Sermone: L’investimento di Dio

Potremmo chiamare questa domenica la domenica degli investimenti. Questo almeno sembra essere il suggerimento della lettura dal vangelo di Matteo. – Qualcuno che si intenda di cose bancarie direbbe: chi vuole fare soldi deve investire e non deve investire solo poco e con poco rischio, ma deve investire tanto e deve anche rischiare abbastanza per aumentare i propri profitti. Altrimenti rimarrà sempre povero.

Io personalmente odio dover andare in banca e dover parlare lì con delle persone che sanno come investire i miei quattro soldi. Odio stare allo sportello a discutere con loro perché per loro è tutto chiaro, per me invece non lo è. Loro vogliono investire, in azioni, in fondi in che ne so io. – Io no. Voglio solo un posto sicuro per le mie “monete” e possibilmente l’anno successivo avere ancora quello che ho portato. Chi si occupa davvero di faccende bancarie ride di me. E quando leggo la parabola del servo malvagio, mi chiedo ancora una volta se sono proprio io quella che non capisce niente di investimenti.

Solo quando guardiamo a chi ci racconta questa parabola, cioè a Gesù, solo così possiamo trovare il senso più profondo del racconto. Qui Gesù ci vuole dire: solo chi investe tutta la sua vita, solo chi mette in gioco tutto se stesso potrà anche ricevere il regno di Dio. In questo ci vuole il coraggio di rischiare qualcosa, non qualcuno che sta solo fermo e aspetta che cosa succede. Non qualcuno che protegge angosciato lo status quo, come faccio io in banca. Nella parabola non viene neanche premiato il successo, ma la voglia di mettersi in gioco. Così è ovvio che la poca fede e l’incredulità vengano punite. Nella fede c’è una promessa o, per dirla nel linguaggio dei banchieri: la fede porta profitto, rende.

Forse pensate: è ovvio che lei lo dica, fa parte del suo mestiere. In banca mi dicono che i miei soldi renderanno, qui la pastora deve fare pubblicità per la fede, è il suo lavoro. Ma forse rimane la domanda: è davvero un buon investimento quello nella fede? Guadagniamo se investiamo in Gesù Cristo? – Uno che ha investito tutto nella fede in Cristo è l’apostolo Paolo. E nella lettera ai filippesi descrive gli investimenti della sua vita. Leggo nel terzo capitolo i versetti da sette a quattordici:

7 Ma ciò che per me era un guadagno, l’ho considerato come un danno, a causa di Cristo.  8 Anzi, a dire il vero, ritengo che ogni cosa sia un danno di fronte all’eccellenza della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho rinunciato a tutto; io considero queste cose come tanta spazzatura al fine di guadagnare Cristo  9 e di essere trovato in lui non con una giustizia mia, derivante dalla legge, ma con quella che si ha mediante la fede in Cristo: la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede.  10 Tutto questo allo scopo di conoscere Cristo, la potenza della sua risurrezione, la comunione delle sue sofferenze, divenendo conforme a lui nella sua morte,  11 per giungere in qualche modo alla risurrezione dei morti.  12 Non che io abbia già ottenuto tutto questo o sia già arrivato alla perfezione; ma proseguo il cammino per cercare di afferrare ciò per cui sono anche stato afferrato da Cristo Gesù.  13 Fratelli, io non ritengo di averlo già afferrato; ma una cosa faccio: dimenticando le cose che stanno dietro e protendendomi verso quelle che stanno davanti,  14 corro verso la meta per ottenere il premio della celeste vocazione di Dio in Cristo Gesù.

Paolo ha investito nella sua vita. In primo luogo, l’ha fatto con diversi anni di studi da uno dei più grandi insegnanti dell’epoca. Ha investito in una carriera ecclesiastica che sembrava portare successo. Quando lavorava a Gerusalemme, faceva carriera velocemente, perché era uno che dava tutto se stesso, si impegnava totalmente per la purezza della fede – all’epoca ancora la fede ebraica. Ogni mezzo gli andava bene per perseguitare, giudicare e condannare i discepoli di Gesù di Nazaret. Egli era uno dei più temuti persecutori dei primi cristiani. Paolo viveva quindi come oggi ogni persona che vuole fare carriera lo farebbe. Ma nel bel mezzo di una giornata che cominciava normalissima, preso dal suo lavoro quotidiano, accade quello che è noto come ’l’evento di Damascò’. Paolo, o meglio Saulo come si chiamava prima della suo conversione, sente la domanda: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?» Atti 9,4 E conosciamo la storia: la luce che risplende, la caduta a terra (ma non dal cavallo come vuole farci credere Caravaggio), e oltre. Gesù Cristo stesso gli fa capire che stava seguendo una via sbagliata, che investiva in una direzione falsa. Mette tutta la sua vita e la scala dei suoi valori sotto sopra. Ma Gesù non si ferma ad una domanda che accusa. Piuttosto Paolo impara, che il senso della vita non sta in ciò che io porto o che posso mostrare e neanche in ciò che gli altri dicono di me. Tutto quello Paolo lo considera dopo l’incontro con Gesù come danno, come spazzatura, si potrebbe anche tradurre: come fango, addirittura, come letame. Tutto ciò in cui lui aveva investito nella sua vita lo lascia da un momento all’altro dietro di sé, perché vede che il senso della vita si ritrova solo in Dio e nella sua misericordia. – La fede in Gesù Cristo non va d’accordo con l’atteggiamento farisaico secondo il quale l’uomo ha la legge in suo potere e si procura così salvezza. Gesù richiede a Paolo un cambiamento totale del suo pensiero. Richiede di non affidarsi più alla ‘carne’ vuol dire alle sue forze, alla sua capacità di agire, ma solo alla grazia di Dio.

