Sermone: PASQUA IN AGOSTO?

Giovanni 6,55-65

Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue è vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me, e io in lui. Come il Padre vivente mi ha mandato e io vivo a motivo del Padre, cosí chi mi mangia vivrà anch’egli a motivo di me. Questo è il pane che è disceso dal cielo; non come quello che i padri mangiarono e morirono; chi mangia di questo pane vivrà in eterno». Queste cose disse Gesú, insegnando nella sinagoga di Capernaum. Perciò molti dei suoi discepoli, dopo aver udito, dissero: «Questo parlare è duro; chi può ascoltarlo?» Gesú, sapendo dentro di sé che i suoi discepoli mormoravano di ciò, disse loro: «Questo vi scandalizza? E che sarebbe se vedeste il Figlio dell’uomo ascendere dov’era prima? È lo Spirito che vivifica; la carne non è di alcuna utilità; le parole che vi ho dette sono spirito e vita. Ma tra di voi ci sono alcuni che non credono». Gesú sapeva infatti fin dal principio chi erano quelli che non credevano, e chi era colui che lo avrebbe tradito. E diceva: «Per questo vi ho detto che nessuno può venire a me, se non gli è dato dal Padre».

Il testo biblico di quest’oggi può apparire strano per questo periodo dell’anno. In altri lezionari, appartiene a quei cicli di testi che accompagnano la chiesa nel cammino verso la Pasqua. È vero che ogni domenica ricorda alle chiese cristiane il giorno della risurrezione del Signore, ma una “pasqua” nel bel mezzo dell’estate è quanto meno anomala per il ritmo dei nostri calendari! Eppure, proprio questo testo ci offre una chiara presentazione di ciò che la Pasqua significa per la nostra fede. Lo fa con termini che per il nostro orecchio moderno – che è anche l’orecchio di persone che hanno già udito l’annuncio dell’Evangelo e lo hanno fatto proprio – suonano strani; tuttavia, facciamo attenzione, perché queste parole non suonano strane solamente a noi. Gesù, l’abbiamo sentito, fa un riferimento al mangiare la sua carne e al bere il suo sangue: è chiaro che siamo portati a pensare alla condivisione del pane e del vino nella Cena del Signore, ma, al tempo stesso, queste parole hanno in sé un qualcosa di brutale, qualcosa che ci colpisce con la sua violenta concretezza. Questa medesima percezione ci accomuna, in qualche misura, agli ascoltatori nella sinagoga di Capernaum. Pensateci bene: quale schiaffo per la religiosità ebraica il sentir parlare di bere del sangue! Tra i divieti fondamentali della legge ebraica, che regola e regolava l’alimentazione degli Ebrei osservanti, vi è proprio il divieto di consumare il sangue dell’animale ucciso; questo perché nel sangue si ritiene che sia contenuta la vitalità stessa dell’animale e quindi non ci si può “appropriare” della vita di un’altra creatura. L’evangelista Giovanni precisa che queste parole sono state pronunciate in un luogo in cui l’attenzione per ciò che Gesù avrebbe detto era garantita: tanto maggiore sarà quindi stato lo sconcerto dei presenti.

Ora, il nostro compito non è quello di fermarci allo sconcerto degli ascoltatori di Capernaum o di immedesimarci in esso. Possiamo piuttosto provare ad ascoltare con maggior attenzione la spiegazione che Cristo stesso offre delle sue parole, per comprendere meglio quale sia la sua intenzione. Che cosa mangiare la carne e bere il sangue significhi, viene spiegato ancora nella prima parte del nostro testo. Gesù usa l’espressione “dimorare in me”, rimanere in lui si potrebbe anche dire. Mangiare la carne e bere il sangue di Cristo significa essere partecipi della sua vita, del suo modo di vivere; condividere in profondità la nostra esistenza con la sua, vivere in una profonda comunione, il che non significa limitarsi a sfiorare ciò che sta alla base della nostra vita, ma vedere rinnovata e addirittura cambiata questa base. Si potrebbe dire che questa dimensione del dimorare in Cristo ci invita ad una comunione spirituale con lui, ma è necessario precisare questa parola “spirituale”. Una comunione spirituale non è qualcosa che non si intreccia con la nostra vita concreta; se comprendiamo in questo modo la comunione con Cristo allora la fiducia che riponiamo in lui, la fede che ci guida in questo rapporto non sarà altro che una caricatura, qualcosa che diciamo di considerare importante, ma che in realtà mettiamo sempre in disparte quando si tratta di prendere delle decisioni importanti per la nostra esistenza. In questo senso, l’immagine forte usata da Gesù (il verbo usato per dire mangiare significa letteralmente “masticare”) ci riporta a tutta la concretezza della comunione spirituale con Cristo: quella medesima concretezza che noi abbiamo in mente quando pensiamo all’affetto o all’amore che ci lega ad una persona. Una concretezza di questa comunione spirituale che proprio e anche la celebrazione della Cena del Signore intende confermare: nella condivisione del pane e del vino la comunità cristiana si confronta con il fatto che in questo segno concreto, c’è un riflesso di quella comunione profonda che promette e dona vita in Cristo. Chi mangia di questo pane, chi dimora in Cristo, chi vive spiritualmente con lui, vive in eterno.

