Sermone: Vegliare nella preghiera

Non ti lascerò andare prima che tu mi abbia benedetto!

Genesi 32, 27

Perseverate nella preghiera, vegliando in essa con rendimento di grazie
Colossesi 4, 2

Mi sembra strano e quasi mi fa sorridere l’abbinamento dei due testi per oggi. Il primo versetto dell’Antico Testamento viene tradizionalmente estratto a sorte e in seguito gli viene abbinato un secondo versetto del Nuovo Testamento.

In questo caso si è scelto di abbinare il pensiero della preghiera nella quale la chiesa deve perseverare alla lotta notturna di Giacobbe al torrente Iabboc con un uomo – con Dio. È un racconto misterioso quello della battaglia che Giacobbe deve affrontare da solo nel corso della notte. Una lotta che Giacobbe vince alla fine, e riceve addirittura un nuovo nome, Israele, ma rimane ferito in questo conflitto.

Un racconto che mi ricorda le dure lotte della fede che fratelli e sorelle devono combattere da soli mentre sentono il buio intorno a loro. Non riescono a vedere nessuna luce che potrebbe essere d’aiuto. Non sanno se potranno vincere, non sanno in che misura rimarranno feriti.

Penso a certe lotte contro quelle malattie che ti assalgono senza preavviso; o le lotte per la famiglia, per il lavoro, per la dignità personale. Penso a quelle persone che vedo immerse nel buio profondo senza avere la possibilità di portare loro un po’ di luce. Penso anche a quelle persone che hanno vinto contro il buio della notte utilizzando come arma proprio la preghiera.

Vegliare nella preghiera, soprattutto durante la notte, ma anche al mattino, quando tutto appare sereno eppure in un momento l’orizzonte può oscurarsi. Questo vegliare ci è consigliato dall’inno che canta: «veglia al mattin, la sera veglia ancora, sì veglia ognora, prega e sii fedel!».

Pregare, perseverare nella preghiera contro quel buio e quell’oscurità che entrano nella propria vita senza chiedere il permesso. Pregare con rendimento di grazie a Dio. Pregare per ricevere alla fine la benedizione. Questi sono i consigli che voglio trarre da questi testi.

Ulrike Jourdan

In ascolto: Vivere la vocazione ricevuta da Dio

Io sarò santificato in voi davanti alle nazioni; voi conoscerete che io sono il Signore; quando vi avrò condotti nella terra d’Israele, paese che giurai di dare ai vostri padri

Ezechiele 20, 41;42

I doni e la vocazione di Dio sono irrevocabili
Romani 11, 29

Dono e vocazione. Sto riflettendo sui doni che Dio ha dato a me personalmente. Penso a doni basilari come quello della vita, dell’amore e anche il dono della fede. Poi mi vengono in mente doni specifici che Dio ha dato proprio alla mia persona per rendermi unica.

L’apostolo Paolo ci ricorda che i doni di Dio non sono fini a se stessi ma sono collegati a una vocazione. Mi chiedo quale sia la mia specifica vocazione che posso portare avanti proprio con i doni che Dio mi ha affidato. Mi chiedo se fino ad oggi ho utilizzato bene i miei doni. Mi chiedo se sto veramente vivendo quella vocazione irrevocabile.

In ambito protestante parliamo volentieri del sacerdozio universale e ricordiamo che Lutero collegava la vocazione con la professione (in tedesco: Berufung-Beruf) e sosteneva che una serva, che lavorava nella stalla e che metteva in gioco i suoi doni per il bene degli altri e, in tal modo, anche per Dio, non doveva essere considerata meno di un principe.

Penso che ci farebbe bene riscoprire questa visione luterana del lavoro. Essa m’invita a vivere la mia vocazione ogni giorno e, per di più, all’interno della mia quotidiana vita lavorativa. M’invita a mettere in gioco i doni che mi sono stati affidati per il bene del mio prossimo e per la gloria di Dio.

Mi pare già di sentire qualcuno che dice: il lavoro oggi non è più quello dei tempi di Lutero! Questo è vero in parte, ma in parte non lo è. Riconosco che oggi tante persone devono lavorare in condizioni disumane e soprattutto in una condizione segnata dalla mancanza di senso. Sì, ci sono tante, troppe persone che vorrebbero lavorare e non trovano la possibilità di farlo. Non è giusto che sia così.

Però, credo che anche oggi Dio offra a ognuno la sua vocazione, e non importa se la si può vivere in un mestiere retribuito o no. È una vocazione da vivere, sono dei doni da mettere a frutto, è la volontà irrevocabile di Dio. E questa volontà voglio viverla per il bene del mio prossimo e per la gloria di Dio.