Mi sono chiesta che cosa ho lasciato io dietro di me per rendere salda la mia relazione con Dio. Intendo, a quale pensiero, a quale modo di vivere ho rinunciato per essere più vicina a Dio? E chiaro che le due realtà della vita di Paolo e la mia, la nostra vita, non sono proprio paragonabili, ma comunque vorrei lasciarmi, lasciarci interrogare da questo cambiamento di vita. Io sono nata in una famiglia cristiana come penso anche la maggiore parte di voi. Ed io personalmente non ho mai vissuto un unico momento di conversione, come l’ha avuto Saulo, Paolo, che addirittura ha cambiato il suo nome. Questo perché ho avuto tante piccole conversioni nella mia vita. E tra parentesi devo anche dire che questo non mi dispiace. Qualcuno mi ha detto una volta: ho paura di fronte a quei cristiani che una volta nella loro vita si convertono e dopo rimangono fermi nella loro fede, non solo nel senso positivo ma anche in quello negativo del termine. In queste vite non cambia più niente. Sono immobili. Ma la vita cristiana non è ferma, cerca i cambiamenti, cerca sempre di nuovo la conversione.

Ma ritorniamo alla domanda: Che cosa è cambiato nella mia vita conoscendo Gesù? Che cosa ho lasciato indietro? Forse delle abitudini cattive, o dei pensieri che non quadrano con la volontà di Dio. Vi viene in mente qualcosa? E a cosa invece ho fatto spazio nella mia vita? Forse ho dato spazio alla lettura della bibbia, o alla preghiera di intercessione per fratelli e sorelle nella fede, o ho aperto il mio cuore per i poveri che anche Gesù guardava sempre con occhi misericordiosi. Cosa è cambiato per voi? Mi piacerebbe ascoltare una volta da voi la vostra storia personale. E prendetevi anche un attimo di tempo per riflettere, se c’è anche qualcosa rispetto a cui Dio vi dice: questo mi piacerebbe tanto che lo cambiassi ancora. Non perché lo devi fare, non perché non ti voglio più bene se non lo fai. Guai a questi pensieri. Dio ci dice: ti amo, di tutto cuore e per questo non devi rimanere come sei, ma hai adesso la possibilità di diventare così come io me lo immaginavo quado ti ho creato.

È questa la grade scoperta di Paolo: Dio ci ama. Lo ama. Mi ama. Non sono io l’investitore della mia vita, ma è Dio che investe la sua grazia, il suo amore in me, senza condizioni. Nella vita di Paolo questo vuol dire non la legge porta salvezza e vita, ma solo Gesù.

Al tempo della Riforma sono stati preparati molti scritti che avevano come scopo l’istruzione dei credenti. Era la prima volta dopo secoli. Uno di questi, forse il più famoso, era il Catechismo di Heidelberg. La prima domanda che troviamo in questo catechismo è: ‘In che consiste la tua unica consolazione In vita e in morte?’ E la risposta: ‘Nel fatto che col corpo e con l’anima, in vita e in morte, non sono più mio, ma appartengo al mio fedele Salvatore Gesù Cristo, il quale col suo prezioso sangue ha pienamente pagato il prezzo di tutti i miei peccati e mi ha redento da ogni potere del diavolo; e mi preserva cosi che neppure un capello può cadermi dal capo senza la volontà del Padre mio che è nel cielo; ed anzi ogni cosa deve cooperare alla mia salvezza. Pertanto per mezzo del suo santo Spirito egli mi assicura anche la vita eterna e mi rende di tutto cuore volenteroso e pronto a vivere d’ora innanzi per lui.

Dell’investimento di Dio, dalla sua immeritata grazia vive l’apostolo e apprende, che con questo investimento, non ha solo gioia. Adesso ha nemici e concorrenti ovunque e lui cerca di incontrare questi individui – in un modo nuovo. Gli racconta dell’amore e della misericordia di questo Dio. Gli racconta, di come gli individui possono comportarsi gli uni con gli altri, quando sentono e vivono l’annuncio: Infatti Dio era in Cristo nel riconciliare con sé il mondo, non imputando agli uomini le loro colpe, e ha messo in noi la parola della riconciliazione.  20 Noi dunque facciamo da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro; vi supplichiamo nel nome di Cristo: siate riconciliati con Dio.’ 2.Kor 5,19f Nella fede in Gesù Cristo lui trova la forza di non tacere, ma anzi di investire sempre e di nuovo nella riconciliazione. E lo fa con la stessa passione di prima, ma non più guidato dall’ira. Non è più il furioso persecutore, ma il missionario che vive in preghiera. Ha cambiato la sua vita, non perché doveva farlo, ma perché ha percepito l’amore di Dio e così non poteva più rimanere nelle sue vecchie abitudini. Nella fede in Cristo lui trova la forza di protendersi verso la meta dell’investimento della sua vita, cioè Gesù. Questo protendersi, questo perseguire, questa dinamica è stata descritta da Martin Lutero così: La vita cristiana non è essere pio, ma diventare pio. Non è essere sano, ma diventare sano. Non essere, ma diventare, non tranquillità ma esercizio. Noi non siamo ancora, ma saremo. Non è ancora successo, ma è nell’avvenire. Non è la fine, ma è il cammino.