Qual è la reazione di fronte ad un discorso di questo tipo? Come possono reagire delle persone di fronte ad un discorso che non le invita soltanto a nutrirsi di qualche bel pensiero, ma esprime con tale forza una pretesa concreta sulla loro vita? Come si reagisce quando qualcuno ti spiega che l’impegno che ti è richiesto non è solo una volta ogni tanto ed esclusi, ovviamente, tutti i giorni festivi? Si dice spesso che le persone nella nostra società sono allergiche di fronte alle proposte che sembrano richiedere un impegno continuativo. In questo, mi pare di poter dire, possiamo individuare una seconda somiglianza con la reazione degli ascoltatori di Gesù. Che cosa rispondono quanti l’ascoltano nella sinagoga. “Questo parlare è duro; chi può ascoltarlo?”. È opportuno dividere questa frasetta in due momenti: “Questo parlare è duro” non significa che sia duro da capire. A Capernaum hanno capito benissimo quanto Gesù diceva e chiedeva. Questo parlare è duro da ascoltare e quindi, “chi può ascoltarlo?”. In questa espressione il verbo ascoltare significa anche ubbidire. Chi può ubbidire a quanto Gesù dice, chi può mangiare questa carne che è difficile da digerire, chi può dimorare in Cristo vivendo quella comunione che impegna tutta la vita? Credo che queste domande interpellino anche la nostra coscienza di credenti.

Ciò che suscita queste domande che ci rendono inquieti è la parola esigente che Gesù ci rivolge; una parola che come viene detto poco dopo è spirito e vita, cioè dona vita in abbondanza, dona questa comunione vivente con Cristo e con il Padre. Ma è anche una parola che chiede ubbidienza nella concretezza della vita. Quando penso a questa dimensione esigente della Parola che ci viene rivolta, di questa parola che vivifica, mi sembra tanto più ingiusto il giudizio che abbastanza spesso si sente da parte di persone che rimangono al di fuori della chiesa nei confronti di quanti vivono la vita di una comunità cristiana. Spesso ci sono persone che partono dal presupposto che il vivere come cristiani sia fondamentalmente un atteggiamento, che non necessita di tante parole. Forse questo modo di pensare deriva da delusioni che hanno vissuto con dei cristiani che si riempivano solamente la bocca dei buoni propositi della loro fede. Eppure chi pensa che l’essere cristiani sia solo un modo di comportarsi, banalizza molto questa parola esigente e concreta che cambia la vita di chi la incontra, perché crea quella comunione vivente con Gesù Cristo, la quale non si può esprimere solamente in una serie di “buoni comportamenti”. Un pastore racconta di aver fatto una volta una visita in una famiglia di persone che non frequentavano la chiesa. Sentendosi in obbligo di giustificare questa assenza costante, un membro di quella famiglia disse: «Sa, pastore, noi non veniamo in chiesa, ma siamo comunque delle brave persone: quelli che sono tutte le domeniche seduti allo stesso posto non sono necessariamente migliori di noi!». Il pastore ha saggiamente risposto: «Avete ragione, quelli che vengono in chiesa la domenica non sono automaticamente migliori di voi per il fatto di venire in chiesa. Ma quelli che vengono in chiesa e ascoltano, quelli sì che lo sono!». L’ascolto – che in questo caso significa anche ubbidienza – della parola esigente di Cristo ci rende migliori, sorelle e fratelli, anche quando questo non si può tradurre in un comportamento da mostrare con un po’ di orgoglio. E la parte migliore che ci viene offerta è la maggiore profondità di comunione con Cristo.

Ecco, dunque, nel bel mezzo dell’estate, ritorniamo verso la Pasqua, ricordandoci che il messaggio centrale della nostra fede ci parla di vita nuova, non immaginata o semplicemente sognata da qualcuno. È una vita piena e fatta di legami concreti, innanzitutto con Gesù Cristo, che si rivolge a noi per offrirci ciò che niente e nessuno possono strapparci. E la Parola che ci annuncia questo, è anche capace di creare questa realtà. Questo ha insegnato Gesù a Capernaum e insegna anche a noi oggi.

Amen.

Pastore William Jourdan

 

 

 

 

 

 

Matteo 13, 1-9.18-23

In quel giorno Gesù, uscito di casa, si mise a sedere presso il mare; e una grande folla si radunò intorno a lui; cosicché egli, salito su una barca, vi sedette; e tutta la folla stava sulla riva.  Egli insegnò loro molte cose in parabole, dicendo: «Il seminatore uscì a seminare. Mentre seminava, una parte del seme cadde lungo la strada; gli uccelli vennero e la mangiarono. Un’altra cadde in luoghi rocciosi dove non aveva molta terra; e subito spuntò, perché non aveva terreno profondo; ma, levatosi il sole, fu bruciata; e, non avendo radice, inaridì. Un’altra cadde tra le spine; e le spine crebbero e la soffocarono. Un’altra cadde nella buona terra e portò frutto, dando il cento, il sessanta, il trenta per uno. Chi ha orecchi oda».

«Voi dunque ascoltate che cosa significhi la parabola del seminatore! Tutte le volte che uno ode la parola del regno e non la comprende, viene il maligno e porta via quello che è stato seminato nel cuore di lui: questi è colui che ha ricevuto il seme lungo la strada.  Quello che ha ricevuto il seme in luoghi rocciosi, è colui che ode la parola e subito la riceve con gioia, però non ha radice in sé ed è di corta durata; e quando giunge la tribolazione o persecuzione a motivo della parola, è subito sviato. Quello che ha ricevuto il seme tra le spine è colui che ode la parola; poi gli impegni mondani e l’inganno delle ricchezze soffocano la parola che rimane infruttuosa. Ma quello che ha ricevuto il seme in terra buona è colui che ode la parola e la comprende; egli porta del frutto e, così, l’uno rende il cento, l’altro il sessanta e l’altro il trenta».

