Sermone: SOLUS CHRISTUS – FESTA DELLA RIFORMA

Spesso mi sono sentita dire da persone non evangeliche che Lutero è stato un grande perché ha avuto il coraggio di opporsi al potere temporale della chiesa cattolica e al mercimonio che stava alla base del desiderio di continuo arricchimento della stessa. Tutto vero, ma noi evangelici sappiamo bene che la Riforma ha anche ben altre radici, perché ha riguardato non solo gli aspetti puramente “temporali” bensì, forse più importanti, aspetti squisitamente teologici.

Sulle vetrate della nostra chiesa abbiamo voluto testimoniare il nostro essere una chiesa riformata riportando i cinque “sola” di Lutero, in modo che coloro che magari li leggono, abbiano un assaggio di ciò in cui crediamo.

Ebbene, uno dei cinque “solas” dice “Solus Christus”, perché è solo lui il fulcro della nostra fede e perché la salvezza è stata già operata grazie all’opera sua e al suo sacrificio per l’espiazione del nostro peccato.

Ma questo profondo convincimento che abbiamo non deve rimanere un fatto nostro personale, perché, come chiesa e come singoli, siamo chiamati ad annunciare senza paura il suo messaggio, siamo chiamati ad essere profeti.

Se veramente Cristo è il centro della nostra fede siamo tutti chiamati ad essere suoi collaboratori, con i nostri limiti certo, con i nostri timori forse, ma, forti della sua grazia, dobbiamo essere costruttori del suo regno, come dice Paolo nel passo che andiamo a leggere da 1 Corinzi 3:9-13.

«Noi siamo infatti collaboratori di Dio, voi siete il campo di Dio, l’edificio di Dio.  Secondo la grazia di Dio che mi è stata data, come esperto architetto, ho posto il fondamento; un altro vi costruisce sopra. Ma ciascuno badi a come vi costruisce sopra; poiché nessuno può porre altro fondamento oltre a quello già posto, cioè Cristo Gesù. Ora, se uno costruisce su questo fondamento con oro, argento, pietre di valore, legno, fieno, paglia, l’opera di ognuno sarà messa in luce; perché il giorno di Cristo la renderà visibile; poiché quel giorno apparirà come un fuoco; e il fuoco proverà quale sia l’opera di ciascuno».

Nella mia azienda ricevo sovente richieste di assunzione da parte di persone che cercano posto e che mi presentano un curriculum nel quale magari elencano in modo assai edulcorato precedenti esperienze di lavoro.

Ebbene, in tanti anni, coi capelli bianchi che mi ritrovo, posso garantirvi che non ho mai assunto un collaboratore per le esperienze precedenti che ha avuto. Ho sempre preferito fidarmi del mio istinto nell’impressione che mi dava al colloquio e quando per caso, durante il colloquio la persona riportava con enfasi la sua bravura nei lavori passati, gentilmente dicevo che non mi interessava, ma che più semplicemente, in caso di assunzione, avrei voluto vedere come lavorava e come si poneva di fronte a ciò che doveva fare. Insomma, l’avrei giudicato in base ai risultati, cioè “ai frutti” che avrebbe saputo dare.

Lo stesso approccio dobbiamo averlo nei confronti di noi stessi come credenti perché, in quanto tali, riteniamo di aver ricevuto un gran dono, fra gli altri: la fede.  La fede in Gesù Cristo che è nato, è vissuto ed infine è morto e risorto per riscattarci dal peccato.

Noi quindi ci definiamo “cristiani” perché solo Gesù è il fulcro del nostro credere, è la stella polare che ci indica il cammino. Appunto: “solus Christus”, perché siamo convinti che lui è Dio, è una delle tre manifestazioni di quel Signore in cui diciamo di credere.

A lui ci ispiriamo; sugli scritti del Nuovo Testamento che parlano di lui studiamo e preghiamo, sui testi dell’Antico Testamento che lo annunciano andiamo a dissetare il nostro bisogno di conoscenza sul volere di Dio.

Tutto giusto! Ma non basta!  E non bastava nemmeno al padre della Riforma.