Mi auguro e ci auguro, che la nostra vita sia anche così in cammino. Ci auguro, che troviamo ogni giorno di nuovo la forza nella fede di non dover rimanere così come siamo, ma di poter diventare le persone che Dio vede in noi. Di diventare le persone nelle quali Dio ha investito il suo amore, la sua grazia, la sua passione. E di rendergli grazia ogni giorno per il suo grande amore. – Amen

Ulrike Jourdan

Sermone: A chi molto è stato dato, molto sarà richiesto

2^ Samuele 12, 1-13

Il Signore mandò Natan da Davide e Natan andò da lui e gli disse:

«C’erano due uomini nella stessa città; uno ricco e l’altro povero.

Il ricco aveva pecore e buoi in grandissimo numero; ma il povero non aveva nulla, se non una piccola agnellina che egli aveva comprata e allevata;

gli era cresciuta in casa insieme ai figli, mangiando il pane di lui, bevendo alla sua coppa e dormendo sul suo seno. Essa era per lui come una figlia.

Un giorno arrivò un viaggiatore a casa dell’uomo ricco. Questi, risparmiando le sue pecore e i suoi buoi, non ne prese per preparare un pasto al viaggiatore che era capitato da lui; prese invece l’agnellina dell’uomo povero e la cucinò per colui che gli era venuto in casa».

Davide si adirò moltissimo contro quell’uomo e disse a Natan: «Com’è vero che il Signore vive, colui che ha fatto questo merita la morte; e pagherà quattro volte il valore dell’agnellina, per aver fatto una cosa simile e non aver avuto pietà».

Allora Natan disse a Davide: «Tu sei quell’uomo! Così dice il Signore, il Dio d’Israele: “Io ti ho unto re d’Israele e ti ho liberato dalle mani di Saul, ti ho dato la casa del tuo signore e ho messo nelle tue braccia le donne del tuo signore; ti ho dato la casa d’Israele e di Giuda e, se questo era troppo poco, vi avrei aggiunto anche dell’altro.

Perché dunque hai disprezzato la parola del Signore, facendo ciò che è male ai suoi occhi? Tu hai fatto uccidere Uria, l’Ittita, hai preso per te sua moglie e hai ucciso lui con la spada dei figli di Ammon.

Ora dunque la spada non si allontanerà mai dalla tua casa, perché tu mi hai disprezzato e hai preso per te la moglie di Uria, l’Ittita”.

Così dice il Signore: “Ecco, io farò venire addosso a te delle sciagure dall’interno della tua stessa casa; prenderò le tue mogli sotto i tuoi occhi per darle a un altro, che si unirà a loro alla luce di questo sole; poiché tu lo hai fatto in segreto; ma io farò questo davanti a tutto Israele e in faccia al sole”».

Allora Davide disse a Natan: «Ho peccato contro il Signore ».

Natan rispose a Davide: «Il Signore ha perdonato il tuo peccato; tu non morrai.

Luca 17, 3-4

Gesù disse (……):State attenti a voi stessi! Se tuo fratello pecca, riprendilo; e se si ravvede, perdonalo. Se ha peccato contro di te sette volte al giorno, e sette volte torna da te e ti dice: “Mi pento”, perdonalo.

 

I due passi della meditazione odierna possono non apparire immediatamente correlati, tuttavia vedremo come, sia nel libro di Samuele come nell’evangelo di Luca, troviamo un messaggio forte per la nostra vita di credenti.

Analizzeremo la figura di re Davide, la figura del profeta Natan e l’incitamento di Gesù in Luca.

DAVIDE

Grande figura nella Bibbia, credente fin da giovane, umile personaggio diventato re per richiesta del popolo e volere di Dio.

Grande re, eroico re, ma anche ….. grandissimo peccatore, macchiatosi di un terribile delitto!

Durante la guerra delle sue truppe contro gli Ammoniti, Davide rimane nel suo palazzo in Gerusalemme, da dove un giorno, passeggiando sulla terrazza, vede Betsabea che fa il bagno.

Rimane incantato dalla sua bellezza ed è preso dal desiderio di lei, nonostante sappia che ella è la moglie di Uria, uno dei suoi più valorosi comandanti.

Davide la manda a prendere e fa l’amore con lei.

Davide è totalmente invaghito di Betsabea, la vuole per sé, così trama una serie di azioni che porteranno all’assassinio di Uria.

Peccato terribile agli occhi di Dio, che manda Natan da Davide per fargli capire l’errore.

Natan, figura coraggiosa per svolgere un simile incarico (accusare il re!), va da Davide e gli racconta la parabola che abbiamo letto.

Davide lo ascolta, si adira per il comportamento di quell’ipotetico uomo ricco che, pur avendo molto bestiame proprio, per far onore a un suo ospite, uccide l’unica, amata agnellina dell’uomo povero.

Vuol sapere chi sia questo essere ignobile, così da poterlo punire.

