alle loro famiglie. Vorrei però cercare di approfondire meglio, insieme a voi, questa immagine dello straniero condotto dalla luce divina ad avvicinarsi a Israele – o a quel “nuovo Israele” che è la comunità dei credenti in Cristo. Certo, ai nostri giorni l’immagine dello straniero che si avvicina alle nostre chiese è ormai familiare. Molte delle nostre chiese sono diventate multietniche, multiculturali; l’immigrazione, soprattutto dai Paesi extraeuropei, ha dato alle nostre comunità un nuovo volto, creando situazioni ricche di potenzialità e al tempo stesso di problemi. Penso, tuttavia, che non siano solo le sorelle e i fratelli di altra nazionalità coloro che possiamo identificare con gli “stranieri” di cui parlano Isaia, Matteo e Paolo. Ho in mente degli “stranieri” che si possono considerare molto più “stranieri” dei nuovi membri di chiesa provenienti da Paesi lontani. Questi, infatti, pur diversissimi da noi sotto molteplici aspetti hanno in comune con noi un elemento fondamentale: la fede in Cristo. Io credo, invece, che dalle letture bibliche di oggi noi siamo chiamati soprattutto a tenere “le nostre porte sempre aperte” (per dirla con Isaia) a quelle tante persone che sono “straniere” alla fede eppure in stato di continua, inquieta ricerca, proprio come i magi. Affinché dalle nostre porte aperte possa filtrare per loro qualche raggio di quella luce divina che guiderà i popoli a Gerusalemme, che guidò i magi a Betlemme; e anche, sì, affinché attraverso queste porte aperte noi possiamo ricevere i tanti doni che gli “stranieri” (tutti!) hanno da offrirci; doni che dobbiamo saper riconoscere, perché possono contribuire all’edificazione della nostra comunità: “i figli dello straniero ricostruiranno le tue mura”, dice Isaia. Questa collaborazione degli stranieri al benessere della città santa non lascia nulla com’era prima: né le mura di Gerusalemme, né gli stranieri stessi, che hanno imparato a identificarsi con le sorti di Gerusalemme. Così pure credo, anzi ne sono certa, che dopo il loro avventuroso viaggio a Betlemme i magi non siano più stati gli stessi di prima. Credo, in altre parole, che non esista Manifestazione senza trasformazione. Ecco, allora, la mia piccola, modestissima eppure audace “visione”: che chiunque, di qualunque provenienza, entri in contatto con questa nostra comunità ne risulti in qualche modo, sia pure impercettibilmente, trasformato. Forse è questo il compito che Dio ci assegna. Certo è comunque che, se così avverrà, allora davvero la luce dell’Epifania risplenderà su di noi per l’intero anno.

 (Sermone a cura della nostra Pastora, Caterina Griffante)

Sermone: PREDICAZIONE DI DOMENICA 30 DICEMBRE 2012 (Mt.14:22-36; 1Pt.1:3-12)

«Uomo di poca fede, perché hai dubitato?»

