Sermone: Gesù sazia la tua fame di vita

Tempo fa, era ancora in Germania, ho visto in tv un documentario su una famiglia. Mamma, papà, un figlio; sembrava tutto carino e tranquillo, una simpatica famigliola. Si erano trasferiti dalla città in paese e cercavano contatti, tutto nella norma. Poi nel corso dell’intervista si capiva che sia lei sia lui guadagnavano i loro soldi in ambienti a luci rossi e, come succede nei paesi, si era subito sparso la voce.

Questa famiglia cercava contatti e praticamente tutti gli altri genitori, sia dell’asilo sia della squadra di calcio si tenevano a distanza. – Mi sono chiesta quanto sono disposta io ad accettare gli altri, soprattutto quando sono di mezzo i miei figli. So che anch’io cerco di proteggerli di fronte a persone che non mi sembrano adatte.

Comunque, questa famiglia aveva soldi in abbondanza, ma niente amicizie e soprattutto la giovane mamma soffriva per questo. Uno potrebbe dire: fatti due pensieri sul modo in cui guadagni i tuoi soldi. Ma questa mamma voleva solo che suo figlio avesse un amico, voleva poter parlare con le altre mamme dell’asilo, forse incontrarsi una volta per un caffè, per poter condividere i tipici pensieri da mamma.- Quei semplici desideri che non avrebbe potuto comprare con tutti i suoi soldi. Questa donna aveva fame di amicizia. Niente di speciale una semplice, umile, vera amicizia.

Vi ho portato oggi una storia che parla di fame e di sazietà. Leggo dal vangelo di Giovanni 6,47-51:

47 In verità, in verità vi dico: chi crede in me ha vita eterna.  48 Io sono il pane della vita.  49 I vostri padri mangiarono la manna nel deserto e morirono.  50 Questo è il pane che discende dal cielo, affinché chi ne mangia non muoia.  51 Io sono il pane vivente, che è disceso dal cielo; se uno mangia di questo pane vivrà in eterno; e il pane che io darò è la mia carne, che darò per la vita del mondo».

È un racconto di fame e di sazietà, un racconto di pane che ci propone solo ed esclusivamente l’evangelista Giovanni. Gesù parla alla gente poco dopo il miracolo della moltiplicazione dei pani e pesci per i 5000. Ricordiamoci: Gesù predicava, parlava con la folla, con uomini, donne e bambini che l’avevano seguito. Si era fatto tardi. La gente aveva fame, nessuno sapeva bene che cosa dire o fare, non era previsto tutto ciò. Nessuno sapeva come saziare tutte queste persone prima che dovessero affrontare il ritorno.

Lo percepite che questo testo non parla solo della fame che si sente nella pancia. Qui parliamo di una fame molto più profonda, una fame che logora tutto l’essere.

I discepoli invece sono ancora fissati sulle pance delle persone. Dicono che neanche pane per 200 denari basterebbe per tutte queste persone. Ricordiamoci che nella parabola dei lavoratori delle diverse ore, loro ricevono tutti 1 denaro al giorno. 200 denari sarebbero quindi il guadagno di più di un mezz’anno. Parliamo di tanti soldi. Ma non bastano.

Poi viene un bambino che porta cinque pani d’orzo e due pesci. Porta ciò che ha, insieme ad una grande fede – e la gente viene saziata. La fame di 5000 persone è calmata. Un miracolo, però la fame si calma solo per una notte.

Dopo Gesù parla di nuovo con il popolo d’Israele e ricorda i tempi nel deserto dopo la miracolosa fuga dall’Egitto quando Dio saziava il popolo con manna e quaglie. Gesù ricorda al popolo questo pane che veniva dal cielo e dice di se stesso: Io sono il pane vivente, che è disceso dal cielo.

L’altra settimana a Ecumene abbiamo fatto un campo sulle leggi – soprattutto leggi civili – ma la domenica ho raccontato loro il percorso del popolo d’Israele fino ad arrivare al Sinai dove Dio consegnava a Mosè i 10 comandamenti. Questi racconti del popolo nel deserto, prima e dopo il Sinai, hanno sempre lo stesso schema: Il popolo sta male – Dio manda aiuto e per un po’ di tempo stanno meglio – Il popolo non vuole ascoltare Dio – Il popolo sta male.