Non ha ancora capito. Non ha compreso che quel perverso peccatore è proprio lui.

Non lo capisce fino a quando Natan non glielo urla in faccia.

Lui, benedetto dal Signore con ogni benedizione, per il proprio tornaconto ha abusato del suo potere, fino a diventare il mandante dell’omicidio del marito di Betsabea, preso dalla passione per costei.

Davide viene violentemente messo davanti alla propria colpa, comprende e chiede perdono al Signore e …. lo ottiene!

Solo per nota: il salmo 51 che abbiamo letto prima, è relazionato a questo episodio.

 

NATAN

Su di lui possiamo dire che, nonostante conosca il rischio della sua missione, ha il coraggio di elevare la sua voce contro il re.

La colpa di Davide è gravissima, ma vediamo che Natan non lo aggredisce buttandogli in faccia il peccato, ma lo conduce nella riflessione affinché Davide stesso faccia ammenda per la propria trasgressione.

In psicologia diremmo che Natan vuole che Davide interiorizzi la propria colpa e trovi in se stesso la motivazione per chiedere perdono all’Eterno.

Già in questo vediamo che l’approccio di Natan, pur fermo nella condanna del comportamento del re, è finalizzato al fatto che Davide prenda coscienza del proprio peccato.

Potremmo dire in termini moderni che, visto che Davide, personalmente coinvolto dalla propria passione, non si è ancora reso conto della gravità del proprio operato, gli serve qualcuno che glielo faccia comprendere, che lo aiuti ad analizzare le proprie azioni.

Per inciso, badiamo bene che (con buona pace dei moralisti) il peccato attribuito a Davide non è quello sessuale, non certo quello di essersi appassionato, bensì l’omicidio perpetrato per il proprio interesse personale.

Natan è assai severo nell’approccio con Davide, tuttavia dobbiamo notare che è anche colui che, visto il reale pentimento, assicura Davide del perdono del Signore.

Cosa ci insegnano queste due figure?

Beh, ciascuno di noi è certamente Davide. Magari senza arrivare all’omicidio, però chiediamoci: quante volte per il nostro tornaconto, per le nostre idee, passiamo disinvoltamente sopra la testa degli altri, offendendoli, umiliandoli, sottovalutandoli, recando loro dolore, giudicandoli, ignorando le loro ambasce, ritenendoci a loro superiori in dignità?

Quante volte ci soffermiamo a valutare il nostro operato nei confronti del prossimo, non limitandoci all’autogiustificazione?

Però dobbiamo anche chiederci: noi, di fronte a un fratello che pecca, che magari pecca proprio contro di noi, riusciamo a svolgere il ruolo di Natan, cercando un modo di comunicare che metta l’altro nella circostanza di comprendere il proprio errore e di ravvedersene?

Oppure preferiamo ignorare il suo comportamento, o magari preferiamo aggredirlo se gli offesi siamo stati noi?

Riflettiamo, fratelli: l’ira, anche se a volte appare giustificata, non produce frutti, ma porta solo a fratture di rapporti e lacerazioni interiori, talvolta difficilmente ricucibili.

Natan fa da “specchio” a Davide, affinché lui si guardi e comprenda.

Vedete, uno dei fondamenti della psicoterapia, sul quale il mio vecchio e amato maestro continuamente batteva, è che il cambiamento reale può avvenire solo all’interno dell’individuo, passando attraverso situazioni di grande conflitto interiore, di ricerca nel proprio intimo fino magari ad arrivare a quello che io definisco “cuore spellato”.

Ora è provato che l’aggressione dall’esterno, la percezione di non venire accettati per quel che si è, porta la persona ad irrigidirsi e a cercare ogni motivo per non cambiare, mentre la sensazione di essere accettati, anche con scelte non condivise, può far sorgere nell’individuo qualche autocritica.

Pensiamoci, nelle nostre relazioni con gli altri!

Pensiamo a quante volte avremmo potuto essere Natan e non l’abbiamo fatto, delegando ad altri questo compito, lavandocene le mani per ignavia, comodità, pigrizia, scarsa disponibilità, o altro.

Pensiamo che Natan è stato l’occasione affinché Davide comprenda e chieda perdono per il proprio peccato e pensiamo soprattutto che, anche a fronte di un gravissimo peccato,  tornando a Dio sotto il peso della colpa, IL PERDONO È ASSICURATO.

E veniamo al passo di Luca.

E proprio di PERDONO si parla qui. Badate bene che non si parla di perdonare genericamente, di far pace, bensì di dare credito al pentimento dell’altro e perdonarlo, non una ma sette volte! Sette volte in un giorno!

Ovviamente abbiamo abbastanza considerazione per la Scrittura per non intendere che il reiterato pentimento è una banalizzazione di scuse vuote.

Come si concilia l’atteggiamento suggerito da Gesù con una frase che sentiamo spesso (magari riferita a rapporti conflittuali in famiglia, nella nostra cerchia di amicizie, oppure nelle comunità) “Io perdono, ma non dimentico!”.  Non nasconde forse questa frase un falso perdono, frutto di perbenismo religioso?

Ora, considerando che noi siamo certamente, in situazioni diverse, coloro che offendono, ma anche coloro che sono offesi, cioè coloro che devono pentirsi, ma anche coloro che hanno bisogno di essere perdonati, teniamo ben conto di quanto dice Gesù: “State attenti a voi stessi!”.