Ulrike Jourdan

Sermone: Condividere la fede fin dall’infanzia

Beato l’uomo che teme il Signore e trova grande gioia nei suoi comandamenti
Salmo 112, 1

Tu, invece, persevera nelle cose che hai imparate e di cui hai acquistato la certezza, sapendo da chi le hai imparate, e che fin da bambino hai avuto conoscenza delle sacre Scritture, le quali possono darti la sapienza che conduce alla salvezza mediante la fede in Cristo Gesù
II Timoteo 3, 14-15

Dal mio punto di vista, Timoteo è un giovane fortunato, perché fin dall’infanzia è stato in contatto con la fede. Sua madre e sua nonna hanno vissuto apertamente il loro credo, l’hanno messo a parte delle Sacre Scritture e gli hanno mostrato la gioia che vi è nel vivere con i comandamenti di Dio. Questo esempio offre al giovane uomo Timoteo una sapienza che può condurre alla salvezza mediante la fede.

Oggi incontro tanti genitori titubanti quando si tratta di condividere la propria fede con i propri figli. Vorrebbero evitare di decidere per i figli nell’ambito della fede. Hanno scoperto il grande dono della libertà e vorrebbero offrire ai loro figli la massima libertà di scelta. Così decidono di non offrire niente, di lasciare il bambino da solo con i suoi pensieri e sentimenti religiosi.

Ogni bambino porta in sé delle domande fondamentali, che cercano una risposta e io tento di rispondervi con le parole della fede. Da dove vengo? Dov’è andata la nonna, dove andrò io, dove andrai tu? Perché ci sono le malattie, perché le persone devono soffrire, perché ci sono le guerre?

Penso che i nostri bambini abbiano un diritto a ricevere delle risposte da parte nostra. Non risposte ultime che non dovrebbero mai essere messe in questione ma risposte personali e autentiche. E così questi bambini possono crescere nella sapienza e trovare le loro risposte che portano forse anche a quella fede di cui Paolo afferma che conduce alla salvezza.

Ulrike Jourdan

Sermone: Il mio re

Iniziamo un nuovo capitolo, un nuovo anno liturgico che prima di tutto ci porta verso il Natale. L’avvento è un periodo di preparazione alla grande festa. Però per quest’anno sono previsti molti testi dell’Antico Testamento. Si potrebbe dire che non sono adatti al periodo dell’Avvento. Con l’arrivo di Gesù inizia qualcosa di totalmente nuovo, non dobbiamo più rimanere legati ai vecchi racconti che sono superati. Abbiamo vissuto dei periodi storici nei quali questo è stato il pensiero di vari teologi. Oggi cerchiamo di valorizzare le nostre origini, di vedere da dove è spuntato il messaggio di Dio, la sua parola che a Natale si farà carne.

Ascoltiamo una parola del profeta Geremia nel 23 capitolo i versetti da 5-8.

5 «Ecco, i giorni vengono», dice il SIGNORE, «in cui io farò sorgere a Davide un germoglio giusto, il quale regnerà da re e prospererà; eserciterà il diritto e la giustizia nel paese.  6 Nei suoi giorni Giuda sarà salvato e Israele starà sicuro nella sua dimora; questo sarà il nome con il quale sarà chiamato: SIGNORE-nostra-giustizia.  7 Perciò, ecco, i giorni vengono», dice il SIGNORE, «in cui non si dirà più: “Per la vita del SIGNORE che condusse i figli d’Israele fuori dal paese d’Egitto”,  8 ma: “Per la vita del SIGNORE che ha portato fuori e ha ricondotto la discendenza della casa d’Israele dal paese del settentrione, e da tutti i paesi nei quali io li avevo cacciati”; ed essi abiteranno nel loro paese».

Geremia scrive: Ecco, i giorni vengono», dice il SIGNORE, «in cui io farò sorgere a Davide un germoglio giusto, il quale regnerà da re e prospererà; eserciterà il diritto e la giustizia nel paese. Questo è il messaggio dell’Avvento. È la notizia dell’arrivo di un re, e non solo di un re, ma del re dei re.

Se penso ai re o alle famiglie reali, mi vengono in mente quasi in automatico i giornali che leggo dal parrucchiere. Ci sono queste storie di grandi amori e di grandi lotte, e alla fine rimane una sola impressione: i reali sono una truppa strana, talvolta affascinante con le loro abitudini antiquate, talvolta solamente strana. Già da tanto tempo hanno perso la loro funzione. Oggi quasi tutte le nazioni sono governate da presidenti e non più da un re. Così i re hanno perso anche i loro sudditi, che sono diventati cittadini liberi. I reali possono ancora rappresentare il loro Paese, ma non devono più regnare. Fanno ancora vivere un sogno del passato che però non corrisponde più alla realtà di oggi.