Negli anni precedenti la Riforma vi era un vuoto di predicazione cristocentrica. Addirittura durante le funzioni, le messe, il più delle volte non venivano fatti i sermoni, così che gran parte della gente di fatto non conosceva la Bibbia e la religione veniva quindi percepita da molti come un imperio sui comportamenti da tenere che dovevano essere coerenti con quanto veniva comandato (o minacciato) dall’oratore di turno.

La fede assumeva così un ruolo di secondo piano, infatti era noto che il popolo doveva avere la fede del proprio principe, del signore territoriale. Se il principe cambiava religione, il popolo doveva seguirlo.

E ciò accadeva proprio perché la predicazione era latente, la conoscenza della sacra scrittura era riservata a pochi dotti, a una categoria di persone (il clero) spesso asservita al potere temporale della chiesa o del principe di turno.

In questa situazione il definire di Lutero “solus Christus” comporta una vera e propria rivoluzione di pensiero, perché cambia il fulcro dell’attenzione religiosa e spirituale. Solo Cristo è il Signore e solo Lui, con il sacrificio della croce, può riscattare l’uomo dal peccato e questo riscatto avviene per pura grazia! Non certo azioni devozionali più o meno economicamente onerose.

Cristo è la grazia, misericordia, giustizia, verità, sapienza, potenza, conforto e salvezza donateci da Dio senza alcun nostro merito.

La convinzione di Lutero era che tutta la Scrittura era stata data a motivo di Cristo, così che Egli potesse essere conosciuto e glorificato. In Cristo solo la Scrittura e l’adorazione trovano il loro significato. Cristo è la sostanza della Scrittura. Se Cristo è conosciuto, allora ogni altra cosa nelle Scritture diviene chiara e in grado di essere compresa. Lutero vedeva ogni passaggio nella Bibbia, che fosse nell’Antico o nel Nuovo Testamento, come un puntatore verso Cristo.

Cristo è la salvezza dell’uomo. Cristo è la salvezza della chiesa.

E proprio per questo il credente in Cristo non può esimersi dall’annuncio, dalla predicazione, perché la fede in quel Gesù figlio di Dio non può e non deve rimanere un fatto puramente individuale, intimistico, da coltivare nel segreto del proprio cuore senza alcun annuncio all’esterno.

Se il credente si sente rinnovato dal suo seguire Cristo non può vivere questa sua rigenerazione solo personalmente, magari delegando alla chiesa l’onere dell’annuncio, della predicazione.

Cristo deve non soltanto essere proclamato, ma Cristo deve essere udito attraverso la predicazione, quella predicazione che fa parte dei frutti del credente, di colui che Paolo dice essere un “collaboratore” di Dio.

Lutero mise la Bibbia a disposizione del popolo, nella sua lingua, affinché tutti potessero sentire nel loro idioma la parola di Dio.  Lutero utilizzò anche la musica popolare per avvicinare le genti alla Parola.  E tutto questo lo fece affinché ognuno potesse finalmente conoscere la Scrittura, magari anche solo parti di essa, perché così ciascuno poteva confrontarsi con quella figura straordinaria posta al centro della fede: Gesù Cristo.

Ma cosa ce ne facciamo di questa centralità di Gesù Cristo?

Certo, l’ispirazione che ci deriva dalla sua vita ci induce a comportamenti fraterni e solidali, ci spinge a vivere nella libertà dei figli di Dio, cioè di coloro che hanno chiara consapevolezza della costante situazione di peccato in cui si vive, ma hanno anche chiara la visione del perdono per grazia, della venuta del regno di Dio. E questo ci dà un respiro che ci porta a una dimensione verticale, alla speranza di far parte un giorno di un’altra realtà, di una vita che è ben più di quella che viviamo in questo scampolo di anni terreni.

E già fin qui possiamo dire che l’eredità della Riforma è ricca, ma fra i molti aspetti della Riforma degni di considerazione ce n’è un altro assai importante per l’epoca e anche ai giorni nostri: è il fatto che essa costituì un ritorno al primato della predicazione.