Traduzione: fate attenzione e valutate qual è veramente la vostra propensione a guardarvi dentro per riconoscere il vostro peccato e quale sia in realtà la vostra disponibilità al perdono.

E non facciamoci tentare dal dire che non abbiamo i mezzi intellettuali per condurre queste riflessioni, perché, come recita il versetto di questa settimana preso dal cap. 12 dell’evangelo di Luca:

“A chi molto è stato dato, molto sarà richiesto; e a chi molto è stato affidato, tanto più si richiederà”.

Quindi, fratelli e sorelle, con molta umiltà, ma senza alcuna modestia, guardiamoci dentro, analizziamo i nostri comportamenti, proviamo a riconoscere il nostro peccato, senza sensi di colpa, ma con la chiarezza del pensiero di fede che possiamo solo chiedere a Dio che ci illumini e ci perdoni, consentendoci di comprendere e di ravvederci.

AMEN

Liviana Maggiore

Sermone: Il conforto del battesimo

Nel bel mezzo del continente africano si trova un Paese straordinario. Questo Paese ha una tradizione cristiana molto più antica di tutti i Paesi d’Europa. Simbolo di questo stato è il leone. Tanti Paesi hanno scelto il re degli animali come simbolo, ma il leone di questa nazione è il leone di Giuda. Nel bel mezzo dell’Africa si trova questo Paese che ha le sue radici nella storia ebraica. Camminando su sentieri prodigiosi il leone di Giuda ha raggiunto all’epoca del re Salomone questo paese, l’Etiopia, come vorrebbe un antico racconto leggendario. Comunque, uno dei primi cristiani convertiti viene da questo paese al confine del mondo, come si diceva in quei tempi. Vi vorrei raccontare oggi di quest’uomo speciale. È una storia particolare che ci mostra come l’evangelo superi anche le barriere e le frontiere.

Leggo dagli Atti degli Apostoli, capitolo 8 a partire dal versetto 26

26 Un angelo del Signore parlò a Filippo così: «Alzati, e va’ verso mezzogiorno, sulla via che da Gerusalemme scende a Gaza. Essa è una strada deserta».  27 Egli si alzò e partì. Ed ecco un etiope, eunuco e ministro di Candace, regina di Etiopia, sovrintendente a tutti i tesori di lei, era venuto a Gerusalemme per adorare,  28 e ora stava tornandosene, seduto sul suo carro, leggendo il profeta Isaia.  29 Lo Spirito disse a Filippo: «Avvicìnati, e raggiungi quel carro».  30 Filippo accorse, udì che quell’uomo leggeva il profeta Isaia, e gli disse: «Capisci quello che stai leggendo?»  31 Quegli rispose: «E come potrei, se nessuno mi guida?» E invitò Filippo a salire e a sedersi accanto a lui.  32 Or il passo della Scrittura che egli leggeva era questo: «Egli è stato condotto al macello come una pecora; e come un agnello che è muto davanti a colui che lo tosa, così egli non ha aperto la bocca.  33 Nella sua umiliazione egli fu sottratto al giudizio. Chi potrà descrivere la sua generazione? Poiché la sua vita è stata tolta dalla terra».  34 L’eunuco, rivolto a Filippo, gli disse: «Di chi, ti prego, dice questo il profeta? Di sé stesso, oppure di un altro?»  35 Allora Filippo prese a parlare e, cominciando da questo passo della Scrittura, gli comunicò il lieto messaggio di Gesù.  36 Strada facendo, giunsero a un luogo dove c’era dell’acqua. E l’eunuco disse: «Ecco dell’acqua; che cosa impedisce che io sia battezzato?»  37 Filippo disse: «Se tu credi con tutto il cuore, è possibile». L’eunuco rispose: «Io credo che Gesù Cristo è il Figlio di Dio».  38 Fece fermare il carro, e discesero tutti e due nell’acqua, Filippo e l’eunuco; e Filippo lo battezzò.  39 Quando uscirono dall’acqua, lo Spirito del Signore rapì Filippo; e l’eunuco, continuando il suo viaggio tutto allegro, non lo vide più.

Da questo Paese straniero e così lontano veniva il ministro delle finanze a Gerusalemme. Perché, che cosa voleva lì? Era venuto a Gerusalemme per adorare, così sta scritto. Mi chiedo: perché proprio lì? Che cosa ha cercato al tempio di Gerusalemme? È stato forse in ricerca delle sue origini di fede? O è forse stato mandato con un incarico specifico dalla sua regina verso Gerusalemme? Non lo sappiamo. Una cosa è invece chiara: quest’uomo si doveva sentire uno straniero a Gerusalemme; straniero non solo per il colore della sua pelle, ma anche per il suo stato. Non era solo ministro, ma anche eunuco. Quest’uomo è stato castrato com’erano tutti i ministri dello stato all’epoca. La castrazione evitava che loro potessero assumere il potere a favore delle loro famiglie. Per di più, a capo dello stato d’Etiopia, vi era una regina. Chi voleva essere uno dei suoi consiglieri doveva per forza essere una donna o eunuco. Così si evitavano dei figli non legittimi nella famiglia regale.