Si potrebbe pensare che questa perdita di potere faccia perdere anche qualcosa all’immagine del re, che ci viene presentata nella Bibbia. Ma non sembra che sia così. In qualche modo il re sembra essere un’istituzione che conosciamo, che ci serve, che ci fa bene e da stabilità.

Se guardiamo nel nostro innario, si trovano tanti inni che cantano del re, per esempio quello che abbiamo cantato oggi ‘Lode all’Altissimo’ che professa Dio come: ‘re dell’immenso creato’. E soprattutto nel periodo natalizio quest’immagine regale per Dio è molto utilizzata.

Sembra che anche nel 21° secolo l’attributo ‘reale’ non si lasci sostituire. Quest’aura, il prestigio, lo status, la provenienza non sono intercambiabili. Il mito del mondo dei re porta con sé un fascino che non si lascia cancellare, proprio perché è così fuori dal nostro mondo.

Già nella Bibbia troviamo questi due volti della monarchia. C’è gloria pura quando Davide fa di Gerusalemme la sua capitale o quando Salomone inaugura il tempio. Ma c’è anche molta meschinità quando uno come Erode mente ai Magi per sapere dove trovare Gesù o, peggio ancora, quando vediamo la fine del re Acab di cui i cani leccano il sangue.

Se pensate alla storia d’Israele, forse ricordate che Israele per lungo tempo non aveva un re ma era guidato dai giudici. Poi c’era una specie di rivolta nel popolo che diceva a Samuele: tutti gli altri popoli hanno un re, lo vogliamo anche noi! – E Dio si offende e risponde loro: così dovete anche convivere con tutti i lati negativi dei re umani.

La Bibbia conosce tutti gli aspetti della monarchia. Conosce i re che non si comportano in maniera particolarmente regale, ma chi è una volta re lo rimane. È così si legano sempre di nuovo delle speranze alla casa reale di Davide, ma nessuno adempie le speranze – fino a quando viene Gesù. Lui è questo re speciale e giusto. Gesù è quello che tutti avevano aspettato, già dai tempi di Geremia.

Ma Gesù non ci tiene a mostrare la sua origine. Saranno i suoi biografi a farlo successivamente. Gli evangelisti Matteo e Giovanni danno molto valore al fatto che Gesù agisca come un re. Lui preferisce essere modesto e quasi nascondersi. L’asino sul quale entra a Gerusalemme è preso in prestito. Non ci sono vessilli, e allora la gente usa foglie di palma. In questo modo Gesù appare come un re strano. Avrebbe tutte le qualità perfette, non solo la sua origine, ma anche il fascino personale – ma decide di rinunciare al potere umano. E noi conosciamo la fine, sappiamo che si lascia incarcerare e crocifiggere. Dal punto di visto umano è un re debole, quasi come i re di oggi che appaiono in uno splendore di tempi passati, ma non possono, di fatto, quasi più decidere nulla. Noi lo sappiamo che non è così, che il suo potere supera quello di tutti i re dell’antichità come quello dei re moderni. Alla croce vince il potere del peccato, vince la forza della morte.

La domanda per noi oggi è questa: come mi comporto io di fronte a questo re?

Incontro spesso persone che mi dicono: Gesù è uno che ha fondato una religione, un uomo giusto, senz’altro speciale, uno che ha fatto una fine tragica. Ma che cosa cambia se confesso oggi Gesù come re giusto? Vuol dire che devo offrirgli questo spazio anche nella mia vita personale, che lui può decidere anche in quelle cose che riguardano me. Solamente se gli diamo questo potere possiamo anche chiamarlo “nostro re”.

È proprio quello che Samuele cercava di spiegare al popolo quando chiedevano un re. Avere un re significa essere disposti a sottomettersi. Il re vuol essere seguito. Il re chiede attenzione.- Noi sappiamo bene che Gesù non è come i re umani che hanno tutti i loro difetti. Ma un re rimane un re. Se confessiamo Gesù come il nostro re, gli spetta il nostro onore, gli spetta la guida della nostra vita, gli spetta ubbidienza.

Il periodo dell’Avvento è un tempo per adorare il re dei re. Ci prepariamo alla sua venuta. Stiamo pulendo le nostre case e anche la nostra chiesa. Vogliamo che tutto sia bello per quest’ospite che verrà: compriamo anche dei regali per ricordarci che grande regalo sia per noi l’avvento del Signore. E ci impegniamo per la giustizia in questo mondo, almeno con le nostre piccole forze, perché vogliamo con questo richiamare l’attenzione sul fatto che Gesù non vuole solo salvare le anime ma cambiare e rinnovare totalmente questo mondo. Lui è il SIGNORE-nostra-giustizia. Per questo aiutiamo quelli che vivono nell’ingiustizia, nella povertà, nella fame. Per questo ci impegniamo nel modo che possiamo, anche con le nostre finanze. E ogni volta che diamo qualcosa, soprattutto quando diamo più di quanto volevamo dare, o addirittura più di quanto dovremmo dare, diamo onore a Gesù.