La Riforma fu un grande risveglio della predicazione, probabilmente il più grande nella storia della Chiesa Cristiana, perché proprio nel periodo del tardo Medioevo, i Riformatori espansero la predicazione, quasi a voler ravvivare e ritornare ai giorni della chiesa primitiva, quando la predicazione era al centro del servizio e quando il popolo di Dio si nutriva della Parola proclamata.

Pensiamo solo a quanti passi del Nuovo Testamento ci presentano persone che ben conoscevano le scritture (i farisei, per esempio).

La predicazione, la conoscenza della Bibbia, l’annuncio: questo è ciò che rende la Riforma così pertinente anche ai giorni nostri. Perché è specialmente questa eredità della pura predicazione della Parola che noi riteniamo così necessaria per la chiesa di tutte le epoche, e così preziosa per noi.

Ogni Cristiano veramente riformato vuole la predicazione della Parola, perché egli sa che è questo ciò che Dio ha ordinato ai suoi seguaci. In questo senso dobbiamo leggere l’invito di Paolo ai cristiani di Corinto.

E noi, davanti a tutto ciò, come reagiamo?  Noi, cristiani riformati del 21mo secolo, intendiamo coltivare la nostra fede solo nella nostra intimità personale o, al massimo, nelle nostre chiese?  No, non è questo ciò che ci viene comandato, non consiste in questo l’essere collaboratori di Dio, non possiamo nascondere i talenti che ci sono stati donati né nascondere la lampada sotto il moggio.

Siamo invece chiamati ad essere profeti, proprio come il Signore chiamò Geremia quand’era ancora un giovane che temeva di non saper parlare.

E allora, sorelle e fratelli in Cristo, noi tutti figli della Riforma non abbiamo altra scelta se non coltivare la nostra fede con la frequentazione della Scrittura e proclamarla al mondo, individualmente e come chiesa, annunciando il regno di Dio, nel nome di Gesù Cristo.

AMEN

Liviana Maggiore

Sermone: PERDONO E’ PACE

Domenica 21 novembre si è tenuto presso il santuario antoniano dell’Arcella un incontro interreligioso che aveva come tema “Perdono è Pace”. La nostra chiesa vi ha partecipato e di seguito si riporta la meditazione tenuta.

Breve presentazione chiesa evangelica metodista come chiesa riformata (chiesa cristiana con sacerdozio universale, e “5 sola” di Lutero: sola scriptura, sola gratia, sola fide, solus Christus, soli Deo gloria).

Per l’incontro di oggi ho preparato una meditazione su base biblica che voglio condividere, però solo dopo un saluto a tutti voi con il v. 37 tratto dall’evangelo di Luca al cap. 6 “Non giudicate e non sarete giudicati, non condannate e non sarete condannati. Perdonate e sarete perdonati”.

Il tema di quest’anno recita “PERDONO È PACE”. Ma di quale perdono stiamo parlando? Abbiamo noi veramente la capacità di esercitare il perdono?

Forse possiamo capirlo se prima comprendiamo che NOI SIAMO PERDONATI DA DIO, ma per comprendere questo dobbiamo riflettere sulla Bibbia, dobbiamo guardare dentro al nostro cuore per scovare dove abbiamo nascosto un grande dono che ci è stato fatto: la fede, la fiducia assoluta in quel Signore che sa ogni giorno perdonarci, quel Signore che più volte, come leggiamo in vari passi della Bibbia, dopo l’ira è tornato a rinnovare il suo patto con l’uomo.

Ed è quello stesso Signore che ci sollecita con le parole che troviamo scritte in 1 Pietro 3,8-9.  Siate tutti concordi, compassionevoli, pieni di amore fraterno, misericordiosi e umili; non rendete male per male, od oltraggio per oltraggio, ma, al contrario, benedite; poiché a questo siete stati chiamati affinché ereditiate la benedizione.

Ma non solo. La sollecitazione al perdono, o quantomeno alla riflessione sul perdono che ci deriva da Dio, la troviamo in moltissimi passi della sacra scrittura e oggi ho scelto per voi Genesi 9:8-12,17 su cui riflettere.