Ma questo ministro aveva un grande problema a Gerusalemme, perché nessun uomo castrato può diventare ebreo. E pongo ancora una volta la domanda: Che cosa voleva quest’uomo a Gerusalemme? Aveva soldi, aveva in mano una parte del potere di un paese ricco. Adesso è stato a Gerusalemme, nella città santa, nel centro della fede. Ha visto la casa di Dio ma non poteva entrarci, poteva accedere solo al cortile delle donne. A Gerusalemme doveva aver capito che lui non avrebbe mai fatto parte di questa religione.

Quest’uomo, sicuramente ricco, si era comprato un manoscritto del profeta Isaia. Doveva essere costato un piccolo patrimonio. Poteva leggere la scrittura ebraica, vuol dire che era molto intelligente, ma comunque ciò che leggeva rimaneva estraneo e incomprensibile, come tante cose durante il suo viaggio. In questo stato ritornava nella sua patria. Mi posso immaginare che durante questo ritorno si è posto la domanda dove sia la sua patria, in quale luogo lui sia davvero a casa. Così prendeva la strada da Gerusalemme verso Gaza. E l’unica cosa che la Bibbia ci dice di questa strada è che essa è una strada deserta.

Questo ministro etiope è una figura scintillante, ma anche Filippo, l’uomo che lo incontra adesso non è una persona qualsiasi.  – Ci possiamo chiedere: che cosa fa Filippo su questa strada verso sud? Che cosa cerca lì? Filippo non cerca niente. Non c’è niente lì. È una strada nel bel mezzo del niente. Non c’è un tempio, né una città, né un paese, solo strada.

La Bibbia ci dice che lo Spirito di Dio ha portato Filippo su questa strada. Trovo questo un pensiero affascinante. Perché ci dice che Filippo è stato disposto a sentire quello che Dio gli diceva e ad andare nel deserto.

Per noi questo significa riflettere sul fatto che, se ci vogliamo lasciare usare da Dio come Filippo, dobbiamo prima di tutto tacere e sentire quello che egli ci dice, e poi mettere ciò che sentiamo davvero in pratica, anche un ordine così assurdo come andare nel deserto. Filippo ha sentito la voce dell’angelo: Alzati, e va’ verso mezzogiorno. Non conosce neanche la meta, ma ha ricevuto un ordine e lo segue.

Poi ci viene raccontato l’incontro di questi due uomini.

Filippo entra nel carro dell’etiope. S’incontrano su uno stesso livello. Sarebbe stato facile per Filippo mettersi al di sopra di questo principiante nella fede, ma non lo fa. Filippo sa bene che nelle questioni della vita eterna siamo tutti in qualche modo dei principianti. Non esistono degli specialisti.

E Filippo non inizia a parlare e a spiegare, ma inizia ascoltando, si lascia porre delle domande. Il ministro gli legge il passo del profeta Isaia, dove sta scritto: «Egli è stato condotto al macello come una pecora; e come un agnello che è muto davanti a colui che lo tosa, così egli non ha aperto la bocca.  33 Nella sua umiliazione egli fu sottratto al giudizio. Chi potrà descrivere la sua generazione? Poiché la sua vita è stata tolta dalla terra». E poi chiede l’etiope: «Di chi, ti prego, dice questo il profeta? Di sé stesso, oppure di un altro?» È una bellissima domanda. Già questo fa vedere che il ministro si è confrontato tanto con la parola di Dio.

A questo punto Filippo inizia a parlare e spiega il vangelo di Gesù Cristo. Ma come? Sarebbe bello sapere esattamente le parole usate da Filippo, così che anche noi potessimo usarle, ma queste parole non sono riportate. Direi che dev’essere proprio così. Se vogliamo dire l’evangelo così che venga proprio sentito dobbiamo usare le nostre parole, dobbiamo per forza raccontare la nostra storia, non possiamo prendere le parole di qualcun altro. – Filippo ha spiegato che cosa lui stesso ha vissuto con Gesù Cristo. Certo questo ministro legge la Bibbia, ma le parole della Scrittura parlano tramite Filippo. E il vangelo diventa così vivo che il ministro chiede di essere battezzato, vuole veramente essere parte della famiglia di Dio. Filippo lo battezza subito lì, dove sono. E in teoria potremo terminare a questo punto il racconto.

Ma non finisce così. Lo Spirito di Dio agisce ancora una volta. Prima ha riunito due estranei, adesso divide due persone che sono diventati fratelli in Cristo. Con molta probabilità loro due non si vedranno mai più nella loro vita. Ci possiamo chiedere se questo fa bene, o se sarebbe stato meglio per quest’etiope avere qualcuno al suo fianco che lo poteva seguire, almeno ancora per un po’ di tempo. Non per niente noi oggi facciamo prima di un battesimo due anni di catechismo nei quali si possono chiarire tante domande. Il ministro aveva forse due ore di catechesi prima di essere battezzato. Basta questo?

Ovviamente sì. Filippo ha avuto fiducia che il buon seme che ha messo in questa persona si potesse sviluppare. Aveva fiducia che la benedizione di Dio e il potere del battesimo potessero agire in quest’uomo, senza che nessuno da fuori potesse fare qualcosa di più.