Ma non è decisivo quello che diamo o riceviamo umanamente in questo periodo dell’Avvento. Per primi siamo noi a ricevere un dono, riceviamo Gesù il re giusto che si è donato per noi, che ha cambiato il peccato con la giustizia.

Durante l’Avvento guardiamo in avanti o come dice Geremia: Ecco, i giorni vengono. Verranno i giorni nei quali vedremo il re in tutta la sua gloria. Possa condurci questo sentimento di gioia nel pregustare questo periodo.

Amen

Ulrike Jourdan

Sermone: Davanti alla porta

Tutti i testi previsti per oggi parlano della morte e dell‘eternità. Sono temi tipici con i quali ci confrontiamo in questo periodo dell’anno buio e triste. Ma come si può parlare della vita dopo la morte se nessuno è mai tornato per raccontarci come sia?

Gesù ci propone una parabola, un racconto che spiega l’attesa in cui viviamo anche noi davanti a quell’evento tanto atteso.

Leggo dal vangelo di Matteo, capitolo 25 i versetti da 1 a 13.

«Allora il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini le quali, prese le loro lampade, uscirono a incontrare lo sposo.  2 Cinque di loro erano stolte e cinque avvedute;  3 le stolte, nel prendere le loro lampade, non avevano preso con sé dell’olio;  4 mentre le avvedute, insieme con le loro lampade, avevano preso dell’olio nei vasi.  5 Siccome lo sposo tardava, tutte divennero assonnate e si addormentarono.  6 Verso mezzanotte si levò un grido: “Ecco lo sposo, uscitegli incontro!”  7 Allora tutte quelle vergini si svegliarono e prepararono le loro lampade.  8 E le stolte dissero alle avvedute: “Dateci del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono”.  9 Ma le avvedute risposero: “No, perché non basterebbe per noi e per voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene!”  10 Ma, mentre quelle andavano a comprarne, arrivò lo sposo; e quelle che erano pronte entrarono con lui nella sala delle nozze, e la porta fu chiusa.  11 Più tardi vennero anche le altre vergini, dicendo: “Signore, Signore, aprici!”  12 Ma egli rispose: “Io vi dico in verità: Non vi conosco”.  13 Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora.

Dieci ragazze, ragazzine che attendono davanti alla porta. Così Gesù spiega la nostra situazione. Siamo noi che aspettiamo. Siamo noi che veniamo in chiesa per farci raccontare di quella festa, tanto attesa. Siamo noi che in qualche modo ci prepariamo mentre stiamo al buio e freddo davanti alla porta d’ingresso. Gesù racconta di un matrimonio, ma della festa in sé sappiamo poco o niente. Non vediamo gli invitati, non vediamo né la sposa né il luogo della festa. Sentiamo le grida: Ecco lo sposo. Ma non lo vediamo. Questa è la situazione nella quale ci troviamo noi. Siamo in attesa. Attendiamo una festa che, ci auguriamo, sia bella, ma nel frattempo diventa notte e freddo e aspettiamo ancora. Siamo in attesa di questa vita eterna, ma finora c’è solo la speranza che sia veramente bella e desiderabile.

Ora potremmo dire: vale la pena di aspettare per la festa se alla fine si aprono le porte e tutti quanti possono entrare? Ma neanche questo ci racconta la parabola. Le cinque vergini avvedute entrano e noi rimaniamo fuori ad attendere insieme con quelle cinque ragazze stolte.

Questo è il nostro posto, almeno per ora, fuori dalla porta. Dobbiamo attendere che cosa succederà.

Guardiamo queste ragazze che vogliono entrare alla festa. La metà viene definita stolta. È una parola che oggi non utilizziamo più. Forse le definiremmo tonte, stupide, sciocche. Tutte quante sono ragazze non ancora sposate. Pensando alle usanze dell’epoca avevano meno di 14 anni. Noi oggi diremmo: quasi ancora delle bimbe. Sono proprio in quell’età nella quale tutti i ragazzi, maschi e femmine, sono un po’ tonti, stupidi, stolti.

Forse anche noi che aspettiamo insieme con loro davanti alla porta della festa ci comportiamo in qualche modo da stupidi o semplicemente ci comportiamo secondo la nostra età. Neanche loro possono fare diversamente. Sono adolescenti, devono essere un po’ schiocche. E noi siamo semplicemente esseri umani con tutte le nostre attese e paure davanti a questa grande porta dietro la quale aspettiamo la festa. Forse fa parte della nostra esistenza il fatto di comportarci anche un pochino da stupidi.