Poi Dio parlò a Noè e ai suoi figli con lui dicendo: «Quanto a me, ecco, stabilisco il mio patto con voi, con i vostri discendenti dopo di voi e con tutti gli esseri viventi che sono con voi: uccelli, bestiame e tutti gli animali della terra con voi; da tutti quelli che sono usciti dall’arca, a tutti gli animali della terra. Io stabilisco il mio patto con voi; nessun essere vivente sarà più sterminato dalle acque del diluvio e non ci sarà più diluvio per distruggere la terra». Dio disse: «Ecco il segno del patto che io faccio tra me e voi e tutti gli esseri viventi che sono con voi, per tutte le generazioni future».

…. e il segno fu l’arcobaleno

Dio disse a Noè: «Questo è il segno del patto che io ho stabilito fra me e ogni essere vivente che è sulla terra».

Nella lettura di Genesi abbiamo visto la costituzione del patto, dell’alleanza fra Dio e l’uomo. Dopo una terribile catastrofe (il diluvio), riferita come una punizione per la grande ira di Dio a causa dell’infedeltà dell’uomo, il Signore si ricrede, torna sui suoi passi, comprende bene che l’uomo è una sua creatura, una creatura che Egli ha lasciato libera di agire come crede, libera anche di ribellarsi a Lui e, con una descrizione favolistica e poetica, ristabilisce il rapporto con un segno: l’arcobaleno.

Pace fatta? Sì, temporaneamente, perché l’uomo non riesce a coltivare un cuore puro, non riesce a vivere in pace nella fedeltà al Signore, nemmeno quando il Signore lo soccorre e viene in suo aiuto.

L’uomo continua pervicacemente a vivere la propria esistenza, infischiandosene ampiamente del condursi nella vita in correttezza, rettitudine e fratellanza. L’uomo preferisce crearsi idoli vari.

L’uomo è fatto così, nella sua stessa indole è sempre presente la tendenza alla trasgressione, al peccato, all’oltraggio al Signore, il quale alternativamente si arrabbia furiosamente con la sua creatura e poi torna a perdonarlo, perché Egli sa bene solo un Suo riavvicinamento con l’uomo può portare quest’ultimo alla salvezza, alla redenzione.

Un riavvicinamento che, nel Nuovo Testamento, ci viene presentato come il dono più grande che il Signore fa, nel tentativo che il cuore umano finalmente si converta: la venuta di Gesù, Figlio di Dio, in terra. La venuta in terra non su un carro infuocato, ma con la semplice nascita di uomo fra gli uomini.

E quando l’uomo, il credente, si rende conto della propria infedeltà, del susseguirsi dei propri insuccessi nel seguire le vie del Signore cosa succede?

Può accadere una cosa assai negativa: interiorizzare il proprio senso di inadeguatezza, coltivando sensi di colpa e insoddisfazione costante, percorrendo una strada di costante frustrazione perché non si sente perdonato. Ma questo non è un problema di fede, bensì psicologico!

Ecco allora che, da fedeli, possiamo comprendere quanto sia stato grande l’amore di Dio per l’uomo che viene ad essere il destinatario di un grandissimo dono: il perdono. Quel perdono gratuito che ci dà la possibilità di rasserenarci, di cominciare da capo, di sentirci amati nonostante il nostro essere infedeli e peccatori.

Dio rinnova costantemente il suo patto con noi. E lo fa non certo togliendoci le nostre responsabilità, né tantomeno limitando la nostra libertà, ma lo fa concedendoci la grazia di essere suoi figli, accogliendoci così come siamo.

Gesù è l’incarnazione del rinnovato patto, della rinnovata alleanza fra Dio e l’uomo e, nonostante l’uomo, è colui che dice anche “Quando vi avrò preparato un luogo, tornerò e vi accoglierò presso di me, affinché dove sono io, siate anche voi”, come troviamo scritto in Giov. 14, dove leggiamo anche dell’insipienza di Tommaso, il quale, proprio come noi, non ha ben capito la portata della figura di Gesù. E la risposta di Gesù è chiara: “Io sono la via, la verità e la vita; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me”.

È chiara questa risposta? Sembrerebbe di sì.