Con questo ciclo, ci sono tanti, tantissimi racconti biblici. Con la manna era così: gli Israeliti avevano appena attraversato il Mar Rosso, dopo anni di oppressioni, dopo le 10 piaghe e la fuga nella notte, finalmente trovano libertà e il primo versetto del nuovo periodo nel deserto inizia con delle lamentele. Non sentiamo nulla della gratitudine, iniziano con preoccupazioni e reclami. Dicono a Mosè: «Fossimo pur morti per mano del SIGNORE nel paese d’Egitto, quando sedevamo intorno a pentole piene di carne e mangiavamo pane a sazietà! Voi ci avete condotti in questo deserto perché tutta questa assemblea morisse di fame!» (Esodo 16,3) Che cosa succede? Dio ascolta le lamentele del suo popolo e manda la manna, il pane dal cielo. A quel punto potrebbe in teoria finire la storia, ma si trova sempre uno che ha da lamentarsi e vuole tornare nella schiavitù.

Perché vi racconto questo? Nel nostro testo Gesù sottolinea che tutti coloro che sono stati mantenuti nel deserto miracolosamente con la manna dovevano comunque morire. Forse potremmo anche dire che tutti coloro che hanno mangiato una parte di quei cinque pani e due pesci dovranno morire. In contrasto a questo possiamo sentire la promesso di vita che offre Gesù Cristo: Io sono il pane vivente, che è disceso dal cielo; se uno mangia di questo pane vivrà in eterno.

Se Dio porge del pane dal cielo, vuole anche che se ne mangi; se Dio porge nella persona di Gesù il vero pane dal cielo, vuole anche che si accetti questo pane, che si accetti Gesù, nella fede. Questo testo è un invito alla fede. Questo testo ci sollecita a rispondere alla chiamata di Dio. – Potrebbe essere tanto facile: se ti viene offerto del pane, tu mangi. Dio ti offre suo figlio, che fai?

La Bibbia ci racconta che gli Israeliti, dopo poco tempo, non erano più contenti con la manna, non li soddisfava più. Anche oggi il pane semplice non è più tanto ben visto. Troppi carboidrati, troppo poco gusto. Va bene come base per la nutella, ma pane così, semplice e secco non vale la pena mangiarlo. E non illudiamoci che si parli di qualche pane speciale. Gesù pensa al pane azimo. È secco e non sa di niente, è un pasto povero. Gesù dice: Io sono il pane. Pane semplice, non la baguette o la brioche, non la brezel o il muffin – semplice pane.

E prosegue dicendo: se uno mangia di questo pane vivrà in eterno. Non una vita con ricchezze, una vita di lusso e sovrabbondanza, no. Vita semplice ma eterna. Questo ci offre Gesù.

La vita eterna comincia dove non devo far vedere il mio valore con ciò che guadagno ma ho valore perché sono amato, una figlia, un figlio di Dio.

La vera vita si mostra dove non devo più organizzare ogni dettaglio al minimo, ma posso anche fidarmi della protezione, dell’accompagnamento di un Dio che conosceva la mia vita quando io non c’ero ancora.

Ci basta una vita del genere o ci serve di più? Che cosa serve per vivere?

Su questa domanda possiamo trovare delle risposte molto diverse: In questi tempi si citano spesso i famosi 30 euro al giorno di cui qualcuno dice che sarebbe tanto, un altro lo vede giusto o anzi poco per vivere.

Se chiediamo invece alla Caritas ci dicono che due pugni di riso al giorno devono bastare in tante parti dell’Asia per sopravvivere.

Se chiedo ai giovani che cosa serve per vivere ci sono tanti che parlano dei loro amici, o anche del cellulare o computer senza il quale loro non si sentono completi, in qualche modo staccati dalla loro realtà.

Se chiedo a degli amici mi dicono che serve un lavoro fisso per mantenere la famiglia, una casetta nel verde non sarebbe male e una volta all’anno vacanze al mare.

Se chiedo ai più anziani che cosa serve per vivere, non contano più i soldi, ma vorrebbero persone attorno a sé. Persone che hanno tempo, che possono ascoltare, e sono comprensive.

Che cosa serve per vivere? Gesù ci dice: può essere che voi pensiate di avere bisogno di tutte queste cose. Va benissimo se le avete, ma alla fine, veramente avete solo bisogno di ME.  Io sono il pane vivente,(…); se uno mangia di questo pane vivrà in eterno.