 

Care sorelle e cari fratelli,

eccoci di fronte a una famosa parabola, che molti di noi ricordano sin dalla Scuola Domenicale!

Ascoltandola ci torna subito alla mente il famoso ritratto di Vincent Van Gogh, il seminatore al tramonto. Un’immagine oggi non abituale per noi; oggi fatichiamo a vedere anche i mezzi meccanici intenti alla semina, e la semina manuale è un’attività che avviene solo negli orti.

Era un’immagine abituale, invece, per le folle che stavano ascoltando Gesù: secondo le usanze agricole palestinesi la semina avveniva prima che il terreno fertile venisse arato. Il contadino spargeva il seme con abbondanza per ogni dove, in un modo che certamente ci stupisce: così – dice Gesù – una parte del seme cade lungo la strada, dove viene divorata dagli uccelli; un’altra parte cade tra i sassi e subito germoglia ma poi, allo spuntare del sole, secca per mancanza di radici; un’altra parte cade tra le spine, che ben presto la soffocano; un’altra parte cade infine sulla terra buona e porta frutto, dove il cento, dove il sessanta, dove il trenta.

Ci sentiamo interrogati in molte maniere da questa parabola: ci interroga sul nostro essere testimoni della Parola, sulla nostra capacità di superare la delusione di una testimonianza apparentemente inefficace, sulla nostra capacità di porre ogni nostra fiducia sulla Parola.

Ci interroga anche sulla nostra capacità di ricevere la Parola.

Su questo vorrei porre la mia attenzione oggi, e vorrei farvi una domanda: quale terreno vi sentite di essere oggi? Quale terreno pensate di essere, voi, oggi?

Ecco, io credo che i quattro terreni di cui parla Gesù siano tutti rappresentati, di volta in volta, nel nostro unico cuore, siano quattro possibili risposte alla Parola che ciascuno, ciascuna di noi ha sperimentato nella propria vita!

Non siamo un terreno lastricato, un terreno sabbioso, o un terreno coperto di rovi; eppure ciascuno, ciascuna di noi ha sperimentato la difficoltà di rispondere pienamente alla Parola di Dio.

Quante volte ascoltiamo la Parola di Dio, ma è come non l’avessimo ascoltata; incontra in noi una sorta di impermeabilità. Succede quando la misuriamo sui nostri pensieri: se va bene col nostro pensiero l’accettiamo, se va male la eliminiamo, la accantoniamo; succede quando ascoltiamo la Parola, però ci diciamo “Siamo concreti, la vita è un’altra cosa”, come se la Parola di Dio non c’entrasse con la vita. Questo è perfettamente umano, è normale, eppure è diabolico: “viene il maligno e porta via quello che è stato seminato nel cuore di lui: questi è colui che ha ricevuto il seme lungo la strada”.

Altre volte, invece, accogliamo la Parola con gioia, con entusiasmo, almeno sul momento, poi di fronte alle difficoltà, ripieghiamo. Di fronte alle preoccupazioni del mondo, di cosa vivremo, di cosa mangeremo, di cosa vestiremo, cadiamo. La difficoltà vera è che la Parola entri nella quotidianità della vita, che diventi quell’amore vincente che poi norma l’esistenza quotidiana. La difficoltà vera è che riuscire a rispendere alla Parola con la nostra vita; saper vivere secondo la Parola, anche, e soprattutto, quando questo significa fare scelte difficili, scelte che non seguono i valori del mondo. Perché le preoccupazioni del mondo sono in tutti e tutte noi. La mondanità è dentro di noi, anche quella brama di avere, di potere, di apparire, quelle garanzie, quelle sicurezze che in fondo sostituiscono un po’ Dio.

Occorre interiorizzare la Parola, «ruminarla» con attenzione; occorre perseverare nell’ascolto: è facile accogliere la Parola con gioia per breve tempo, lasciare che essa porti frutto per un attimo, come il seme tra i sassi; ma così si è persone «di un momento», prive di radici, incapaci di fare fronte alla prova del tempo e alle tribolazioni che un ascolto autentico comporta. Occorre lottare contro gli idoli mondani che ci seducono; eppure in questo cammino, che sicuramente sarà fatto di cadute, di strade sbagliate, di momenti in cui ci fermiamo, su una cosa possiamo contare, su una cosa possiamo fare affidamento: su un seminatore che sparge il suo seme su ogni terreno, che non calcola quanto il terreno è produttivo, e che torna a seminare di nuovo, e di nuovo ancora.

Il nostro Signore è un Dio che ci ha amati e amate sino al punto di dare il suo unico figlio per la nostra salvezza; è un Dio che ci rialza ad ogni nostra caduta, che ci viene a cercare quando ci smarriamo.

Allora credo che la parabola del seminatore più che distinguere i veri credenti dagli increduli, coloro che perseverano nella fede rispetto a quanti accolgono la Parola in maniera superficiale, vuol farci comprendere che anche nelle avversità della vita, anche quando la terra sembra essere oscurata dal male, non bisogna temere: la parola di Dio farà il suo corso, perché “Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza aver annaffiato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, affinché dia seme al seminatore e pane da mangiare, così è della mia parola, uscita dalla mia bocca: essa non torna a me a vuoto, senza aver compiuto ciò che io voglio e condotto a buon fine ciò per cui l’ho mandata” (Isaia 55, 10-11).