Ma noi ci crediamo a questa risposta? Come credenti dovremmo crederci e non dovremmo nutrire dubbio alcuno. Se invece non ci crediamo, nell’assoluta libertà che abbiamo, dovremmo essere intellettualmente onesti e non definirci cristiani (nonostante le tradizioni), non parlare del perdono.

Ma c’è anche un altro aspetto, un’idea costante che mi ha assillato nella riflessione durante la preparazione di questa testimonianza sul perdono, sul rinnovo del patto fra Dio e l’uomo: qual è la valenza particolare della conferma dell’alleanza con Dio?

Con la venuta di Gesù, col grande dono del perdono gratuito, Dio guarisce il nostro cuore di pietra e ci dà la possibilità di interpretare la legge dell’amore e della fratellanza non come una norma esteriore, esterna all’essere umano, ma come l’unico modo di condursi nella vita.

Con il perdono gratuito Dio ci vuol dire che la legge dell’amore è anni luce distante dai semplici comandamenti di Mosè, perché la legge dell’amore, dell’accettazione, del perdono, non è scritta su tavole di pietra, ma è incisa nel cuore di carne, nel nostro cuore, quel cuore che la fede fa cambiare e, una volta cambiato, induce al perdono anche tra noi, tra uomini e donne di fedi diverse, senza giudizi e senza precomprensioni.

Ecco allora, sorelle e fratelli, che ancora una volta possiamo solo innalzare al Signore la nostra preghiera di lode e ringraziamento perché il rinnovo del patto e il perdono sono per tutti noi, collettivamente e individualmente.

E se avremo accettato il perdono e se riusciremo a perdonare veramente noi stessi e gli altri, solo allora potrà diffondersi l’accettazione di chi è diverso da noi e solo allora cammineremo verso la pace.

AMEN

Liviana Maggiore

Sermone: NELLA DISPERAZIONE

Lamentazioni 3,1-40

Io sono l’uomo che ha visto l’afflizione sotto la verga del suo furore. Egli mi ha condotto, mi ha fatto camminare nelle tenebre e non nella luce. Sì, contro di me di nuovo volge la sua mano tutto il giorno. Egli ha consumato la mia carne e la mia pelle, ha spezzato le mie ossa. Ha costruito contro di me e mi ha circondato di veleno e di affanno. Mi ha fatto abitare in luoghi tenebrosi, come quelli che sono morti da lungo tempo. Mi ha circondato di un muro, perché non esca; mi ha caricato di pesanti catene. Anche quando grido e chiamo aiuto, egli chiude l’accesso alla mia preghiera. Egli mi ha sbarrato la via con blocchi di pietra, ha sconvolto i miei sentieri. È stato per me come un orso in agguato, come un leone in luoghi nascosti. Mi ha sviato dal mio cammino, e mi ha squarciato, mi ha reso desolato. Ha teso il suo arco, mi ha posto come bersaglio delle sue frecce. Mi ha fatto penetrare nelle reni le frecce della sua faretra. Io sono diventato lo scherno di tutto il mio popolo, la sua canzone di tutto il giorno. Egli mi ha saziato d’amarezza, mi ha abbeverato d’assenzio. Mi ha spezzato i denti con la ghiaia, mi ha affondato nella cenere. Tu mi hai allontanato dalla pace, io ho dimenticato il benessere. Io ho detto: «È sparita la mia fiducia, non ho più speranza nel Signore!»

Ricòrdati della mia afflizione, della mia vita raminga, dell’assenzio e del veleno! Io me ne ricordo sempre, e ne sono intimamente prostrato. Ecco ciò che voglio richiamare alla mente, ciò che mi fa sperare: è una grazia del Signore che non siamo stati completamente distrutti; le sue compassioni infatti non sono esaurite; si rinnovano ogni mattina.

Grande è la tua fedeltà! «Il Signore è la mia parte», io dico, «perciò spererò in lui». Il Signore è buono con quelli che sperano in lui, con chi lo cerca. È bene aspettare in silenzio la salvezza del Signore. È bene per l’uomo portare il giogo della sua giovinezza. Si sieda solitario e stia in silenzio quando il Signore glielo impone! Metta la sua bocca nella polvere! Forse c’è ancora speranza. Porga la guancia a chi lo percuote, si sazi pure di offese! Il Signore infatti non respinge per sempre; ma, se affligge, ha pure compassione, secondo la sua immensa bontà; poiché non è volentieri che egli umilia e affligge i figli dell’uomo.