Nella parabola ci viene raccontato delle ragazze che hanno il compito di aspettare insieme alla sposa e di accompagnarla quando viene lo sposo a prenderla per portarla a casa sua. Ora succede questo: le dieci ragazze aspettano insieme alla sposa. Avranno avuto come anche oggi il compito di farla bella e calmarla davanti a questo grande passo. – Lo diciamo ancora oggi che una vera sposa deve farsi aspettare. In questo caso è lo sposo che tarda e anche parecchio, così che le ragazze si addormentano. Sono ragazzine, non aspettiamoci troppo da loro. E quando dico questo, voglio anche dire: siamo noi esseri umani, non aspettiamoci troppo da noi stessi. Comunque, loro si addormentano, diventa buio profondo e quando finalmente arrivano le voci che lo sposo si avvicina, si scopre che hanno tutte delle lampade, ma la metà non ha pensato di portare olio di scorta. Ora dicono quelle che sono definite stolte: dateci voi qualcosa del vostro olio. Facciamo metà-metà, così che anche noi possiamo illuminare la processione della coppia di coniugi che va verso la festa. Però le ragazze intelligenti sanno che così tutte le lampade si spegnerebbero a metà strada e mandano le ragazze senza olio dai venditori.

Osserviamo per un attimo questo comportamento. Nel nostro testo biblico le ragazze avvenute sono chiaramente considerate migliori. Hanno pensato a ciò di cui avevano bisogno, così al momento giusto hanno abbastanza olio. Non vi nascondo che le trovo molto dure e anche in qualche maniera antipatiche nella loro netta decisione di non voler condividere l’olio che hanno. Forse hanno ragione e condividendo l’olio avrebbero illuminato solo la prima parte del cammino verso la festa. Chi lo sa, forse sarebbe anche bastato.

Se cerchiamo di interpretare questa metafora della luce a partire dalla Torah, le luci sarebbero le buone opere che compiono i credenti. La Torah è la luce. L’abbiamo cantato anche prima: Lampada al nostro piede, Padre è la tua Parola, che a noi veder concede qual è la via del ben. (IC.204) Non è solo un inno; l’idea della parola di Dio come luce per la vita viene dai Salmi. E l’olio che illumina questa luce sono le opere che i singoli credenti compiono attingendo alle indicazioni della Parola di Dio.

Così si spiega perché l’olio non può essere condiviso, perché ognuno deve vivere la sua vita. Ognuno deve fare le proprie scelte nessuno si può intromettere, neanche se lo volesse. – Penso a tanti genitori che vedono i figli che crescono e fanno scelte nella loro vita che i genitori non condividono. Non possono fare niente. Ognuno deve vivere la propria vita. Ognuno è responsabile per le proprie scelte. Non riusciamo a cambiare la vita di un altro.

La domanda che però è molto interessante per noi è questa: sono alla fine le buone opere che portano in cielo? È quella domanda alla quale noi evangelici rispondiamo tradizionalmente con un NO deciso. Non sono le opere che salvano, è solo Gesù Cristo e la fede in lui. Però, leggendo fino alla fine questo capitolo 25 del vangelo di Matteo, sappiamo che comunque le opere portano in contatto con quel Salvatore che dice: “In verità vi dico che in quanto lo avete fatto a uno di questi miei minimi fratelli, l’avete fatto a me”. (Mt 25,40)

Fede. Opere. Forse non dobbiamo neanche arrivare ad una netta divisione. Chiaramente Lutero doveva dire una parola forte in un’epoca nella quale sembrava che SOLO le opere, neanche quelle fatte, ma soprattutto quelle comprate, salvassero. Questo è assurdo e ce lo dice il nostro testo biblico. Non possiamo vivere la vita di un altro. Non possiamo aggiungere dell’olio nella lampada di un altro. Non possiamo farci aprire le porte del cielo con le opere di una qualsiasi altra persona. Ognuno starà da solo e con la propria vita davanti al trono di Cristo. Per questo Lutero sottolineava con tanta enfasi: non sono le opere che salvano ma solo la fede in Gesù Cristo. Quando una volta staremo davanti e lui ed egli ci chiederà che cosa abbiamo da portare, l’unica risposta adeguata sarà: non abbiamo niente da portare. Non abbiamo niente di cui vantarci. Non abbiamo niente a cui possiamo fare appiglio se non il solo sangue di Gesù Cristo.

Era necessaria quest’enfasi di Lutero per far passare un pensiero totalmente nuovo. Però 200 anni dopo sarà John Wesley che dice: tutto giusto, ma quando uno è salvato, quando uno ha incontrato Dio ed è diventato una nuova persona in lui, così è anche in grado di compiere delle opere buone. Non perché deve, ma perché può. Non perché deve guadagnarsi la salvezza, ma appunto perché è già salvato.