Amen

Maria Paola Gonano

Sermone: IL SEMINATORE

Matteo 13, 1-9.18-23

In quel giorno Gesù, uscito di casa, si mise a sedere presso il mare; e una grande folla si radunò intorno a lui; cosicché egli, salito su una barca, vi sedette; e tutta la folla stava sulla riva.  Egli insegnò loro molte cose in parabole, dicendo: «Il seminatore uscì a seminare. Mentre seminava, una parte del seme cadde lungo la strada; gli uccelli vennero e la mangiarono. Un’altra cadde in luoghi rocciosi dove non aveva molta terra; e subito spuntò, perché non aveva terreno profondo; ma, levatosi il sole, fu bruciata; e, non avendo radice, inaridì. Un’altra cadde tra le spine; e le spine crebbero e la soffocarono. Un’altra cadde nella buona terra e portò frutto, dando il cento, il sessanta, il trenta per uno. Chi ha orecchi oda».

«Voi dunque ascoltate che cosa significhi la parabola del seminatore! Tutte le volte che uno ode la parola del regno e non la comprende, viene il maligno e porta via quello che è stato seminato nel cuore di lui: questi è colui che ha ricevuto il seme lungo la strada.  Quello che ha ricevuto il seme in luoghi rocciosi, è colui che ode la parola e subito la riceve con gioia, però non ha radice in sé ed è di corta durata; e quando giunge la tribolazione o persecuzione a motivo della parola, è subito sviato. Quello che ha ricevuto il seme tra le spine è colui che ode la parola; poi gli impegni mondani e l’inganno delle ricchezze soffocano la parola che rimane infruttuosa. Ma quello che ha ricevuto il seme in terra buona è colui che ode la parola e la comprende; egli porta del frutto e, così, l’uno rende il cento, l’altro il sessanta e l’altro il trenta».

Care sorelle e cari fratelli,

eccoci di fronte a una famosa parabola, che molti di noi ricordano sin dalla Scuola Domenicale!

Ascoltandola ci torna subito alla mente il famoso ritratto di Vincent Van Gogh, il seminatore al tramonto. Un’immagine oggi non abituale per noi; oggi fatichiamo a vedere anche i mezzi meccanici intenti alla semina, e la semina manuale è un’attività che avviene solo negli orti.

Era un’immagine abituale, invece, per le folle che stavano ascoltando Gesù: secondo le usanze agricole palestinesi la semina avveniva prima che il terreno fertile venisse arato. Il contadino spargeva il seme con abbondanza per ogni dove, in un modo che certamente ci stupisce: così – dice Gesù – una parte del seme cade lungo la strada, dove viene divorata dagli uccelli; un’altra parte cade tra i sassi e subito germoglia ma poi, allo spuntare del sole, secca per mancanza di radici; un’altra parte cade tra le spine, che ben presto la soffocano; un’altra parte cade infine sulla terra buona e porta frutto, dove il cento, dove il sessanta, dove il trenta.

Ci sentiamo interrogati in molte maniere da questa parabola: ci interroga sul nostro essere testimoni della Parola, sulla nostra capacità di superare la delusione di una testimonianza apparentemente inefficace, sulla nostra capacità di porre ogni nostra fiducia sulla Parola.

Ci interroga anche sulla nostra capacità di ricevere la Parola.

Su questo vorrei porre la mia attenzione oggi, e vorrei farvi una domanda: quale terreno vi sentite di essere oggi? Quale terreno pensate di essere, voi, oggi?

Ecco, io credo che i quattro terreni di cui parla Gesù siano tutti rappresentati, di volta in volta, nel nostro unico cuore, siano quattro possibili risposte alla Parola che ciascuno, ciascuna di noi ha sperimentato nella propria vita!

Non siamo un terreno lastricato, un terreno sabbioso, o un terreno coperto di rovi; eppure ciascuno, ciascuna di noi ha sperimentato la difficoltà di rispondere pienamente alla Parola di Dio.

Quante volte ascoltiamo la Parola di Dio, ma è come non l’avessimo ascoltata; incontra in noi una sorta di impermeabilità. Succede quando la misuriamo sui nostri pensieri: se va bene col nostro pensiero l’accettiamo, se va male la eliminiamo, la accantoniamo; succede quando ascoltiamo la Parola, però ci diciamo “Siamo concreti, la vita è un’altra cosa”, come se la Parola di Dio non c’entrasse con la vita. Questo è perfettamente umano, è normale, eppure è diabolico: “viene il maligno e porta via quello che è stato seminato nel cuore di lui: questi è colui che ha ricevuto il seme lungo la strada”.

Altre volte, invece, accogliamo la Parola con gioia, con entusiasmo, almeno sul momento, poi di fronte alle difficoltà, ripieghiamo. Di fronte alle preoccupazioni del mondo, di cosa vivremo, di cosa mangeremo, di cosa vestiremo, cadiamo. La difficoltà vera è che la Parola entri nella quotidianità della vita, che diventi quell’amore vincente che poi norma l’esistenza quotidiana. La difficoltà vera è che riuscire a rispendere alla Parola con la nostra vita; saper vivere secondo la Parola, anche, e soprattutto, quando questo significa fare scelte difficili, scelte che non seguono i valori del mondo. Perché le preoccupazioni del mondo sono in tutti e tutte noi. La mondanità è dentro di noi, anche quella brama di avere, di potere, di apparire, quelle garanzie, quelle sicurezze che in fondo sostituiscono un po’ Dio.