Quando uno schiaccia sotto i piedi tutti i prigionieri della terra, quando uno vìola i diritti di un uomo in presenza dell’Altissimo, quando si fa torto a qualcuno nella sua causa, il Signore non lo vede forse? Chi mai dice una cosa che si avveri, se il Signore non l’ha comandato? Il male e il bene non procedono forse dalla bocca dell’Altissimo? Perché si rammarica la creatura vivente? L’uomo vive malgrado i suoi peccati!

Esaminiamo la nostra condotta, valutiamola, e torniamo al Signore!

 

Strano il libro delle Lamentazioni e forse poco frequentato. Eppure, se lo leggiamo, troviamo in esso molto di noi stessi, molte nostre emozioni, molti nostri pensieri. In questo passo mi sono sentita coinvolgere da sensazioni che spesso ho provato, sentimenti che forse non dovrebbero sfiorare la mente di un credente, ma che pure ci sono e che quindi devono essere presi in mano e fatti oggetto di riflessione.

Quella che abbiamo letto è la terza Lamentazione, diversa dalle altre quattro che compongono con lei il breve libro dell’antico testamento. Già la denominazione “Lamentazioni” ci fa capire che potremmo trovare in questo libro parole di sconforto, espressioni di dolore, infatti possiamo leggere tutto lo strazio dei sopravvissuti alla distruzione del tempio e alla devastazione di Gerusalemme.

Potremmo dire che quelle sono lamentazioni “pubbliche”, di tutto un popolo che soffre per la distruzione della città simbolo di Israele, mentre quella che abbiamo letto per la meditazione di oggi è invece “privata”, o meglio individuale.

Perché “privata”?  Abbiamo sentito che inizia con “Io sono l’uomo che ha visto l’afflizione…”; è il lamento di una singola persona che guarda essenzialmente al proprio dolore.

Il lamento di un singolo inserito nel cuore della disperazione collettiva, infatti delle cinque lamentazioni questa è la terza, la centrale. E questo probabilmente non è un caso, perché denota che, anche nel cordoglio collettivo, nella sofferenza contemporanea di migliaia di persone, ognuno porta il peso del proprio dolore individuale, un dolore unico e diverso.

Ancor oggi facciamo questa esperienza, quando nei disastri collettivi oppure negli sconvolgimenti di intere popolazioni per guerre e fame, sentiamo il dolore dei singoli individui che parlano della loro individuale disperazione perché hanno perso tutto oppure perché raccontano le loro sofferenti esperienze di vita.

E nello strazio individuale noi che ascoltiamo scorgiamo la sofferenza di interi gruppi o di intere popolazioni, ben sapendo che non vale comunque a nulla il vecchio adagio “mal comune mezzo gaudio”, perché nello sgomento di un singolo individuo, nella sua sofferenza, possiamo vedere troppo spesso il dolore di interi gruppi o addirittura di intere popolazioni.

Allora, vediamo cosa dice del suo strazio personale (che è l’eco dello strazio del suo popolo) quest’ebreo di ventisette secoli fa.

L’avvio del passo biblico è subito incisivo e toccante: “Io sono l’uomo che ha visto l’afflizione”. Un uomo, una persona che ha sofferto nel corpo e nello spirito, un uomo il cui dolore arriva alla disperazione, perché conosce anche troppo bene la causa della sua sofferenza, e il suo sgomento è grande perché l’afflizione è causata dalla “verga del suo furore”.

Il “suo” furore. Ma allora quest’uomo sa bene che c’è un responsabile per tanto dolore! E questo responsabile per l’uomo ha un nome ben preciso: è Dio!