Noi stiamo davanti alla porta e aspettiamo. Stiamo lì e lottiamo col freddo che ci porta incontro la nostra società, lottiamo col buio che non ci permette di vedere con chiarezza che cosa ci viene incontro. Stiamo lì ad aspettare e non sappiamo quanto lunga sarà quell’attesa. Non sappiamo se ci succederà di addormentarci.

Lo sposo arriva nel bel mezzo della notte. La fine, la morte arriverà come un ladro nella notte. Nessuno sa l’ora né il giorno. Che cosa sarà di noi in quel momento? Avremo abbastanza olio da illuminare la via o saremo noi quelli che sono esauriti, sfiniti che hanno ancora in mano la lampada ma niente che possa fare luce?

Abbiamo sentito l’avvertimento di tenere abbastanza olio, ma talvolta non ci è dato. Talvolta ci sono situazioni nelle quali ci sentiamo esauriti, nelle quali ci manca il carburante. Ci sono situazioni in cui siamo solo più un recipiente. A quel punto non ci aiuta per niente l’avvertimento di rabboccare le provviste. Volentieri, ma come? Non funziona con le proprie forze. A questo “essere avveduti” non possiamo allenarci.

In questo vediamo pienamente che noi ci troviamo davanti alla porta, ancora fuori dalla festa. Non entriamo, talvolta possiamo intravedere qualcosina ma la maggior parte ci manca. Paolo direbbe: noi conosciamo in parte (1Cor 13,9).

E così troviamo in noi qualcosa di entrambi i gruppi di vergini. Siamo come quelle avvedute perché tramite la fede abbiamo già ora la promessa di Dio di fare parte del suo regno. Vorrei sottolinearlo ancora una volta: tramite la fede abbiamo olio in abbondanza così che non ci mancherà la luce che ci porta verso la vita eterna. Noi abbiamo abbastanza olio da dare luce anche a tutti gli altri.

Ma in noi troviamo anche qualcosa delle vergini stolte. Siamo legati a questa vita. Sappiamo della festa, ma non possiamo fare altro che assentarci sempre di nuovo perché ci manca il carburante.

Forse questa mancanza che vediamo nelle vergini stolte può essere per noi anche un messaggio liberante: non possiamo allenarci a essere sempre avveduto. Non possiamo allenarci a essere sempre contenti. Non possiamo allenarci a essere sempre gioiosi e positivi e ottimisti. Vorrei dire: non possiamo allenarci a vivere senza avere anche paura davanti alla morte, davanti a questa porta che per noi è ancora chiusa.

In noi troviamo entrambe le componenti. Sappiamo della nostra stoltezza nella vita, come anche della nostra avvedutezza davanti alla vita eterna.

Sappiamo che talvolta ci manca il carburante però sappiamo anche dove trovarlo, che non dobbiamo proccuracelo noi, né andare a comprarlo, ma abbiamo un Signore che ci regala quell’olio che illumina la via oscura.

Per questo non dobbiamo avere paura durante l’attesa davanti a quella porta. Atteniamoci a Gesù che ha olio in abbondanza per illuminare la via verso la vita eterna.

Amen

Sermone: Non è mai troppo tardi

Luca 13,6-9

 

Care sorelle e cari fratelli,

vorrei iniziare questa nostra meditazione con una parola che, dopo 150 anni di storia, è una parola che ci costringe.

è troppo tardi.

Quante volte abbiamo ascoltato questa parola, questo verdetto. Lo abbiamo ascoltato, oppure lo abbiamo detto tante volte e ogni volta ci è sembrata una frase di giudizio e di condanna. È  troppo tardi vuole dire: non c’è più tempo, la situazione è irrevocabile, non si può fare nulla, tutto quello che era possibile è stato fatto e, se non è stato fatto, adesso non si può più rimediare, non si può tornare indietro per avere più tempo; le occasioni ci sono state e, se non sono state colte, adesso non si può fare nulla, non ci saranno nuove occasioni, il tempo è scaduto. È troppo tardi, lo diciamo spesso con rabbia, con rammarico; troppo tardi, è una frase che diciamo con tristezza perché ci accorgiamo che gli altri non hanno fatto quello che speravamo o ci rendiamo conto che noi stessi non abbiamo fatto nulla e le cose sono precipitate irrimediabilmente. Ora è troppo tardi! Troppo tardi allora indica delusione,  risentimento, disillusione ed è la frase di chi è vinto dalla vita, di chi non ha saputo cogliere le occasioni per cambiare, per fare nuove scelte o di chi ancora potrebbe ma si è costruito un alibi per non prendere decisioni e aspetta che le decisioni vengano prese dal tempo al suo posto dicendo: è troppo tardi! Dopo una lunga storia siamo in grado di accogliere ancora la vocazione di Dio o è tardi?