Torniamo ancora una volta all’inizio quando vi ho raccontato di questa mamma che cercava amicizia. Non lo so che cosa direbbe lei se qualcuno le chiedesse che cosa serve per vivere. Forse parlerebbe di soldi e vestiti, vacanze e macchine. Però si è visto chiaramente: ciò che serviva davvero è pane di vita. Una base nella vita.

Lei ha cercato disperatamente qualcosa per alimentare la sua fame, forse non avrebbe neanche potuto esprimere di che cosa aveva fame.

Proprio per persone come lei è venuto Gesù. A loro e a noi offre il pane della vita, non solo pane per lo stomaco, non solo pane per questa vita, ma pane per la vita eterna.

Amen

Ulrike Jourdan

Sermone: Il cerchio perfetto dell’amore

Voglio oggi partire per la nostra riflessione condividendo con voi il mio sentire per due persone assai speciali nella mia vita.

A gennaio è mancato un mio carissimo amico, un piacevole compagno di chiacchierate notturne al telefono, visto che per entrambi le ore della notte sono finalmente tranquille e danno la possibilità di riflettere senza la frenesia delle cose da fare durante il giorno. Lui era psichiatra e la sua dipartita ha lasciato un gran vuoto in moltissime persone che continuano ad attestare la loro stima ed il loro dolore per la sua mancanza.

Nik era una bella persona, colta, disponibile, empatico, sempre partecipe nei sentimenti dell’altro. Ma Nik era anche agnostico e ricordo ancora con un sorriso i nostri confronti durante i quali lui si stupiva della laicità sostanziale in una persona credente. Una caratteristica indiscussa di questo mio amico era l’umiltà che manifestava nel relazionarsi con tutti. Mi manca, mi manca molto.

Per mia fortuna un’altra persona è ancora presente nella mia vita. Anch’egli medico, anch’egli agnostico (seppure attirato dalla visione etica delle chiese valdesi e metodiste). Il mio amico è una persona buona, che ha come punto focale della sua vita la professione come mezzo per realizzare uno dei suoi principali obiettivi: lenire il dolore delle persone. Per esperienza so che, qualsiasi sia il problema esistenziale che sta vivendo, interpellato come medico, lui è presente, in ogni momento, con ogni persona che richieda il suo aiuto. Però, anche con lui, nelle nostre chiacchierate, percepisco l’incredulità nei confronti di Dio.

Perché il riferimento a queste due persone così importanti nella mia vita?

Perché io, come voi sorelle e fratelli, sono credente e non nutro dubbio alcuno sulla presenza del nostro Signore nella mia vita e nella storia del mondo.

Certo l’amore per il prossimo, la solidarietà, il mettersi a disposizione dell’altro, il donare all’altro ciò che siamo, ciò che sappiamo e ciò che abbiamo non è caratteristica del cristiano. Il mondo, la storia, perfino le nostre conoscenze personali sono zeppi di individui che hanno saputo relazionarsi con gli altri con spirito “fraterno”. E questo, a prescindere dalla nostra scelta di fede, va loro riconosciuto.

Ma allora, qual è la specificità del credente? Quali sono le riflessioni che dobbiamo fare e che ci rendono diversi dai non credenti? CERTO NON MIGLIORI, ma diversi sì.

 

Leggo dall’evangelo di Matteo 22: 34-40

I farisei, udito che egli aveva chiuso la bocca ai sadducei, si radunarono; e uno di loro, dottore della legge, gli domandò, per metterlo alla prova: «Maestro, qual è, nella legge, il gran comandamento?»

Gesù gli disse: «”Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. Questo è il grande e il primo comandamento.

Il secondo, simile a questo, è: “Ama il tuo prossimo come te stesso”.

Da questi due comandamenti dipendono tutta la legge e i profeti.»

 

Questo notissimo passo, riportato anche in Luca 10 con la parabola del buon Samaritano, è entrato fra i versetti più conosciuti a memoria da credenti e non credenti.

In entrambi gli Evangeli l’affermazione nasce da una provocazione, da un intervento che un dottore della legge fa per mettere alla prova Gesù. In Matteo il gran comandamento della legge è messo in bocca a Gesù, in Luca, invece, è Gesù che chiede al suo interlocutore quale sia il comandamento ed egli risponde, per cui possiamo dedurre che questa legge, questo comandamento fosse anche al tempo ben conosciuto.

Luca riporta al cap 10, laddove parla della parabola del buon Samaritano: “Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta l’anima tua, con tutta la forza tua, con tutta la mente tua, e il tuo prossimo come te stesso”.