Le immagini riportate nelle descrizioni di tanta sofferenza cercano di esprimere ciò che non è descrivibile perché il dolore è così immenso che qualsiasi parola non riesce a comunicarlo. Meglio quindi cercare di addossare la colpa dello strazio a questo Iddio che, nella visione del sofferente, è stato l’artefice di un simile disastro: “Egli mi ha condotto, mi ha fatto camminare nelle tenebre e non nella luce. Sì, contro di me di nuovo volge la sua mano tutto il giorno. Egli ha consumato la mia carne e la mia pelle, ha spezzato le mie ossa. Ha costruito contro di me e mi ha circondato di veleno e di affanno. Mi ha fatto abitare in luoghi tenebrosi, come quelli che sono morti da lungo tempo. Mi ha circondato di un muro, perché non esca; mi ha caricato di pesanti catene. Anche quando grido e chiamo aiuto, egli chiude l’accesso alla mia preghiera. Egli mi ha sbarrato la via con blocchi di pietra, ha sconvolto i miei sentieri. È stato per me come un orso in agguato, come un leone in luoghi nascosti. Mi ha sviato dal mio cammino, e mi ha squarciato, mi ha reso desolato. Ha teso il suo arco, mi ha posto come bersaglio delle sue frecce. Mi ha fatto penetrare nelle reni le frecce della sua faretra”.

A ben pensarci sono immagini cruente, che toccano il cuore, che danno l’idea che quest’uomo non sa più chi è e si sente come fosse strappato via da sé stesso, completamente smarrito, come fosse condannato a non vedere più alcuna luce e speranza nella propria vita, in un completo disfacimento spirituale e fisico.

Questa è la disperazione di un uomo che si sente preda di un nemico che lo assedia e lo insegue, proprio come coloro che in Gerusalemme si sentivano tutti preda dei Caldei, prigionieri in una città affamata e assediata dal nemico.

E tutto questo è opera di Dio! Di quel Dio che ha permesso che la sua città venga distrutta, che il suo tempio devastato, che il suo popolo affamato e ucciso.

Ed è un Dio che non puoi dimenticare, anche se lo vorresti, perché lui non ti lascia, non si dimentica di te, ma ti afferra, ti stringe, ti blocca rendendoti prigioniero addirittura costruendo un muro, lasciandoti solo nella tua disperazione, un Dio perfino sanguinario e feroce, come un “orso in agguato” e “un leone” che s’appiatta nei nascondigli, pronto a balzarti addosso per sbranarti.

E sei sempre più solo. Sei tu con la tua disperazione. Sei tu col tuo dolore. Sei tu con la tua incapacità di muoverti, perfino di scappare, di reagire.

Capiamo noi quest’uomo? Credo proprio di sì, perché sono convinta che ognuno di noi abbia provato nella vita dolori forti, sgomento totale, perdita di ogni speranza e incapacità di credere che qualcosa possa cambiare. Se non lo abbiamo provato, possiamo ritenerci soddisfatti oppure possiamo forse pensare di aver guardato ai nostri accadimenti di vita con una certa superficialità, forse.

Quando sei nell’assoluta disperazione, quando ti senti solo attanagliato dall’angoscia e dal dolore, ti coglie la solitudine esistenziale, credi che nessuno possa percepire ciò che provi e magari ti lasci andare, cadi nello sfinimento completo, in quella situazione dove perfino il lamento si fa sempre più fievole, dove il pianto prende il sopravvento, un pianto che diventa quasi un monologo triste appena sussurrato, rivolto solo a noi stessi.

Così accade anche al nostro protagonista che dice: “È sparita la mia fiducia, non ho più speranza nel Signore!”

Ed ecco che, proprio quando la fine è ormai solo ad un passo, d’improvviso tutto cambia. Quest’uomo per la prima volta pronuncia il nome di Dio, anche se lo pronuncia dicendo che non ha più fiducia in lui.

Ma così dicendo, gli capita come a chi ha deciso di lasciare una persona amata e che però poi guarda per caso una sua fotografia, e capisce che non la può lasciare, perché magari ne è ancora innamorato/a.

Non è un esempio banale, perché il nome, nella Bibbia, è veramente come la foto di chi lo porta: ci permette di coglierne i lineamenti, il sorriso, lo sguardo, la sua essenza.  E questo vale anche per il nome di Dio; per questo devi stare molto attento a pronunciarlo, a non dirlo invano, come sta scritto nella legge.