Occorre interiorizzare la Parola, «ruminarla» con attenzione; occorre perseverare nell’ascolto: è facile accogliere la Parola con gioia per breve tempo, lasciare che essa porti frutto per un attimo, come il seme tra i sassi; ma così si è persone «di un momento», prive di radici, incapaci di fare fronte alla prova del tempo e alle tribolazioni che un ascolto autentico comporta. Occorre lottare contro gli idoli mondani che ci seducono; eppure in questo cammino, che sicuramente sarà fatto di cadute, di strade sbagliate, di momenti in cui ci fermiamo, su una cosa possiamo contare, su una cosa possiamo fare affidamento: su un seminatore che sparge il suo seme su ogni terreno, che non calcola quanto il terreno è produttivo, e che torna a seminare di nuovo, e di nuovo ancora.

Il nostro Signore è un Dio che ci ha amati e amate sino al punto di dare il suo unico figlio per la nostra salvezza; è un Dio che ci rialza ad ogni nostra caduta, che ci viene a cercare quando ci smarriamo.

Allora credo che la parabola del seminatore più che distinguere i veri credenti dagli increduli, coloro che perseverano nella fede rispetto a quanti accolgono la Parola in maniera superficiale, vuol farci comprendere che anche nelle avversità della vita, anche quando la terra sembra essere oscurata dal male, non bisogna temere: la parola di Dio farà il suo corso, perché “Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza aver annaffiato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, affinché dia seme al seminatore e pane da mangiare, così è della mia parola, uscita dalla mia bocca: essa non torna a me a vuoto, senza aver compiuto ciò che io voglio e condotto a buon fine ciò per cui l’ho mandata” (Isaia 55, 10-11).

Amen

Maria Paola Gonano

 

 

 

 

 

 