Sostanzialmente lo stesso comandamento. Tuttavia mi vien da dire che normalmente o quantomeno spesso questo dettato è stato utilizzato solo per esprimere l’atteggiamento che il cristiano dovrebbe avere nei confronti del “prossimo” (fratellanza, solidarietà, amore, compassione, condivisione, ecc.).

Interpretazione certo corretta, ma parziale, che magari ha anche talvolta il sapore di un inutile e ipocrita buonismo caritatevole, perché, se ci pensiamo bene, i destinatari dell’amore non sono uno (il prossimo), bensì tre:

  1. Il Signore,
  2. Il prossimo,
  3. Te stesso.

E questo non è un caso, perché ciò che troviamo nella Bibbia non è stato scritto per caso.

Sono tre i pilastri dell’amore sui quali per un credente deve fondarsi la vita.

Se volessimo raffigurare fisicamente questa situazione, potremmo immaginare tre colonne sulle quali è posato un cerchio orizzontale, il cerchio dell’amore che dovrebbe essere ben presente in coloro che hanno fatto l’esperienza del grande dono della fede.

Proviamo ad analizzare questi tre pilastri, sapendo che ciascuno di essi è assolutamente fondamentale per la stabilità della costruzione, perché nessuno dei tre pilastri può essere più alto o più basso degli altri, altrimenti viene meno il sostegno al cerchio.

  1. Amare il Signore

Cosa significa? Vuol forse dire che, per abitudine, per educazione religiosa, per una sorta di timore o per altri motivi, riconosciamo l’esistenza di Dio nell’alto dei cieli perché spesso l’uomo ha bisogno di aggrapparsi al trascendente?

NO, certo che no! Amare il Signore vuol dire aver accolto nella nostra vita la sua presenza, aver fatto l’esperienza dei suoi doni che ci sono stati abbondantemente elargiti; doni che non possiamo sotterrare, ma dell’uso dei quali dovremo un giorno rendere conto.

Amare il Signore significa essere profondamente consapevoli che in Lui abbiamo un padre amorevole, un padre che non impone nulla ma lascia liberi i propri figli nelle scelte che vogliono fare, fossero anche scelte di rottura e di allontanamento, ma un padre che è sempre disposto ad accoglierci a braccia aperte e donarci il suo perdono, come nella parabola del figliol prodigo (meglio definita “del padre misericordioso”).

Un Signore che, pur chiedendoci di rendere conto delle nostre azioni, saprà accoglierci fra le sue braccia, dopo questo scampolo di anni che è la nostra vita terrena.

Amare il Signore vuol dire sapere che in Lui vi è il nostro inizio e la nostra fine ed è grazie al gran dono che ci ha fatto in suo figlio Gesù Cristo che noi possiamo aspirare alla vita eterna, per la sua grazia e non certo per i nostri meriti.

Amare il Signore significa non relegarlo nell’alto dei cieli, in uno spazio siderale lontano da noi, ma mettersi in contatto con Lui mediante la regolare frequentazione della Parola e la preghiera, per rendere la Sua presenza una realtà della nostra vita.

Amare il Signore significa esercitare la nostra capacità di affidarci a Lui, a colui che, fra i grandi doni che ci ha fatto, ha mandato suo Figlio per riscattarci dal peccato e per illuminarci sulla strada della vita.

  1. Amare il prossimo

Se possiamo ignorare il Signore, facendo finta che non ci sia o contestandone l’esistenza, il nostro prossimo non possiamo ignorarlo. E’ qui, vicino a noi, nella vita quotidiana.

Il nostro prossimo è rappresentato da coloro che incrociamo nella vita, a qualsiasi titolo questo contatto avvenga. Il nostro prossimo non lo scegliamo: ci capita e basta. Può essere certo una persona che amiamo, magari con la quale vogliamo instaurare un rapporto duraturo, ma può essere anche una persona che entra nella nostra vita mediata da altre conoscenze o da occasioni del tutto inaspettate.

Il mio prossimo è colui che, con un’espressione che mi avete sentito dire più volte, incrocia la sua vita con la mia; e non importa per quanto tempo avremo un percorso comune, né importa se ci siamo scelti oppure se è stato il caso a farci incontrare.