E il nostro autore della Lamentazione dice quel nome fino ad allora taciuto e si scopre ancora “innamorato perso” di colui che lo porta, “innamorato perso del suo Dio… e non soltanto questo: lui, in quel suo nome ancora amato nonostante tutto, coglie chi davvero sia il Signore, per il suo popolo ma soprattutto per lui: è il Dio sempre fedele e che c’è sempre, come colui che – sono le parole del profeta Osea, che forse a questo punto son risalite nella mente e nel cuore di questo antico figlio di Israele – “se ferisce, risana; se colpisce, anche guarisce” … colui che “ti ridà quella vita” che tu già pensavi di aver perso proprio per causa sua (cfr Osea 6,1 s.).

E allora veramente tutto cambia: quel Dio che prima era come un “orso” e un “leone”, adesso è nuovamente il Dio dell’Alleanza, è il tuo Dio, il Signore del dono e della grazia, che ha scelto Israele come suo, e che dentro Israele ha scelto te, ed è con te e per te, in ogni istante della tua esistenza.

Ecco allora la nuova “ripartenza”, la speranza che torna ad illuminarsi, la voce che s’innalza limpida e gioiosa: ”Ecco ciò che voglio richiamare alla mente, ciò che mi fa sperare: è una grazia del Signore che non siamo stati completamente distrutti; le sue compassioni infatti non sono esaurite; si rinnovano ogni mattina. Grande è la tua fedeltà! «Il Signore è la mia parte», io dico, «per questo spero in lui». Il Signore è buono con quelli che sperano in lui, con chi lo cerca.”

E quando la voce torna a farsi limpida, anche la mente si fa di nuovo lucida ed ecco allora che l’uomo che ha scritto questo canto, va avanti ad indagare nel mistero della sofferenza, ne scopre tutti gli aspetti insospettati e, un poco, anche le cause. E sebbene abbia espresso, fino ad un momento prima, tutto il suo orrore per quello che soffriva e ancora soffre, ora non ha paura a penetrare più a fondo nell’abisso, perché sa che così – e soltanto così – potrà risentire in sé stesso la capacità di ritornare a Dio e riamarlo, nonostante le sue quotidiane percosse dolorose.

Guardiamo, sorelle e fratelli, con attenzione e disponibilità di comprensione alla vicenda personale dell’autore della terza Lamentazione, alla sua riscoperta di Dio nata dall’aver pronunciato il suo nome e notiamo come, nella seconda parte di questo canto, il nome del “Signore”, che nella prima parte non era mai stato nominato, torni continuamente, quasi che, riscoperto, l’autore s’incanti a pronunciarlo, per provare (ogni volta e ogni volta di nuovo) la gioia che ha sentito quella prima volta che se l’è trovato sulle labbra.

Per molti aspetti anche noi oggi siamo in crisi ed anche oggi abbiamo bisogno di riflettere su queste parole. Per rinnovare la nostra speranza, ma soprattutto, per riscoprire lui, per riscoprire chi davvero è il nostro Dio, nella sua grandezza e anche perfino nella sua fragilità, nella sua vulnerabilità.

Già, quella vulnerabilità di chi ama e per amore espone e mette in gioco tutto sé stesso. Quella vulnerabilità che abbiamo visto in Gesù, nella sua morte per la nostra salvezza, nella sua passione per il nostro riscatto, nella sua delusione per essere stato molte volte incompreso perfino dai suoi, nel suo sforzo di farsi sentire da noi, sordi e distratti, spesso chiusi nei nostri piccoli e grandi dolori che ci rendono sordi alla voce della speranza, ci fanno concentrare solo sui nostri problemi, dimenticando spesso che, se smettiamo di guardare al nostro ombelico, potremo forse vivere un po’ meglio anche nelle nostre sofferenze e potremo imparare a “com-patire” con il nostro prossimo.  E potremo allora esclamare tutti insieme, con meraviglia e con riconoscenza: ”Il Signore è dalla mia parte, per questo spero in lui”.

AMEN

Liviana Maggiore