Una piccola frase ci dice come va oltre: l’eunuco, continuava il suo viaggio tutto allegro. Doveva affrontare un lungo viaggio, qualcosa tra due e tremila chilometri doveva fare. Ma indipendentemente da ciò che poteva incontrare su questa strada, aveva una nuova stabilità. Quest’uomo non ha preso la strada verso la sua patria, forse non è mai stata una vera patria per lui, ma aveva trovato un vero padre che gli ha dato patria nel regno di Gesù Cristo.

Questo è qualcosa che auguro a tutti noi oggi, che possiamo dire di aver trovato patria da Gesù e che possiamo intraprendere il cammino della nostra vita con allegria insieme con lui.

Amen

Ulrike Jourdan

Sermone: Il pane

Vorrei oggi iniziare con la lettura di un testo che tutti i ragazzi tedeschi devono affrontare a scuola. Un racconto breve di Wolfgang Borchert che si intitola ‘Il pane’. Mi ha sempre affascinato questo testo, forse perché parla di una realtà che io non ho mai sperimentato. È una storia ambientata nel 1946 quando in Germania era tutto distrutto e si soffriva la fame.

Il pane:

Improvvisamente si svegliò. Erano le due e mezza. Rifletté sul perché si fosse svegliata. Ah sì! Qualcuno in cucina aveva sbattuto contro una sedia. Tese l’orecchio verso la cucina. C’era silenzio. Troppo silenzio, e quando tastò con la mano accanto a sé, trovò il letto vuoto. Ecco cos’era che rendeva tutto così silenzioso: mancava il suo respiro. Si alzò e andò a tastoni nell’appartamento buio fino alla cucina. In cucina si incontrarono. L’orologio segnava le due e mezza. Vide qualcosa di bianco in piedi vicino alla credenza. Accese la luce. Stavano uno di fronte all’altra in camicia da notte. Di notte. Alle due e mezza. In cucina.

Sul tavolo c’era il piatto del pane. Vide che lui si era tagliato del pane. Il coltello era ancora vicino al piatto. E sulla tovaglia c’erano delle briciole. Quando di sera andavano a letto, lei puliva sempre la tovaglia. Ogni sera. Ma ora sulla tovaglia c’erano delle briciole. E c’era il coltello. Sentì il freddo delle piastrelle salire lentamente in lei. E distolse lo sguardo dal piatto.

“Pensavo che qui stesse succedendo qualcosa” disse lui e vagò con lo sguardo per la cucina.

“Anch’io ho sentito qualcosa” rispose lei, e in quel momento si accorse che lui sembrava già ben vecchio in camicia da notte. Vecchio quant’era. Sessantatré. Di giorno a volte sembrava più giovane. Sembra già ben vecchia, pensò lui, in camicia da notte sembra già proprio vecchia. Ma forse dipende dai capelli. Nelle donne dipende sempre dai capelli di notte. All’improvviso fanno così vecchia.

“Avresti dovuto mettere le pantofole. Così a piedi nudi sulle piastrelle fredde. Ti prendi ancora un raffreddore.”

Lei non lo guardava perché non poteva sopportare che lui mentisse. Che lui mentisse dopo trentanove anni che erano sposati.

“Pensavo che qui stesse succedendo qualcosa” disse lui ancora e prese nuovamente a vagare con sguardo vuoto da un angolo all’altro, “ho sentito qualcosa. Allora ho pensato che qui stesse succedendo qualcosa.”

“Anch’io ho sentito qualcosa. Ma non era niente.” Tolse il piatto dal tavolo e pulì la tovaglia dalle briciole.

“No, non era niente.” fece eco lui incerto.

Lei gli venne in aiuto: “Su, vieni. Era fuori. Vieni a letto, su. Ti prendi ancora un raffreddore. Sulle piastrelle fredde.”

Lui guardò verso la finestra. “Sì, dev’essere stato fuori. Pensavo fosse qui.”

Lei alzò la mano verso l’interruttore. Adesso devo spegnere la luce, altrimenti non posso fare a meno di guardare il piatto, pensò lei. Non devo guardare quel piatto. “Vieni”, disse, e spense la luce, “era fuori. Con il vento la grondaia sbatte sempre contro il muro. Era sicuramente la grondaia. Col vento sbatte sempre.”

Camminarono entrambi a tastoni nel corridoio buio fino alla camera da letto.

I loro piedi nudi sciaguattavano sul pavimento.

“Sì, c’è vento” disse lui. “C’è stato vento tutta la notte.”

Quando furono a letto, lei disse: “Già, c’è stato vento tutta la notte. Era sicuramente la grondaia.”

“Già, io pensavo fosse in cucina. Ma era la grondaia.” Lo disse come se fosse già mezzo addormentato.

Ma lei notò come suonava falsa la sua voce quando mentiva. “Fa freddo” disse lei e sbadigliò piano, “mi infilo sotto le coperte. Buona notte.”

“Notte” rispose lui e ancora: “Sì, è proprio bello freddo.”

Poi ci fu silenzio. Dopo molti minuti lei sentì che lui masticava piano e cautamente. Respirò di proposito profondamente e con regolarità perché lui non notasse che era ancora sveglia. Ma il suo masticare era così regolare che lei piano piano si addormentò.

Quando lui la sera dopo tornò a casa, gli mise davanti quattro fette di pane. Fino ad allora aveva sempre potuto mangiarne solo tre.

“Puoi mangiarne tranquillamente quattro” disse lei e si allontanò dalla luce.