Ma dirò di più: il mio prossimo non lo scelgo io e può essere perfino che non mi piaccia perché caratterialmente, culturalmente e magari religiosamente è lontano dal mio sentire. Eppure anche costui è mio fratello e a me, come credente, è dato il compito di essere comunque gentile, solidale, partecipe alle sue gioie e ai suoi dolori, SENZA ATTENDERMI NULLA IN CAMBIO.

Questo, badate bene, non è vuoto buonismo, ma è la profonda consapevolezza che tutti i doni che ho ricevuto, siano essi materiali, psicologici o spirituali, non sono una mia esclusiva proprietà, ma mi sono stati affidati dal Signore affinché io ne faccia buon uso e li condivida con gli altri.

In questa prospettiva la disponibilità ad entrare in relazione con l’altro, lasciandogli sempre la libertà e non cercando che lui faccia ciò che vorrei facesse, crea una rete di comunicazione affettiva, di solidarietà, di condivisione, grazie alla quale noi stessi diventiamo il prossimo degli altri.

Recentemente ad un amico che manifestava quasi imbarazzato una profonda gratitudine solo perché, attraverso una rete di amicizie con fratelli di chiesa di un’altra città, abbiamo potuto avvicinare e verificare la situazione di un anziano a lui caro, ma geograficamente lontano, ho risposto che per l’amore non è dovuta gratitudine, ma che la cosa importante è che ciascuno riesca a seminare amore gratuitamente, senza aspettarsi nulla in cambio.

Visto che lui è agnostico, non credo che abbia ben percepito cosa significhi per un credente l’espressione che troviamo in Mt 10:8 “gratuitamente avete ricevuto e gratuitamente date”.

Da ultimo va detto che amare il prossimo significa condividere ciò che abbiamo e ciò che siamo, non elemosinare le rimanenze affettive o pratiche.

  1. Amare se stessi

Nei versetti che abbiamo letto c’è una forte connotazione psicologica che non va sottovalutata: “Ama il tuo prossimo come te stesso”.

A prima vista sembra facile, quasi fosse scontato il fatto che noi amiamo noi stessi, ma se ci riflettiamo un pochino, comprendiamo che non è così. I testi di studio di psicologia e psicoanalisi sarebbero totalmente inutili se gli esseri umani non soffrissero di mancanza di accettazione nei propri confronti. Immagino che ciascuno di noi abbia lati del proprio essere che non riesce ad accettare, perché non conformi a modelli che ci siamo costruiti, o magari a “fantasmi” creati dalla nostra mente ai quali vorremmo uniformarci e, non riuscendoci, di conseguenza rimaniamo insoddisfatti per nostri aspetti caratteriali, psicologici o fisici che non ci piacciono.

La mancata accettazione di noi stessi porta a conseguenze negative molto pesanti, perché potremmo certo evitare l’incontro con persone che non ci piacciono, ma non possiamo evitare di vivere con noi stessi e allora può accadere che, per sopravvivenza, proiettiamo sugli altri la nostra mancata auto accettazione.

E’ scontato che possiamo dare all’altro solamente ciò che siamo, per cui è evidente che una persona che non abbia risolto i propri problemi di accettazione guardandosi nel profondo e facendo un percorso, talvolta doloroso, di consapevolezza, non potrà porsi nei confronti del prossimo in maniera autenticamente positiva.

Questo è l’aspetto dal punto di vista esistenziale, ma, da credenti, vi è un aspetto ben più importante nei confronti del quale non possiamo rifiutare la riflessione e le conseguenti scelte. La nostra vita, il nostro essere, ciò che siamo e ciò che possediamo sono DONI DI DIO e come tali vanno rispettati, coltivati, impiegati.

Noi siamo coloro che Dio ama. Ci ama con i nostri difetti, con le nostre intemperanze, perfino con le nostre infedeltà. Il nostro Signore ci ama anche con le nostre caratteristiche fisiche e il suo amore si spande su di noi a prescindere dalle nostre scelte di tipo sociale, politico, sessuale, etico, lavorativo, religioso, ecc.

Orbene, CHI SIAMO NOI per banalizzare un tale infinito amore? CHI SIAMO NOI per svalutare i doni che ci sono stati fatti? CHI SIAMO NOI per volere che gli altri facciano ciò che noi vogliamo, ben sapendo che spesso ciò che noi vogliamo è una proiezione verso l’esterno della nostra mancata accettazione di noi stessi o del bisogno che abbiamo di essere confermati nelle nostre certezze fasulle?