Di solito siamo abituati a non discutere questioni di famiglia in pubblico. La famiglia è famiglia e ciò che facciamo a casa nostra non deve interessare gli altri. E, se posso essere sincera, proprio qui in Veneto ho l’impressione che questa caricatura della famiglia abbia qualcosa di vero. Incontro tante famiglie con delle storie particolari che però non vengono raccontate subito. Serve parecchio tempo prima che si permetta di guardare dentro alla famiglia.
La Bibbia è piena di racconti di famiglie. Inizia con Adamo ed Eva che senz’altro non avevano solo momenti belli con i loro due figli Caino e Abele. Penso a Abramo e Sara, le storie dei re di Israele e Giuda fino al racconto della famiglia di Gesù. Sono racconti che conosciamo e dai quali possiamo imparare, possiamo prenderli come esempio – talvolta anche come esempio da non copiare.
Vorrei riflettere oggi con voi su una chiesa che si percepisce come famiglia. Anche loro sono una famiglia come la maggior parte delle famiglie: con tanti pregi ma anche con dei conflitti interni. In questa famiglia-chiesa si trovano persone che vivono la loro fede con grande libertà e altre persone che sono più legate a segni e tradizioni. Questa è una situazione assolutamente normale per ogni comunità, anzi, è il segno che c’è vita in questa chiesa perché solo in una chiesa morta non c’è bisogno di litigare.
È proprio nel corso di uno di questi litigi Paolo scrive il testo della nostra predicazione di oggi. Leggo dalla lettera ai Romani capitolo 14,10-13
10 Ma tu, perché giudichi tuo fratello? E anche tu, perché disprezzi tuo fratello? Poiché tutti compariremo davanti al tribunale di Dio; 11 infatti sta scritto: «Come è vero che vivo», dice il Signore, «ogni ginocchio si piegherà davanti a me, e ogni lingua darà gloria a Dio». 12 Quindi ciascuno di noi renderà conto di sé stesso a Dio. 13 Smettiamo dunque di giudicarci gli uni gli altri; decidetevi piuttosto a non porre inciampo sulla via del fratello, né a essere per lui un’occasione di caduta.
Nella chiesa di Roma hanno litigato a causa delle loro abitudini alimentari. È un tema tipico. Talvolta penso: se riuscissimo a discutere con tanta enfasi su temi biblici quanto lo facciamo sul menu dei nostri pranzi, saremmo una comunità perfetta.
Il cibo è importante per noi oggi come per la chiesa di Roma all’epoca di Paolo. C’erano tra i membri di chiesa quelli che mangiavano un po’ di tutto e altri che escludevano ogni carne.
Vi ripeto, anche oggi da noi ci sono quelli che non possono immaginarsi un pranzo senza un bicchiere di vino e ci sono quelli che sostengono che l’alcool non dovrebbe entrare in chiesa. Ci sono anche tra di noi quelli che vanno volentieri la sera a divertirsi alle feste e in discoteca e ci sono quelli che pensano che una vita evangelica dovrebbe essere più sobria. Ci sono anche tra di noi quelli che pensano che in una chiesa riformata si debba cantare al massimo ciò che è contenuto nel nostro innario e altri che non ne possono più sentire gli inni vecchi e vorrebbero vivacizzare i nostri culti.
Sono opinioni diverse e tutte hanno una ragione. Spesso riusciamo a trovare un equilibrio o anche a chiudere gli occhi e fare finta di niente davanti al comportamento degli altri; però spesso succede, proprio a tavola, mangiando insieme, che vengano fuori dei conflitti. A Roma succedeva che a ogni pranzo, sia in comunità, sia ai pranzi tra amici, si discutesse nuovamente se si debba mangiare solo verdura o anche la carne.
Oggi si propongono varie ipotesi sul perché questo gruppo della chiesa abbia rifiutato di mangiare carne. Non lo sappiamo con certezza. Forse erano ex-ebrei e non volevano mangiare solo carne kosher. Forse avevano paura di mangiare la carne degli olocausti immolata alle divinità. La carne che rimaneva dopo questi riti si poteva comprare a un prezzo molto conveniente. C’è anche l’ipotesi che questo gruppo di vegetariani volesse attenersi ai comandamenti che Dio aveva dato ancora ad Adamo ed Eva in paradiso quando offriva una dieta solo vegetariana. Non sappiamo oggi quale fosse la motivazione di fondo per questo gruppo di persone a non mangiare carne, però senz’altro era una decisione religiosa.
E ora Paolo scrive nella sua lettera alla chiesa di Roma: Tu, perché disprezzi tuo fratello? Poiché tutti compariremo davanti al tribunale di Dio. Paolo assume due categorie. I vegetariani li chiama deboli, gli altri forti nella fede. – Devo dirvi che non mi piace tanto questa distinzione che non mette le due posizioni su uno stesso livello, però è proprio questo che Paolo non vuole. Egli dice che non dobbiamo giudicare, non dobbiamo metterci gli uni sopra gli altri ma dovremmo guardare soprattutto noi stessi. È troppo semplice parlare e giudicare ciò che fanno gli altri. È anche molto più divertente raccontare pettegolezzi che non osservare se stesso. E in un gruppo funziona così bene il puntare il dito su altri che sono strani dal nostro punto di vista. – Paolo dice: smettetela! Guardate voi stessi e non gli altri. Una volta starete tutti quanti davanti al tribunale di Dio e dovrete giustificarvi. A quel punto non dovrò giustificare gli altri, ma solo me stesso. In quel momento non interesserà che cosa dicono gli altri di me o che cosa io penso di altri, ma solo ciò che Dio vede in me. Per questo dice Paolo: occupatevi di voi stessi che vi dà già abbastanza da fare.
Questo è un aspetto. Però esiste anche l’altro aspetto, ed è che in una comunità di sorelle e fratelli abbiamo anche una certa responsabilità per gli altri. Non abbiamo nessun diritto di giudicare gli altri, però abbiamo il dovere di parlare con i fratelli e le sorelle se loro vivono la loro vita in una maniera che a noi sembra contro la volontà di Dio. In un certo senso abbiamo una responsabilità per la comunità tutta, però l’ultima parola l’ha solo Dio.
Cogliete che è molto difficile trovare il giusto equilibrio tra il pensiero: “non m’interessa che cosa fa l’altro, è roba sua” e l’atteggiamento di avere sempre qualcosa da ridire su tutti. Però penso che sia proprio il nostro compito in una chiesa di fratelli e sorelle di trovare questo equilibrio così difficile.
Talvolta sento dire: ho portato i miei figli in chiesa quand’erano piccoli, ora devono decidere loro cosa fare. O qualcuno dice: i miei amici sono credenti, però preferiscono vivere la loro fede da soli senza andare in chiesa. O sento dire qualcuno con convinzione: sono evangelico e membro di chiesa. Però vedo questa persona solo a Natale tra di noi e mi pongo delle domande.
Qualcuno direbbe: dobbiamo tacere. Non ci si può intromettere nella vita di persone adulte che devono fare loro le proprie scelte. Sì, in un certo senso sono d’accordo. Però voglio anche ricordarci con Paolo di che cosa stiamo parlando. Qui si tratta di vita eterna. E seguendo il pensiero di Paolo dobbiamo essere consapevoli che con questa frase secondo la quale ognuno deve fare le proprie scelte, noi esprimiamo una condanna sopra quelle persone che ci sono care.
Tutte le volte in cui diciamo: mia figlia, mio marito, la mia amica è così, non è religioso, non ha bisogno della chiesa, per lei, per lui la fede non ha importanza. Tutte queste frasi esprimono una condanna. Paolo dice: Poiché tutti compariremo davanti al tribunale di Dio. E ciascuno di noi renderà conto di sé stesso a Dio.
Vorrei tornare ancora una volta sul tema dell’equilibrio, perché so di certe persone tra di noi che soffrono perché i loro cari non hanno mai trovato una relazione con Dio o si sono allontanati da lui. So che ci sono tra di noi dei fratelli e delle sorelle che pregano da decenni per i loro figli, mariti e moglie e testimoniano la propria fede con parole e azioni.
Non riesco a darvi una risposta alla domanda perché ci sono delle persone che non vogliono accettare l’amore di Dio. Dio stesso sa che cosa gli dirà in quel giorno quando compariranno davanti al suo trono. Non è il nostro compito farci dei pensieri su che cosa sarà in quel giorno. Noi siamo semplicemente sollecitati a testimoniare continuamente la nostra fede.
Torniamo ancora una volta al tema della libertà che qualcuno tra i fratelli si prende maggiormente e altri invece preferiscono autolimitarsi di più. L’evangelo rende liberi. Come cristiani non siamo determinati dall’esteriorità, questo dev’essere chiaro. Però sappiamo anche che non è facile vivere questa libertà. È molto più semplice fare ciò che qualcun altro mi dice che non decidere tutto in proprio. La libertà può turbare e disorientarmi. Per questo scrive Paolo: Smettiamo dunque di giudicarci gli uni gli altri; decidetevi piuttosto a non porre inciampo sulla via del fratello, né a essere per lui un’occasione di caduta.
Paolo ci invita a vedere i fratelli e le sorelle con amore. In maniera molto pratica dice così alla chiesa di Roma: se volete mangiare insieme lasciate via la carne, perché può dare fastidio a qualcuno. È solo un gesto d’amore, e chi vuole mangi carne per cena.
Qui da noi non so neanche se vi siete resi conto che abbiamo cambiato pane e vino della Santa Cena. In questo periodo utilizziamo del succo d’uva perché abbiamo parecchie persone tra di noi che per vari motivi non possono bere alcool e prendiamo del pane senza glutine perché c’è uno, solo uno ma anche lui dev’essere incluso, che non digerisce altro pane. È semplice se c’è la voglia di includere e se c’è amore tra di noi.
Mi sono chiesta che cosa Paolo scriverebbe a noi. Mi sono venute l’una o l’altra cosa in mente che però non vi dico. Chiedo a voi di pensare una volta se ci siano nella nostra chiesa dei punti critici. A questa domanda ognuno deve rispondere per se stesso. In qualche modo, per come io vivo la mia vita e la mia fede, creo scompiglio ad un fratello, ad una sorella? E quanto sono disposto a cambiare, a limitare la mia libertà per amore dell’altro? Non è una decisione semplice. Non è una decisione che qualcun altro può pretendere. È una decisione che viene dall’amore che io per primo ho ricevuto.
Dio ci dirà una volta se siamo stati in grado di vivere questo equilibrio così fine tra libertà e rispetto, tra testimonianza e giudizio.
Vorrei terminare con la profezia di Isaia che cita Paolo e che vale anche per noi oggi: «Come è vero che vivo», dice il Signore, «ogni ginocchio si piegherà davanti a me, e ogni lingua darà gloria a Dio». Questa è la nostra speranza.
Amen
Ulrike Jourdan