“Non riesco a digerire bene questo pane. Mangiane tu una fetta in più. Non lo digerisco tanto bene.”

Vide come lui si piegava profondamente sul piatto. Non alzò lo sguardo. In quel momento le fece pena.

“Ma tu non puoi mangiarne solo due fette” disse lui piegato sul piatto.

“Invece sì. Di sera non digerisco bene il pane. mangia tu. Mangia.”

Solo dopo un po’ lei si sedette a tavola sotto la lampada.

Questo è un racconto che mi ha sempre toccato fino a farmi commuovere. Questi due anziani e la fame.

Oggi viviamo l’opposto. Le diete ci dicono di non mangiare più pane la sera perché ci fa ingrassare. Infatti non abbiamo più il problema di avere troppo poco pane, ne abbiamo troppo. Non abbiamo più fame ma siamo ingrassati fino a stare male.

E comunque in questa società così sazia c’è fame. Non più fame di pane fatto di farina, ma fame di vedere un senso nella vita, fame di una speranza, fame di una fede che risponda alle domande. C’è grande fame nel nostro paese.

Abbiamo ascoltato prima il racconto della moltiplicazione dei pani e pesci. Anche le persone ai tempi di Gesù non erano venute da lui perché si aspettavano una cena abbondante. Volevano saziare le loro domande. Volevano sentire parole che le aiutassero nella loro vita. Volevano vedere in quale direzione potesse andare il loro cammino.

Anche oggi ci sono tante persone che hanno fame e cercano del pane che possa saziarle. E come ai tempi biblici non è facile accettare ciò che Gesù ha da offrire.

Dopo il miracolo della moltiplicazione dei pani ci viene raccontato che la gente non era ancora convinta. Volevano vedere ancora di più. Ascoltiamo Giovanni 6, 30-35

30 Allora essi gli dissero: «Quale segno miracoloso fai, dunque, perché lo vediamo e ti crediamo? Che operi?  31 I nostri padri mangiarono la manna nel deserto, come è scritto: “Egli diede loro da mangiare del pane venuto dal cielo”».  32 Gesù disse loro: «In verità, in verità vi dico che non Mosè vi ha dato il pane che viene dal cielo, ma il Padre mio vi dà il vero pane che viene dal cielo.  33 Poiché il pane di Dio è quello che scende dal cielo, e dà vita al mondo».  34 Essi quindi gli dissero: «Signore, dacci sempre di codesto pane».  35 Gesù disse loro: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà mai più sete.

Non era facile per loro, non è facile per noi cogliere il significato quando Gesù dice: Io sono il pane della vita. Credo che non sia facile per noi cogliere questa parola perché non solo siamo sazi di pane reale ma abbiamo anche accesso al pane spirituale e forse succede che non ci rendiamo più conto che cosa voglia dire viverne senza.

Forse per questo mi piace così tanto il racconto di Borchert perché mi fa vivere una fame che non conosco.

Così come non ho mai conosciuto la fame dello stomaco, così non ho mai sperimentato la fame spirituale. Ho sempre sentito parlare di un Dio che mi ama. Ho sempre sentito parlare del perdono, della grazia, della redenzione e salvezza. Non ho mai avuto l’impressione di pregare un idolo muto, ma ho sempre sentito vita in Dio. Non ho mai avuto paura di fronte a Dio. Non ho mai incontrato delle persone che volevano farmi credere che Dio mio vuole solo bene se faccio e sono in un certo modo.

Dobbiamo renderci conto che questo non è la normalità nel nostro paese. Anche se in teoria questo dovrebbe essere un paese cristianissimo sono in pochi a conoscere Cristo. Sono pochi quelli che hanno sperimentato l’amore di Dio. Sono pochi quelli che conoscono la voce di Dio.

Invece vedo tante persone affamate di relazioni, affamate di speranza, affamate di senso nella vita. Vedo tante persone che non si aspettano più niente della chiesa e con la chiesa hanno abbandonato anche Dio. Incontro tante persone che pensano che ci sarebbe solo un modo per vivere la fede e visto che non trovano risposte nella chiesa cercano di sfamare i loro desideri nell’esoterismo o anche nel combattimento contro tutto ciò che sembra ecclesiale.

Per loro che cercano. Per loro che hanno fame è venuto Cristo. Da loro vuole arrivare. Ha pane per tutti, non solo per noi, per tutti quelli che sono affamati.

Da giovane mi è stato detto: Chi vive nel deserto sapendo dov’è l’oasi e non lo dice agli altri è responsabile per la loro morte. – Potremmo riformularlo: Chi vive nel paese della fame e sa dove si riceve pane in abbondanza, deve dirlo agli altri, altrimenti è responsabile per la loro morte per inedia.

Gli israeliti nel deserto hanno fatto un grande sbaglio nel pensare che avrebbero dovuto tenere più manna per sé. Non ha funzionato. È andata a male e Dio gli ha insegnato la fiducia per la quale ogni giorno si riceve il pane quotidiano.

Anche per noi vale che Dio ci alimenterà ogni giorno con tutto ciò che ci serve per nutrire la nostra fede. Non dobbiamo tenere Gesù per noi, anzi. Gesù stesso ha cercato la compagnia della gente più strana e emarginata.

Egli vuole sfamare loro, vuole sfamare noi con il pane della vita. Amen

Ulrike Jourdanpane