Se facciamo una riflessione di questo tipo vediamo che l’amore verso se stessi non è così scontato, perché AMORE per me stessa, come creatura di Dio, non è da confondere con EGOCENTRISMO e sopravvalutazione del mio ego.  L’amore per me stesso richiede che io mi guardi dentro, disponibile anche a soffrire per questo, e comprenda quali sono in me i grandi talenti che il Signore mi ha affidato e non corra al campo per sotterrarli, ma li metta a frutto nella condivisione con il mio prossimo.

E’ solo facendo questo percorso di accettazione che potrò più facilmente rifuggire da atteggiamenti che rovinano la vita: insoddisfazione, depressione, ira frequente, mancanza di volontà nel fare le scelte, mancanza di voglia di vivere con gli altri, incapacità ad esercitare l’empatia e facilità del dare giudizi sugli altri.

L’amore per se stessi porta arricchimento nella disponibilità e nell’amore per gli altri, per il prossimo, e causa riconoscenza profonda verso quel Dio in cui diciamo di credere.

 

Solo guardando e mantenendo saldi i tre pilastri dell’amore, senza privilegiare posizioni solo fideistiche, oppure realizzando unicamente azioni di solidarietà, o disconoscendo il dono di noi stessi, il cerchio dell’amore di cui abbiamo parlato all’inizio della nostra riflessione potrà rimanere saldamente in equilibrio, in un continuo scambio di energia positiva che si muove fra i tre punti che ci presenta il più grande comandamento, come ha detto Gesù nel passo di Matteo.

AMEN

Liviana Maggiore

Sermone: Segni e miracoli

Vorrei oggi raccontarvi di una mia amica dei tempi della scuola. Per me è una persona concreta e speciale ma mi pare che il suo atteggiamento nei confronti della fede sia un esempio di qualcosa che possiamo ritrovare in molte persone dei nostri tempi.

Questa mia amica ha poco a che fare con la chiesa e ancora di meno con Dio. E quando parliamo della fede le sento sempre di nuovo dire: “Se Dio volesse veramente che io creda, mi manderebbe un segno inequivocabile.” Un miracolo, un segno in modo chiaro. – Vi confesso che talvolta piacerebbe anche a me avere qualcosa di più concreto in mano che non una fede che talvolta sembra essere astratta. Certe volte vorrei essere stata una delle discepole di Gesù che potevano vedere e toccare e nel suo nome fare dei miracoli che portavano nuovamente persone a Gesù. A me basterebbe qualcosa di poco spettacolare, forse qualche guarigione o qualcosa simile. Un miracolo che basti per generare fede, per far vedere chiaramente che Gesù è il messia che tutti aspettano, il verso salvatore.

Ai tempi di Gesù erano in particolare gli scribi e i farisei a valutare questi segni, perché come custodi della religione era loro il compito di smascherare i ciarlatani. Loro erano responsabili di combattere l’eresia – e parlare nel nome di Dio senza avere il potere da parte di Dio è eresia. Per questo loro pretendono da Gesù un segno che mostri l’autorità divina.

Per me è molto comprensibile ciò che loro fanno. Se qualcuno entrasse qui da noi parlando nel nome di Dio, anch’io pretenderei un segno concreto o forse lo accompagnerei direttamente alla porta. Comunque Gesù si rifiuta di fare vedere dei segni e lo spiega con delle parole che non sono facilmente comprensibili.

Leggo dal vangelo di Matteo 12,38-42

38 Allora alcuni scribi e farisei presero a dirgli: «Maestro, noi vorremmo vederti fare un segno».  39 Ma egli rispose loro: «Questa generazione malvagia e adultera chiede un segno; e segno non le sarà dato, tranne il segno del profeta Giona.  40 Poiché, come Giona stette nel ventre del pesce tre giorni e tre notti, così il Figlio dell’uomo starà nel cuore della terra tre giorni e tre notti.  41 I Niniviti compariranno nel giudizio con questa generazione e la condanneranno, perché essi si ravvidero alla predicazione di Giona; ed ecco, qui c’è più che Giona!  42 La regina del mezzogiorno comparirà nel giudizio con questa generazione e la condannerà; perché ella venne dalle estremità della terra per udire la sapienza di Salomone; ed ecco, qui c’è più che Salomone!

Questi farisei e scribi danno voce al pensiero di tante persone che vorrebbero di pieno cuore vedere un segno, un miracolo, qualcosa che porta alla fede. Ci piacerebbe vedere dei segni grandi e potenti da parte di Dio.