Ma cosa accade se questa parola, questo giudizio arriva a noi da Dio? Abbiamo mai pensato che Dio un giorno ci possa dire: basta, io con te finisco, è troppo tardi? No, non pensiamo alla morte, alla fine della nostra vita terrena, al troppo tardi dettato dalla biologia. Piuttosto pensiamo al nostro rapporto con Dio, e con gli altri, adesso, nel nostro tempo quotidiano, quando siamo convinti di avere sempre tempo, oggi se Dio ci dicesse: basta è troppo tardi, come reagiremmo? Infondo questa parola sembra quasi contraddire Dio stesso, o almeno l’immagine di Dio che abbiamo nella nostra mente, nel nostro cuore, nella nostra fede. Noi immaginiamo un Dio del tempo buono, un Dio che ha sempre tempo per noi e che offre sempre nuovo tempo, un Dio del: non è mai troppo tardi! Invece oggi arriva una parola anche dura, una parola che mette in guardia, una parola che chiama al ravvedimento, alla penitenza, alla consapevolezza di chi siamo. La Parola di Dio è una parola che ci pretende.

Dopo un racconto nel quale Gesù chiama al ravvedimento Luca colloca nel capitolo 13 del suo vangelo una parabola che, in questa forma, è sconosciuta agli altri vangeli e probabilmente Gesù utilizza, cambiandone il finale, un racconto popolare del suo tempo. Un contadino possedeva un vigneto e, come era consuetudine in quel tempo, nel vigneto venivano piantati anche alberi di frutto. Uno di questi alberi era un fico e, come si usava, era stato piantato sei anni prima; nei primi tre anni doveva crescere e si attendeva la sua maturità per cominciare a dare frutti, ma nei tre anni successivi avrebbe dovuto dare frutti, perché il contadino lo aveva curato, ma i frutti non erano mai giunti. Il contadino allora decide di sradicare l’albero inutile perché toglieva nutrimento alla vigna senza dare frutti a sua volta. Il vignaiolo però intercede in favore del fico e fa ciò che normalmente non si dovrebbe fare concede tempo al fico (rischiando di perdere tempo) e promette di prendersene cura concimandolo e zappando intorno al suo tronco, se anche tutto questo sarà inutile allora l’albero verrà tagliato via. Per l’albero non è tardi, ha ancora un’occasione ma il tempo adesso stringe, per lui c’è ancora una possibilità, una stagione sola, dopo di che sarà troppo tardi.

Nella metafora della parabola Dio viene nella sua terra per vedere di quali frutti siamo stati capaci. Egli ha già fatto tanto ha donato la sua parola prima nella legge, poi nei profeti e da sempre aspetta che gli uomini e le donne traggano insegnamento dalla sua parola per cambiare vita, per dare, cioè, frutti di giustizia, d’amore. Ogni volta però che Dio scende nella sua vigna, scopre amaramente che il suo albero non da frutti, che siamo ancora sterili, che non riusciamo a dare vita a frutti di pace. Sarebbe giusto sentire ora il giudizio di Dio: è tardi, tagliamolo via. Sarebbe il nuovo diluvio, la condanna di Sodoma e Gomorra, sarebbe la nuova deportazione verso Babilonia, la condanna giusta di Dio verso una generazione che non sa mettere a frutto il bene ricevuto da Dio, come la parola di condanna di Gesù contro quelle città impenitenti che, pur avendo ricevuto le opere e la parola del messia, non si sono ravvedute. Ora siamo pretesi da una parola che non solo ha fatto qualcosa per noi ma vuole fare qualcosa in noi e per noi.

Ma c’è ancora una parola, l’ultima, in favore nostro, in favore di uomini e donne che sono gli alberi di Dio nella sua vigna: aspettiamo ancora, io me ne prenderò cura. Chi parla è Gesù che dice: io mi prendo cura degli alberi sterili, mi prendo cura delle piante che non sanno più dare frutti e di quelle che non ci sono mai riuscite. Gesù è la cura di Dio e raggiunge soprattutto quelle piante più deboli delle altre perché troppo piccole o troppo malate; Gesù è la pazienza del tempo di Dio.

Gesù è il motivo per cui Dio rischia ancora con noi.

Gesù si prende cura di tutti e tutte noi proprio nel tempo nel quale sarebbe giusto sentire invece la voce della condanna di Dio. Gesù è la sorpresa di Dio, Gesù è la parola inaspettata di Dio.  È lui la sentenza di salvezza e libertà contro la sentenza della morte e della divisione del peccato.