Sermone: LE RICHEZZE INGIUSTE

Luca 16, 1-8 – Parabola del fattore infedele

Gesù diceva ancora ai suoi discepoli: «Un uomo ricco aveva un fattore, il quale fu accusato davanti a lui di sperperare i suoi beni. Egli lo chiamò e gli disse: “Che cos’è questo che sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché tu non puoi più essere mio fattore”.

Il fattore disse fra sé: “Che farò, ora che il padrone mi toglie l’amministrazione? Di zappare non sono capace; di mendicare mi vergogno. So quello che farò, perché qualcuno mi riceva in casa sua quando dovrò lasciare l’amministrazione”.

Fece venire uno per uno i debitori del suo padrone, e disse al primo: “Quanto devi al mio padrone?” Quello rispose: “Cento bati d’olio”. Egli disse: “Prendi la tua scritta, siedi, e scrivi presto: cinquanta”.

Poi disse a un altro: “E tu, quanto devi?” Quello rispose: “Cento cori di grano”. Egli disse: “Prendi la tua scritta, e scrivi: ottanta”.

E il padrone lodò il fattore disonesto perché aveva agito con avvedutezza; poiché i figli di questo mondo, nelle relazioni con quelli della loro generazione, sono più avveduti dei figli della luce.

 

E’ questa una parabola un po’ strana, dove ci viene presentato un individuo che, diremmo oggi, si è reso colpevole di malversazione.

Nell’affrontare questa scritto va fatta una doverosa premessa: il fattore di cui si parla non è un “fattore agricolo”, bensì un vero e proprio amministratore dei beni del padrone, perché gestisce i crediti che il suo signore può vantare.

Orbene, questo amministratore pone il proprio interesse personale in primo piano, invece di curare i beni che gli sono stati affidati e li sperpera a suo esclusivo vantaggio. Non si cura nemmeno di fare il proprio interesse, magari accantonandoli per se stesso, infatti il suo problema, a fronte del licenziamento, è che non sa come farà a vivere in futuro, perché non sa lavorare la terra e prova vergogna nel mendicare. Quindi, evidentemente, non può contare su ricchezze che ha messo da parte.

E’ chiaramente colpevole, perché non ci viene riferito che, a fronte della contestazione che gli viene mossa, egli faccia una benché minima opposizione.

Ma dobbiamo notare ancora che, dopo essere stato scoperto, il suo atteggiamento è ancora incentrato su se stesso, su cosa farà in futuro e non viene nemmeno sfiorato dalla vergogna per il suo comportamento. Il suo unico scopo è trovare una soluzione per la sua vita futura, quando si troverà senza un lavoro che gli dia sostentamento.

E allora cosa fa? Fa quello che sa fare: approfittarsi degli altri, inducendoli con gli sconti che pratica a nutrire sentimenti di riconoscenza, cioè di debito morale, così che quando sarà disoccupato, costoro lo accolgano in casa.

Questo individuo quindi non viene nemmeno sfiorato dal rimorso per il suo comportamento, anzi, con astuzia, persevera nel suo modo di fare: strumentalizzare gli altri, ingenerando in loro riconoscenza.

Possiamo anche immaginare che il padrone sia molto arrabbiato con lui, tanto da licenziarlo, ma, a fronte del reiterato comportamento disonesto, anziché irritarsi ancor di più ….. addirittura lo loda. Incredibile! Illogico possiamo dire.

Tanto illogico da farci chiedere: cos’è che colpisce positivamente il padrone?

Ci viene riferito che questo signore viene colpito dall’avvedutezza del suo collaboratore, o, potremmo dire in modo migliore, dalla furbizia, dall’intraprendenza, caratteristiche che Gesù ci dice essere dei figli di questo mondo e non dei figli della luce.