Qualcuno mi chiede: perché Dio non può guarire la mia mamma che crede profondamente in lui? Perché non fa questo miracolo? Perché Dio non si immischia nei fenomeni naturali così che tutti possano vedere la sua potenza? Perché Dio non fa niente nel nostro mondo segnato da guerre e violenze e disuguaglianze sociali? Perché non dice una parola forte?

Ci sono tante persone che hanno il sogno di vedere chiaramente Dio e la sua volontà, persone che vorrebbero vedere delle prove evidenti dell’esistenza di Dio.

Però io conosco anche la mia amica della quale vi ho parlato e so come lei reagirebbe davanti ad un miracolo del genere. Sarebbe meravigliata, forse contenta o anche entusiasta, ma poi basta. Sono certa che non cambierebbe niente in sostanza, non importa quale miracolo Dio si possa far venire in mente.

Penso che sia proprio questo il motivo per il quale Gesù nega di fare vedere dei segni. Non esistono segni, attestati o prove perché in questo modo Gesù non vuole fare vedere la sua autorità divina. Lui non cerca una fede del genere che si basa soltanto sui segni eccezionali e anomali. Una fede del genere sarebbe al di più un Credere-che-sia-vero, una fede che afferma: “sì, Dio esiste veramente”, una fede domenicale che ha poche conseguenze per la vita quotidiana.

Gesù cerca altro. Lui cerca una vera relazione con i suoi discepoli, un legame vivo che coinvolge tutta la persona e non solo l’intelletto.

Quando qualcuno incontra Gesù per la prima volta, i segni possono essere importanti per superare il primo periodo del cammino nella fede. Vi racconto il mio personale miracolo che è successo tanti anni fa. Era ai tempi della scuola. Dovevo fare una verifica di matematica per la quale avevo studiato tanto e capito poco. Mi ricordo bene che prima di entrare in classe pregavo nel corridoio dicendo: “Gesù se tu esisti e se hai interesse alla mia vita, aiutami con questo compito!” Poi succedeva ciò che era da prevedere. Capivo poco di ciò che mi veniva chiesto, ho iniziato male e fatto un gran disastro. A quel punto accade qualcosa: il mio insegnante si alza, viene da me, si guarda il compito e mi fa vedere dov’era l’errore. Non è mai successo qualcosa del genere, né prima, né dopo. Questo era il mio miracolo. Il momento nel quale Gesù mi ha detto: Tu sei importante per me e i tuoi problemi sono importanti per me. – Oggi sorrido quando vi racconto questo episodio della mia adolescenza. Ma in quel momento è stato importante. È stato il mio punto di partenza, o diciamo meglio uno dei vari punti di partenza nella vita della fede.

Comunque posso sorridere oggi, perché la mia fede non è rimasta legata a questo miracolo, se lo vogliamo chiamare così. La mia fede è cresciuta come io sono cresciuta e oggi spero di non avere più bisogno di miracoli del genere. – Come una relazione tra due persone non può rimanere al punto in cui loro si dicono una volta nella vita un ‘Sì’, così anche la relazione tra noi e Gesù si evolve. L’amore vuol essere vissuto. Questo vale per l’amore tra due persone come per l’amore tra il credente e Dio. – Se parliamo di un matrimonio, è ovvio che debba fallire se dopo il giorno del matrimonio non succede più niente. Vale anche per la relazione con Dio che si fonda su un miracolo iniziale. Dev’esserci di più, sennò fallirà.

Ho pensato varie volte: se Dio potesse dare alla mia amica un bel segno, forse si sveglierebbe. E dopo penso: no, sarebbe nel primo momento la grande emozione, e poi rimarrebbe la domanda: che cosa vuol dire questo miracolo per la mia vita?

E poi mi dico: quanti segni dà Dio che non riusciamo a cogliere? Quanti segni ci deve ancora dare la natura prima che qualcuno capisca che c’è qualcosa che non va? Che cosa deve ancora succedere nella nostra società, prima che qualcuno si svegli? Quante guerre dobbiamo ancora combattere prima di capire che a Dio non piacciono?

Qualcuno vede ancora i segni di Dio? Sono abbastanza sicura che la mia amica sarebbe contenta, o forse avrebbe paura, sarebbe meravigliata e poi tornerebbe alla vita quotidiana. Per questo Gesù si rifiuta di fare il mago davanti ai farisei.