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I protagonisti dei racconti biblici, dall’Antico al Nuovo Testamento, nei momenti cruciali e fondanti la storia della loro vita, si trovano ad essere all’improvviso toccati dalla presenza di Dio e ne provano un grande spavento. Non vi è dubbio che si tratta di un genere di paura nuovo, diverso, indescrivibile. Non è quello che ci assale di fronte a gravi pericoli e tanto meno si tratta di quell’angoscia del vivere, oscura e profonda, che purtroppo travaglia tante persone. E’ uno spavento che si può provare solo nella percezione di trovarsi di fronte a ciò che è infinitamente più grande di noi, imponderabile, oltre i limiti della nostra conoscenza. Queste epifanie del Signore, queste esperienze così tangibili della sua presenza, aprono una comunicazione personale e del tutto particolare. Immediatamente, le prime parole che arrivano all’animo turbato sono: Non temere! Stai di buon animo! E subito dopo invitano a credere, fanno appello alla fede. E non sempre la creatura chiamata a una simile esperienza l’accetta; avviene anche che la rifiuti. Nel racconto che abbiamo appena letto è sera, sta scendendo il buio della notte. I discepoli e il Maestro devono raggiungere l’altra sponda del lago. Doveva essere stata una giornata lunga e faticosa: tanta gente era venuta per ascoltare gli insegnamenti di Gesù. Gesù manda avanti i discepoli: ha bisogno di riposo nel silenzio della sera. Il suo riposo sta nella preghiera. Ogni volta che i Vangeli ci dicono che Gesù prega, comprendiamo che la sua preghiera deve essere stata un’intensa comunione con il Padre, di gran lunga superiore a quanto noi – nella nostra piccolezza – saremmo capaci. Lì Gesù ritrova tutta la sua forza. Intanto, però, per alcune ore i discepoli hanno remato in lotta con il vento contrario e con le onde sempre più alte e minacciose. Le tempeste nelle acque di un lago sono terribili. Alle tre di notte si trovano solo a metà percorso: sono proprio nel mezzo al lago e hanno paura. È la paura istintiva e irrefrenabile che si prova quando si è faccia a faccia col pericolo che minaccia la nostra vita. La notte non è sempre buia allo stesso modo: forse, quella notte il vento aveva sgombrato lembi di cielo e lasciava filtrare il chiarore di stelle e di luna: in quel lieve barlume notturno i discepoli scorgono la sagoma di qualcuno che viene verso di loro. È in quel momento disperato che Gesù li raggiunge. Sfiora la superficie delle acque in tempesta, arriva alla barca e pare che stia per oltrepassarla, facendo loro strada verso la riva. Ma i suoi non lo riconoscono. Come avverrà in altri momenti cruciali della loro vita, non credono che sia lui, il loro Maestro e Signore. Rivestono della loro paura quella sagoma che li sfiora e, secondo il racconto che ne fa Marco, gridano: è un fantasma! Non dobbiamo meravigliarci dei discepoli, non abbiamo ragione di biasimarli. Perché così siamo noi – tutti! Siamo comunque alla ricerca ansiosa di un perché che sia a nostra dimensione, un perché che renda plausibile l’esperienza in cui ci troviamo immersi, e alla quale magari reagire; rivestiamo della nostra paura qualcosa fuori di noi, per liberarcene. Così può succedere anche a noi. E magari, alcuni di noi sono già passati attraverso questa esperienza. Quando viviamo una grave perdita, tale dolore sembra non potrà mai più avere fine; quando ci troviamo faccia a faccia con l’infinito, tutto il nostro essere è preso da grande sgomento. Carissimi, noi vecchi e giovani che abbiamo sentito la chiamata del nostro Signore e gli abbiamo chiesto di poterlo seguire, è quello il momento in cui Egli ci invita a credere: fa appello alla nostra fede. Felice è chi, in quei momenti, riconosce la sua voce, accoglie le sue parole: Non temere, fatti animo, non avere paura! – le sue parole allora possono scendere nel profondo del nostro essere, e ci danno pace. Allora uno squarcio di cielo si è aperto sulla terra. Gesù dice ai suoi: Sono io! Nella Bibbia, questa affermazione, Sono Io!, è l’affermazione del nome stesso di Dio. Gesù si rivela così ai suoi, non solo come il Maestro che si mostra come la via del Regno dei Cieli, ma come il Signore. È l’affermazione che dice: Dio è qui, è presso di te. Solo dopo di ciò Gesù si rivela nella sua regalità. Si rivolge al vento con le stesse parole con cui ha sgridato e fatto tacere gli spiriti maligni; ricompone le forze avverse e ridona equilibrio e armonia, sana il cuore, cancella la paura e fa rifluire la vita nello spirito e nel corpo. Pietro, però, come spesso gli accade, si lascia prendere dall’entusiasmo per l’aspetto miracoloso di ciò che ha visto fare da Gesù, e gli balena l’idea che anche lui potrebbe fare lo stesso, se Gesù darà anche a lui un potere straordinario. E, per un momento, è accontentato. Ma quando è lì, nel buio della notte, sul fondo scuro e minaccioso del mare, si scopre per quello che è: solo, piccolo, fragile, di nuovo in preda alla paura. Certamente sarebbe stato travolto, se non fosse per quel suo grido: – Signore, Signore, abbi pietà, salvami! E Gesù lo salva. Non salva solo la sua vita fisica: lo prende per mano, ancora una volta cancella il suo spavento, e gli dà una sicurezza nuova, la sicurezza di colui che ha capito di non poter poggiare su se stesso, ma poggia sul suo Signore – il suo Salvatore. Tutto questo è un racconto di amore: l’amore di Dio per la sua creatura; l’amore delle creature per il loro creatore. Potrebbe essere una parabola per la nostra vita. L’apostolo dice che queste cose sono state narrate e rivelate per noi: che non si tratta di fatti lontani mai più riproducibili, che non si tratta di sogni simili a fantasmi, ma che si tratta di una realtà che è conservata nei cieli per noi, che siamo custoditi dalla potenza di Dio mediante la fede, per la nostra salvezza.

(Sermone a cura della nostra Predicatrice Locale, Febe Cavazzutti Rossi)