Ma c’è un’altra considerazione da fare. In molti passi dei vangeli troviamo l’idea che Gesù ha nei confronti della ricchezza terrena, che puzza spesso di ingiustizia e che viene contrapposta alla vera ricchezza. Solo per dirne un paio, ricordiamoci come tratta i mercanti del tempio, oppure come ammonisce sul fatto che il credente non può servire due padroni: Dio e Mammona, cioè il denaro.

Ma questo non ci deve indurre a pensare ad un messaggio evangelico buonista, incentrato sulla mistica della povertà, infatti conosciamo bene anche la parabola del padrone che affida i suoi beni ai servi (parabola dei talenti in Matteo 25) e che alla fine è giudice sul fatto che essi li abbiano messi a frutto.

Ma allora, qual è l’insegnamento che ci viene dalla parabola che è oggetto della nostra riflessione odierna?

Direi che potremmo pensare che a, anche a fronte di ricchezze ottenute ingiustamente, queste possono essere convertite in mezzi per l’aiuto agli altri.

Sia chiaro: nessuna giustificazione per l’amministratore disonesto! A lui va solo il riconoscimento per le capacità pratiche, per la furbizia, per l’intraprendenza. Tutte caratteristiche che egli ha però utilizzato solo per il proprio interesse e non certo per l’interesse altrui. Perciò …. nessun merito.

Quindi l’insegnamento di Gesù per il suo uditorio e per noi è che, a fronte di ricchezze anche ingiuste, dobbiamo essere capaci di convertirle per far del bene agli altri.

E qui si apre una riflessione sulle nostre ricchezze ingiuste, sul fatto che dobbiamo avere la consapevolezza che noi stessi siamo possessori di ricchezze ingiuste, magari perché derivanti non tanto da nostri comportamenti disonesti, ma dal fatto che socialmente abbiamo potuto godere di situazioni collettive ingiuste, dove la distribuzione della ricchezza non è certo equa e, nonostante ciò, continuiamo a sentirci “padroni a casa nostra” e “padroni di ciò che abbiamo”, continuando a relegare nella miseria coloro che non fanno parte del nostro mondo, ma che magari sono di una parte del mondo che in passato è sempre stata sfruttata per i nostri interessi.

Le nostre ricchezze ingiuste derivano anche dai nostri risparmi negli acquisti di beni che sappiamo derivare da sfruttamento della manodopera (e non solo in altri paesi del mondo, ma anche qui). Le nostre ricchezze ingiuste derivano anche dallo sfruttamento indiretto di altri esseri umani, dai grandi margini economici che possiamo avere negli affari, dalle furbizie che talvolta mettiamo in atto per non pagare regolarmente le tasse, quietando magari le nostre coscienze affermando che c’è chi ruba di più.

Anche queste sono ricchezze ingiuste, che non hanno nulla da invidiare alle ricchezze per malversazione sperperate per il proprio tornaconto dal fattore della nostra parabola.

Ecco, queste ricchezze ingiuste che noi abbiamo fra le mani devono essere “convertite” con astuzia, con intraprendenza, con fantasiosa dedizione per il bene di altri. In altre parole, potremmo dire che i figli della luce devono avere la consapevolezza che “ciò che sembra mio non è mio, ma mi è solo stato affidato” e per ciò stesso va condiviso.

Certo potrà darsi il caso che le mie ricchezze io le condivida con qualcuno che magari fa il furbo, che mi vuole sfruttare, che si vuole approfittare di me, però questo non è un problema mio: è un problema di SUA disonestà!

Ma in questa parabola, che ci invita a farci amici con le ricchezze ingiuste, io vedo anche un altro aspetto.

Le ricchezze che abbiamo ricevuto dal nostro Signore non sono solo materiali. Sono anche i doni che abbiamo ricevuto e che continuiamo a ricevere “ingiustamente”, cioè che ci vengono elargiti senza alcun merito da parte nostra, quindi senza alcuna correlazione ad un “giusta distribuzione”.

Ne abbiamo ricevuti e ne riceviamo in abbondanza. Sono i talenti che ci sono stati affidati e dell’uso dei quali un giorno dovremo rendere conto. Abbiamo ricevuto intelligenza, opportunità, capacità, conoscenza, beni materiali, relazioni di amicizia, perfino la nostra stessa fisicità.

E queste ricchezze noi come le usiamo?

Le sperperiamo per il nostro benessere, come fossero una nostra proprietà esclusiva, oppure sappiamo metterle a disposizione di altri? Le utilizziamo per i nostri interessi materiali o emotivi, oppure sappiamo farne parte con coloro che magari ne hanno bisogno? E quando ne facciamo parte, lo facciamo perché siamo consapevoli che così deve essere fatto, oppure lo facciamo per ingenerare sentimenti di debito e riconoscenza negli altri, quindi, ancora una volta, per accumulare meriti e considerazione per noi stessi?

E badate bene che una ricchezza, un dono immenso, è anche la capacità di amare che ci è stata data, quella capacità che ci mette in relazione con gli altri per instaurare autentici rapporti d’amore, sia amicali che passionali. Ma, se siamo stati dotati della capacità di amare, la rivolgiamo solo verso noi stessi, in un atteggiamento di nevrosi di conversione, oppure la porgiamo a coloro che incrociano la loro vita con la nostra?

E se riusciamo a porgere questo dono agli altri, lo facciamo per reale amore, per autentico altruismo, o per prendere in ostaggio emotivo le loro persone, i loro sentimenti, la loro libertà?

Credo che su questi aspetti dobbiamo fare una seria riflessione.

AMEN

Liviana Maggiore