Però… dice Gesù e racconta due storie bibliche che i farisei e gli scribi conoscono bene. La prima è il racconto del profeta Giona che fugge davanti a Dio perché ha paura di predicare il giudizio di Dio ai Niniviti. Questa città era conosciuta per la sua incredulità. Il resto della storia la conosciamo: Giona finisce nel ventre di un pesce dopo che è stato gettato in mare durante la sua fuga, arriva comunque a Ninive e predica la fine entro 40 giorno se loro non si pentono e si convertono a Dio. E guarda, guarda, i Niniviti si convertivano dalla loro malvagità, e (Dio) si pentì del male che aveva minacciato di far loro; e non lo fece. (Giona 3,10) Questo comportamento non piace minimamente al profeta che esclama: “Deh, o Eterno, non era forse questo che dicevo quand’ero ancora nel mio paese? (…) Sapevo che sei un Dio misericordioso e pieno di compassione lento all’ira e di gran benignità, e che ti penti del male minacciato. (Giona 4,2)

Questo è il segno di Giona del quale parla Gesù. Lì dove i credenti si fanno muovere dalla parola di Dio. Dove qualcuno lascia la vecchia via, lì nasce una nuova e viva relazione tra Dio e il credente. Dove qualcuno si pente c’è spazio per la misericordia e per Dio, per la sua compassione e grande benignità.

Ninive è passato. Gesù ci chiede che cosa vogliamo noi lasciarci dietro. Giona annuncia ai Niniviti 40 giorni per il cambiamento. Questo tempo l’abbiamo anche noi. Sono i 40 giorni della Quaresima. 40 giorni per chiedere come sta la nostra relazione con Dio. 40 giorni per cambiamenti, per nuove vie, per esperimenti insieme a Dio.

Il secondo segno che ricorda Gesù è il racconto della regina del Mezzogiorno, la regina di Saba che ci viene presentata nell’Antico Testamento. Lei lascia il suo trono – teniamo presente che è una regina gentile – e affronta il viaggio attraverso il deserto per incontrare il re Salomone della cui saggezza ha sentito parlare. Lascia il trono, affronta le vie sabbiose del deserto per farsi arricchire dalla saggezza di Salomone. È talmente grande il suo desiderio di saggezza che riesce a lasciare dietro di sé tutto ciò che conosce e nel momento in cui incontra Salomone, incontra Dio.

Questo è molto coraggioso: dimenticare il proprio stato sociale, il possesso, il prestigio ed incamminarsi. Questo è un segno di una relazione viva con Dio. Questo desiderio che porta ad attraversare deserti, a lasciare correre le sicurezze, a lasciarsi sconvolgere le idee per incontrare Dio. Questo è il vero miracolo.

Gli abitanti di Ninive e la regina del Mezzogiorno: loro incontrano Dio non in un miracolo, ma piuttosto sulla via. Una via che porta verso la vita. Lì Dio è presente. Lì gli uomini che hanno paura della fine incontrano la misericordia, lì il desiderio trova la saggezza.

Gesù paragona la relazione tra Dio e il suo popolo con un matrimonio. C’è una promessa di fedeltà tra Dio e il popolo d’Israele. Però il popolo ha lasciato la relazione. È una generazione malvagia e adultera (che) chiede un segno.

L’ho già detto all’inizio. Anche in un matrimonio il giorno più importante non è quel primo giorno della festa, ma la somma di tutti i giorni che seguono. Una relazione non conosce solo livelli massimi, ma anche quelli minimi. Per questo non è un unico giorno che può dare stabilità, né a un matrimonio tra due coniugi, né alla relazione tra Dio e i suoi discepoli. È la fedeltà che rende invece stabile, anche in tempi di deserto e anche quando i segni e miracoli sono passati da molto tempo.

I credenti non hanno fondato la loro fede su dei miracoli ma sulla relazione con Dio che sperimenta solo chi si fa muovere e plasmare da quel Dio.

Così Gesù gira la domanda riguardo ai segni e ci chiede della nostra fede. Su che cosa si fonda la tua fede? È fondata su un grande miracolo che ti lascia senza parole davanti a Dio o su un incontro tramite il pentimento e il desiderio della sapienza e misericordia divina. Dio non vuol essere ridotto a un segno da ammirare, vuol essere vivo e intraprendere insieme a noi il cammino verso la vita.

Amen

Ulrike Jourdan