Gesù trasforma il giudizio in grazia, in misericordia. Non sappiamo poi come andò a finire, se l’albero cioè diede poi frutto, non è importante perché adesso tocca a noi, noi siamo in questo tempo, la nostra vita è quell’anno nel quale Dio attende per poi verificare i nostri frutti. Forse non saremo tagliati via. È vero che Gesù è stato tagliato per noi e ci ha permesso di fare pace con Dio anche se non lo meritavamo, ma adesso rischiamo che sia troppo tardi, dobbiamo rivolgere la nostra attenzione a Cristo affidandoci a lui ché venga a potarci e a renderci fertili nella sua parola perché lui è l’ultima parola di Dio per noi, è l’ultima occasione di Dio in nostro favore, senza Cristo rimaniamo senza speranza, se perdessimo questa occasione allora sarebbe veramente troppo tardi. Dopo 150 anni di storia possiamo continuare o ricominciare solo da Gesù Cristo: il sì di Dio e il suo giudizio.

Noi siamo disperatamente infruttuosi perché il bene ricevuto non diventa in noi un’opera che sappia trasformarci, non riusciamo a dare e fare tutto il bene ricevuto da Dio. Noi siamo infruttuosi, ovvero inutili disperatamente, mentre Dio è ricco di speranza al punto da darci il tempo della nuova occasione in Cristo. Cosa accadrà in questo tempo? Accade che in Dio si gioca una partita infinita tra la misericordia e il giudizio; da una parte c’è la misericordia di Dio che ha sempre vinto sul male e sul peccato, dall’altra il giudizio, la parola finale, il troppo tardi, la condanna e l’esclusione: chi non porterà frutto sarà cacciato e rimarrà fuori dal Regno e dalla pace di Dio. Da una parte la luce della speranza e dall’altra la minaccia del troppo tardi. In questa partita però prevale la decisione di Gesù, la scelta di Dio in nostro favore. In questa decisione si trova la pretesa di vita di Dio in nostro favore: non verrete tagliati via, il vostro tempo non è concluso, anzi ora avete la possibilità di dare frutti nuovi, maturi e duraturi perché siete custoditi, curati da Gesù che è il Cristo di Dio. Allora per prima cosa dobbiamo smettere di lamentarci. Se il giudizio si trasforma in misericordia allora basta con i lamenti e con le scuse. Non diciamo più: non è colpa mia, è che sono stato piantato male, il terreno non è buono, non mi hanno annaffiato, le altre piante sono più giovani, più forti, non cambierò mai, sono fatto così….

Non c’è più tempo per le scuse, nella partita tra giudizio e misericordia si stanno giocando i tempi supplementari e presto saranno finiti e allora verremo nuovamente visitati per verificare i nostri frutti, non le nostre idee, i nostri pensieri, le nostre possibilità, i nostri desideri; Dio verificherà i nostri frutti vorrà vedere cosa siamo stati capaci di fare col tempo in più che ci è stato concesso per grazia. Cosa avete fatto in questo: nel frattempo? Gesù vi ha curati e voi? Cosa avete fatto della speranza che vi ha donato, della fede che ha fatto crescere nei vostri cuori, della grazia di cui vi ha investiti, dei talenti di cui siete stati dotati, come siete cambiati da quando Gesù vi ha visitati?

I frutti che non ci sono oggi ci potranno essere domani, ma noi siamo sempre alberi incerti. Potremo dare nuovi frutti se ci affidiamo a Gesù, il potente vignaiolo che si prende cura di chi è sterile, vecchio, incapace.

Non è troppo tardi perché Gesù ha promesso che sarà con noi sino alla fine dell’età presente e quando sarà tardi, perché sarà conclusa l’età presente, forse avremo solo dei semi tra le mani e li porteremo a Dio e gli diremo in preghiera umile:

Padre io sono un albero, il tuo albero, ho vissuto lasciando che Gesù si prendesse cura di me e mi difendesse dagli animali e dalle intemperie della vita, io ho provato a dare frutti grandi e importanti ma ogni volta che provavo a riempire i miei rami di frutti grandi, saporiti, dolci, colorati, i miei rami si sono spezzati, oppure gli uccelli li hanno mangiati o si sono seccati in breve tempo; allora ho avuto paura che tu tornassi e mi dicessi: è troppo tardi tagliatelo via! Ma poi Gesù mi ha detto che i semi bastavano, che per i frutti saporiti ci avrebbe pensato lui, che per la perfezione ci sarebbe stata la sua grazia a completare l’opera, da me si aspettava solo i semi, i miei frutti sono i semi: il seme della benedizione che tu mi hai donato, il seme del perdono che Gesù mi ha donato, il seme della bontà e dell’amore che mi ha fatto crescere, il seme della giustizia che ha il volto di Dio, il seme della pace che non avrà mai fine. Potrò anche essere tagliato ma i semi cadranno in terrà e faranno crescere altri alberi. Padre prendi questi semi e rendili fertili e spargili sulla terra.

Ecco i nostri semi preziosi, piccoli ma preziosi, sono frutti che il mondo non conosce ma che possiamo donare. Non è troppo tardi, per i semi di Dio non è mai troppo tardi con Gesù. Amen

Luca Anziani